A
mali estremi, estremi rimedi. Anche questo fu la guerra fredda in
Italia, là dove il male estremo, più che una generica idea di
comunismo, era la concretissima possibilità che il Partito comunista
italiano andasse al potere.
6 maggio 1976: la bozza del Forign Office sull’ipotesi di “un’azione
in supporto di un colpo di Stato” in Italia
Era il 1976, l'anno delle elezioni più drammatiche dopo quelle del
1948. Ebbene: dinanzi al male assoluto che un governo con il Pci
avrebbe arrecato al sistema di sicurezza dell'Alleanza atlantica,
nel novero degli estremi e possibili rimedi il fronte occidentale,
le potenze alleate e in qualche misura la Nato presero in
considerazione anche l'ipotesi di un colpo di Stato. Un «coup d'Etat»,
letteralmente: alla francese. Eventualità scartata in quanto
«irrealistica» e temeraria.
Nei documenti britannici di cui Repubblica è venuta in possesso
grazie alla norma che libera dal segreto le carte di Stato dopo
trent'anni, ce n'è uno del 6 maggio 1976, ovviamente super-segreto,
elaborato dal Planning Staff del Foreign Office, il ministero degli
Esteri inglese, e intitolato «Italy and the communists: options
forme West». All'inizio di pagina 14, tra le varie opzioni, si legge
in maiuscolo: «Action in support o fa coup d'Etat or other
subversive action». Il tono del testo è distaccato e didattico: «Per
sua natura un colpo di Stato può condurre a sviluppi imprevedibili.
Tuttavia, in linea teorica, lo si potrebbe promuovere. In un modo o
nell'altro potrebbe presumibilmente arrivare dalle forze della
destra, con l'appoggio dell'esercito e della polizia. Per una serie
di motivi – continua il documento - l'idea di un colpo di Stato
asettico e chirurgico, in grado di rimuovere il Pci o di prevenirne
l'ascesa al potere, potrebbe risultare attraente. Ma è una idea
irrealistica». Seguono altre impegnative valutazioni che ne
sconsiglierebbero l'attuazione: la forza del Pci nel movimento
sindacale, la possibilità di una «lunga e sanguinosa» guerra civile,
l'Urss che potrebbe intervenire, i contraccolpi nell'opinione
pubblica dei vari paesi occidentali. E dunque: «Un regime
autoritario in Italia - concludono gli analisti del Western European
Department del Foreign and Commonwealth Office (Fco) - risulterebbe
difficilmente più accettabile di un governo a partecipazione
comunista».
In
politica estera i documenti diplomatici, specie se a uso interno,
hanno una loro fredda determinazione. Gli interessi sono nudi, non
di rado venati di cinismo. Questi che raccontano la crisi italiana
prima e dopo le elezioni del 20 giugno 1976 provengono dai faldoni
desecretati dell'archivio del premier britannico e del ministero
degli esteri. Sono centinaia e centinaia di fogli: corrispondenza
fra i grandi del mondo occidentale, resoconti di riunioni e
incontri, analisi di rischio, lettere di accompagnamento, policy
papers, telegrammi, schede, studi comparati (l'Italia come il
Portogallo della rivoluzione dei garofani, ad esempio), relazioni
dirette alle ambasciate di Sua Maestà a Roma, Parigi, Bonn,
Washington e Bruxelles, quartier generale della Nato.
In
questo abbondante materiale non c'è, ovviamente, solo la rivelazione
del golpe. Eppure, mai come in queste testimonianze scritte il
«Fattore K», come «Kommunism», cioè l'impossibilità per il Pci di
essere accettato al governo nel quadro degli equilibri decisi a
Yalta, trova la sua più realistica rappresentazione. E al massimo
livello. Grazie all'ambasciatore americano a Londra, Elliot L.
Richardson, si viene a conoscere il testo di una lettera privata che
il Segretario di Stato Henry Kissinger scrive in gennaio all'allora
presidente dell'Internazionale socialista Willy Brandi a proposito
della crescita comunista in Italia, Spagna e Portogallo: «Ho il
dovere di esprimere la mia forte preoccupazione per la situazione
che si è venuta a creare. La natura politica della Nato sarebbe
destinata a cambiare se uno o più tra i paesi dell'Alleanza
dovessero formare dei governi con una partecipazione comunista,
diretta o indiretta che sia. L'emergere dell'Urss come grande
potenza nello scenario mondiale continua a essere motivo di
inquietudine. Il ruolo della Nato, così come la nostra immutata
posizione militare in Europa, è indispensabile e cruciale. La mia
ansia consiste nel fatto che questi punti di forza saranno messi in
pericolo nel momento in cui i partiti comunisti raggiungeranno
posizioni influenti nell'Europa occidentale».
Dei vari protagonisti Kissinger è senz'altro il più caparbio e
intransigente. Mentre i vertici della Nato sono fin dall'inizio i
più irrequieti. Scrivono il 25 marzo dal ministero della Difesa
britannica ai colleghi degli Esteri: «La presenza del Pci nel
governo italiano e conseguentemente l'accresciuta minaccia di
sovversione comunista potrebbero collocare l'Alleanza e l'Occidente
dinanzi alla necessità di prendere una decisione grave». È chiaro
che la partita va ben oltre le faccende italiane: «L'arrivo al
potere dei comunisti - si legge in un documento inerno del Fco –
costituirebbe un forte colpo psicologico per l'Occidente. L'impegno
Usa verso l'Europa finirebbe per indebolirsi, potrebbero così
sorgere tensioni gravi fra gli americani e i membri europei della
Nato su come trattare gli italiani». Ma al tempo stesso c'è il
rischio che un governo con Berlinguer sconvolga gli equilibri
consolidati da trent'anni di guerra fredda creando problemi anche
all'Urss, e qui i diplomatici inglesi sottolineano il pericolo che
«le idee riformiste si diffondano in Russia e nell'Europa dell'Est».
Il Pci di Beriinguer, e più in generale quello che allora andava
sotto il nome di «euro- comunismo», costituisce a loro giudizio
una vera e propria «eresia revisionista» e il suo sbocco governativo
porterebbe il dibattito teorico della chiesa marxista sul terreno
della politica reale. Il Pcus ha tutte le ragioni per temere il
«contagio» di un «comunismo alternativo» al potere in occidente. E
tuttavia, secondo altre analisi, su un piano più immediatamente
geopolitico, e militare per l'Urss «i vantaggi supererebbero di gran
lunga gli svantaggi, specie in relazione all'indebolimento della
Nato».
E
insomma, sarebbe un evento «catastrofico». La parola risuona più e
più volte nei papers in attesa delle elezioni italiane. Da
Bruxelles, soprattutto, fanno presente che il tempo stringe e per
questo occorre prepararsi al peggio. «La presenza di ministri
comunisti nel governo italiano porterebbe a un immediato problema di
sicurezza nell'Alleanza - scrive a Londra l'ambasciatore inglese
alla Nato, John Killick - Qualunque informazione in mano ai
comunisti dovrà essere automaticamente considerata a rischio. I
comunisti al potere altro non sono che l'estensione di una minaccia
contro la quale la Nato si batte. Dunque, è preferibile una netta
amputazione (dell'Italia, ndr) piuttosto che una paralisi interna».
13 aprile 1976: ipotesi di "intervento sovversivo o militare contro
il Partito comunista italiano"
Sesta flotta a rischio
La
questione vitale riguarda la sicurezza nucleare, quindi la
dislocazione e la custodia delle bombe atomiche: anche senza
ministri comunisti alla Difesa e agli Esteri, un'Italia governata
dal Pci va comunque esclusa dal Nuclear Planning Group: «Per
dirla con parole crude – chiarisce il Ministero della Difesa - il
rischio è che i documenti sensibili finiscano a Mosca». Altri
problemi hanno a che fare con le basi militari e navali della Nato
nella penisola: «Considerata l'alta percentuale degli italiani che
votano Pci, è quasi certo che alcuni simpatizzanti di questo partito
hanno già penetrato il quartìer generale della Nato a Napoli (Afsouth).Sul
lungo termine il Pci potrebbe accentuare lo spionaggio oppure
spingere per rimpiazzare gradualmente funzionari nei posti chiave
dell'Alleanza con elementi comunisti». A parte gli scioperi, blocchi
e le manifestazioni che potrebbero essere organizzate attorno alle
installazioni militari. In caso di guerra, possono nascere problemi
seri: «La perdita del quartier generale di Napoli, ad esempio,
avrebbe un effetto negativo sulle operazioni della Sesta Flotta nel
Mediterraneo Orientale».
Il
sistema di edifici in vetro, acciaio e cemento che ospita i National
Archives a Kew Gardens, venti minuti di metropolitana a sud di
Londra, sembra una via di mezzo tra una serra e una pagoda. Qui
dentro sono conservati circa trenta milioni di record,
dall'alto medioevo ai giorni nostri. Intorno, cottage, boschi,
giardini e un piccolo lago artificiale popolato da oche e anatre.
Nell'immensa reading room climatizzata, insonorizzata e
strettamente sorvegliata da telecamere e dal personale in elegante
giacca blu, il ricercatore Mario J. Cereghino ha passato varie
settimane. Su uno dei grandi tavoli esagonali in legno scuro si sono
via via ammonticchiati fascicoli su fascicoli, tutti originali,
ingialliti dal tempo. Trent'anni e oltre: è attraverso queste carte
che si può osservare, come mai finora, il backstage della
guerra fredda.
L'Italia del 1976, come si sarà capito, è un paese in crisi. La
formula del centrosinistra è morta; i comunisti hanno ottenuto un
grande successo alle amministrative dell'anno prima conquistando il
governo di diverse regioni e importanti città; il Psi, di cui è
segretario l'anziano De Martino, ha aperto la crisi al buio; mentre
ancora tramortita dalla sconfitta nel referendum sul divorzio e
sotto accusa per una serie di scandali,
la Dc
sembra per la prima volta allo sbando, più che divisa, divorata
dalle faide. A reggere le sorti del governo nei primi mesi dell'anno
c'è un pallido bicolore Moro-La Malfa, cui segue, per gestire le
elezioni anticipate, un ancora più esangue monocolore sempre diretto
da Moro. La maggioranza è in pezzi, Berlinguer appare il personaggio
del momento e da anni ormai ha posto sul tavolo l'offerta del
Compromesso storico.
Aldo Moro, il metodo del
rinvio
«Moro è intensamente latino e italiano, ma è
l'esatto opposto del meridionale ardente, elementi che un
anglosassone fatica a comprendere. Da l'impressione di
essere sempre ammalato. Lo fa di proposito? Tuttavia gode di
una "cagionevole salute di ferro". È un uomo molto religioso
e va a messa ogni giorno. Si dice che la sua fede cattolica
gli abbia insegnato che non c'è da aspettarsi niente di
positivo dalla vita terrena. Per quanto sia una convinzione
rispettabile non è un buon presupposto per l’azione politica
e potrebbe spiegare l'immobilismo e la fiacchezza che lo
caratterizzano. Il suo metodo consiste nel rimandare
sistematicamente le cose. Inoltre, è dotato di una
straordinaria capacità di parlare in pubblico per ore e ore
senza dire niente. In Italia non è un dono da
sottovalutare». |
L'ambasciatore britannico a Roma, Sir Guy Millard, è un uomo molto
sottile e per giunta dotato di una buona penna. «Berlinguer - scrive
a Londra, al Segretario di Stato - è una figura attraente, ispira
fiducia con la sua oratoria. Ciò che dice è credibile e lui lo
afferma in modo convincente». Ma proprio per questo non c'è da
fidarsi. «Il suo ingresso nel governo porrebbe la Nato e la Comunità
europea dinanzi a un problema serio e potrebbe rivelarsi un evento
dalle conseguenze catastrofiche». Quali Millard lo spiega in modo
incalzante: la «disintegrazione» della Dc, innanzi tutto, poi il
calo degli investimenti, la fuga dei capitali, la caduta di fiducia
nelle imprese, l'intervento drastico del governo nello Stato e di
conseguenza «la rapida fine del sistema di libero mercato». Cosa
fare per tenere il Pci alla larga dal governo? «Non molto, temo». E
aggiunge: «È un peccato che la difesa dell'Italia dal comunismo sia
nelle mani di un partito così carente come la Dc».
Dello scudo crociato, dopo il congresso che a marzo ha visto la
vittoria di Benigno Zaccagnini su Arnaldo Forlani, Millard va a
parlare con l'ambasciatore americano a Roma John Volpe. Secondo
quest'ultimo, Forlani «è una brava persona, ma non è un
combattente», Zac invece «piace molto ai giovani», gli Usa lo
appoggiano anche se preferirebbero Forlani e Fanfani che sono più
anticomunisti. Parlano anche di Moro: «Qualche volta - sostiene
Millard - sembra piuttosto ambiguo sul Compromesso storico». Volpe
concorda: «È un pessimista, troppo incline a ritenerlo inevitabile».
È questa specie di rassegnazione la colpa che gli americani
attribuiscono all'astuta, ma imbelle classe di governo
democristiana. In un rapporto del 23 marzo si legge che al
Dipartimento di Stato Usa sono molto preoccupati: «La situazione
italiana va deteriorandosi e non si sa come agire». Di qui al
sospetto che la Dc faccia il doppio gioco il passo è breve:
«Piuttosto che perdere il potere, preferirebbe spartirlo con il Pci».
Ai
primi di aprile il rappresentante britannico presso la Santa Sede,
Dugald Malcolm, va a trovare il Patriarca di Venezia, monsignor
Albino Luciani, il futuro Giovanni Paolo I: «II Patriarca sembra
aver assunto una posizione incline alla catastrofe. L'argomento
trattato era sempre uno: l'avanzata del Pci». È il periodo in cui i
comunisti italiani corteggiano i cattolici (alcuni di questi
finiranno eletti nelle loro liste di lì a qualche mese). Su questo
Luciani è intransigente: «Non si può essere al contempo cristiani e
marxisti». Al diplomatico inglese racconta di aver dei problemi con
alcuni sacerdoti del la sua diocesi «che si sentono in obbligo di
convertirsi al comunismo». In un'isola della laguna un gruppo di
scout ha addirittura sostituito il crocifisso con la foto di Mao.
Nel congedarsi, il prossimo pontefice sussurra: «Siamo nelle mani di
Dio». E aggiunge: «Che comunque sono buone mani».
Per i laici l'ambasciatore Millard consulta Giovanni Spadolini. Lo
trova piuttosto agitato: «È un sintomo grave che il presidente Moro
abbia convocato Berlinguer a Palazzo Chigi prima del Consiglio dei
ministri. Cosi ora i comunisti fanno virtualmente parte della
maggioranza, ma non sono più in grado di dare ordini alla classe
operaia. Per farlo - scherza, ma non troppo Spadolini – avrebbero
bisogno dell’Armata rossa». E comunque: «II Pci è ormai parte
integrante del sistema politico, che sta andando a pezzi. L'unica
speranza è che sia contaminato dal potere come gli altri partiti».
Parla da intellettuale, ma anche come ex ministro (dei Beni
culturali, nel dicastero Moro-La Malfa): «La polizia è insoddisfatta
e il quaranta per cento degli agenti sarebbe pronto a partecipare a
un colpo di Stato di sinistra. I carabinieri invece sono molto più
affidabili». Commento di Millard: «Si percepisce un clima di
profonda depressione, quasi di disperazione, per non dire di
panico».
Il
tempo stringe, è la formula che risuona nei documenti britannici. A
Londra Henry Kissinger incontra il nuovo ministro degli Esteri di
Sua Maestà, Anthony Crosland. Da parte americana si avverte un
indubbio nervosismo: «La questione dell'obbedienza del Pci a Mosca è
secondaria. Per la coesione dell'occidente - è ora la tesi di
Kissinger - i comunisti come Berlinguer sono più pericolosi del
portoghese Cunhal». Ribatte Crosland: «Il Pci non avrebbe il
prestigio di cui gode se gli altri partiti italiani non fossero
messi così male. Ma vi sono segni di decadenza anche tra i
comunisti, corruzione, come nel caso di Parma». E francamente
colpisce che leader così potenti si abbassino a parlare di un
piccolo scandalo edilizio che nell'autunno del 1975 coinvolse
l'amministrazione rossa della città emiliana. La risposta di
Kissinger, comunque, sembra stizzita: «Sembrano tutti ipnotizzati
dai successi del Pci, senza avere idea di cosa fare per bloccarne
l'ascesa».
Il
13 aprile un gruppo di specialisti del Western European Department
del Foreign Office elabora un dossier che ha proprio il compito di
stabilire la strategia operativa anticomunista, graduandone le mosse
a seconda dei vari scenari. La prima parte è dedicata appunto a come
impedire che il Pci vada al governo e sono indicati i vari passi da
compiere: finanziamento degli altri partiti, orchestrazione di
campagne stampa sul pericolo, attacco alla credibilità delle
Botteghe Oscure, moniti ai sovietici.
25 marzo 1976: Ministero della Difesa britannico, documento su
Italia, i comunisti e la Nato
Option Number Four
Nella seconda parte il documento offre delle soluzioni per così dire
pratiche nel caso il Pci sia già riùscito a conquistare una quota di
potere, cioè sia già andato al governo. A questo punto gli scenari
sono cinque, e cinque di conseguenza le options, ciascuna
esaminata a seconda dei vantaggi e degli svantaggi. La linea più
morbida è definita «Business as usual» e prevede di
«continuare le relazioni come se nulla fosse cambiato». Seguono, in
ordine di gravita, «misure di ordine pratico- amministrativo» per
«salvaguardare i segreti e i processi decisionali dell'Alleanza
atlantica». Come ulteriore scelta, sempre rispetto all'Italia, gli
inglesi si riservano di mettere in atto una «persuasione di tipo
economico» che si traduce in una serie di pressioni anche sul piano
della Comunità europea e del Fondo monetario internazionale.
Entrerebbero in gioco, in quel caso, posti di potere in tali
organismi, benefici, prestiti. «Occorre comunque precisare - si
legge - che tali misure cesserebbero se il Pci abbandonasse il
governo».
La
Option Number
Four
ha un titolo che, anche in lingua inglese, non è che suoni proprio
tranquillizzante: «Subversive or military intervention against
the Pci».Ecco come comincia: «Questa opzione copre una serie di
possibilità: dalle operazioni di basso profilo al supporto attivo
delle forze democratiche (finanziario o di altro tipo) con
l'obiettivo di dirigere un intervento a sostegno di un colpo di
Stato incoraggiato dall'esterno». Vantaggi: «Tali misure possono
aiutare a rimuovere il Pci dal governo». Svantaggi: «Vi sono immense
difficoltà pratiche per portare a compimento questo tipo di
operazione. Vista la situazione italiana, è estremamente improbabile
che un'operazione coperta rimanga segreta a lungo. La sua
rivelazione può danneggiare gli interessi dell'occidente e aiutare
il Pci a giustificare in maniera più decisa il suo controllo sulla
macchina del governo. Inoltre, la pubblica opinione dei paesi
occidentali potrebbe prenderla male col risultato di creare tensioni
all'interno della Nato, soprattutto fra Usa e alleati europei, nel
caso gli americani assumano il comando dell'iniziativa». E conclude:
«Anche se l'intervento esterno servisse a rimuovere il Pci dal
potere, la situazione politica italiana rimarrebbe instabile,
rafforzando così l'influenza comunista e quella del Pci sul lungo
periodo».
L'ultima opzione prevede, seccamente, «l'espulsione dell'Italia
dalla Nato». Vantaggi: «Si tutelano i segreti e si elimina la
possibilità che l'Italia comprometta l'alleanza dall'interno». Ma in
questo caso, secondo gli analisti del Fco, si arriverebbe alla
«chiusura di tutte le basi nel paese, destinato a diventare neutrale
con un orientamento verso l'occidente. Ma l'Italia potrebbe anche
evolversi in una sorta di Yugoslavia. Al limite, potrebbe anche
offrire agevolazioni di tipo militare all'Urss in cambio di denaro».
In ogni caso, conclude il dossier, «si renderebbe necessaria una
revisione della strategia difensiva della Nato sul fianco Sud. La
Sesta flotta ne sarebbe danneggiata. Grecia e Turchia potrebbero
chiedersi se valga la pena continuare a far parte dell'alleanza.
Potrebbe anche essere compromessa la capacità americana di
intervenire in Medio Oriente e di influenzare quei paesi a livello
politico. Di conseguenza, il ritiro dell'Italia dalla Nato si
trasformerebbe di fatto in una sconfitta dell'occidente di fronte al
mondo intero».
Dopo tanto tempo viene da chiedersi, e pure con un certo sgomento,
se e in che misura nel 1976 gli italiani fossero consapevoli dei
rischi che correvano. Si ha qualche scrupolo a montare un caso di
golpismo postumo, per giunta irrealizzato. Eppure, c'è da dire che
mai come allora l'idea stessa del golpe, la minaccia di golpe, le
voci di golpe, la vigilanza e l'autodifesa in caso di golpe, erano
entrate da tempo nell'immaginario popolare.
Paolo VI, la corsa alla
successione
La salute di Paolo VI (1974). «Continuano a
circolare voci sulla salute del Papa, che sarebbe molto più
ammalato di quanto sembra. Forse, soffre di una qualche
forma di arteriosclerosi. Un giornalista americano
attendibile mi ha recentemente confidato che il Papa non
ritiene di potere arrivare alla fine dell'Anno Santo 1975. È
noto inoltre che soffre di artrosi a una gamba. Ma una fonte
di prima grandezza (affidabile) mi ha comunicato che
l'artrosi si è estesa alla schiena, rendendo il suo incedere
doloroso e difficile».
Il prossimo Papa. «La questione della
successione è ormai aperta. È soprattutto il clero non
italiano a desiderare un Papa straniero. Il cardinale belga
Suenens ritiene che il prossimo Papa sarà ancora un
italiano, per evitare dì accrescere il caos createsi dopo il
Concilio. Ma questa sarà l'ultima volta, e per un lungo
periodo a seguire». |
Sembrano
tutti ipnotizzati dai successi del PCI, senza avere idea di cosa
fare per bloccarne l'ascesa. C’era stata la Grecia (1967) e poi il
Cile(1973); e qui il "Piano Solo"del generaIe col monocolo,
Giovanni De Lorenzo (1964), il tentativo del "Principe nero" Junio
Valerio Borghese (1970) e la Rosa dei Vénti (1974). Circolavano
anche film (Colpo di Stato di Salce e l'indimenticabile Vogliamo i
colonnelli di Monicelli] e perfino barzellette: «Dicono a De
Martino: "Sono arrivati i carri armati", e quello: "Bene, e a noi
socialisti quanti ce ne toccano?"»). Umorismo in verità raffreddato
dalle tante, troppe stragi di quegli anni: Piazza Fontana,Reggio
Calabria, Peteano, Piazza della Loggia, Italicus. Alla metà degli
anni Settanta i capi comunisti sono prudenti e qualche volta dormono
fuori casa: «Non ci prenderanno a letto», garantisce Pajetta. Ogni
tanto qualche capo democristiano, ad esempio Moro, se ne esce con
criptiche denunce tipo: «Sta prendendo corpo un torbido disegno
eversivo». Ogni tanto finisce in prigione qualche generale dei
servizi segreti, accusato di cospirazione politica e insurrezione
armata: proprio nel febbraio del 1976 tocca al generale Gianadelio
Maletti, mentre a maggio la magistratura di Torino chiede l'arresto
di Edgardo Sogno, figura di spicco della Resistenza non comunista,
poi divenuto così acceso anticomunista da farsi ispiratore di un
golpe detto «bianco», para-legalitario. Scrive Pier Paolo Pasolini
nell'articolo sulle lucciole, la cui scomparsa nelle campagne
definiva poeticamente la grande mutazione antropologica degli
italiani: «È probabile che il vuoto di potere stia già riempiendosi
attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere
l'intera nazione. Ne è un indice ad esempio l'attesa "morbosa" del
colpo di Stato».
Perché si
potrà anche sorridere di questa strisciante mitomania golpistica,
dietrologica e pistarola; così come del comandante della Guardia
Forestale Berti, con il suo spadone, che nella notte dell'Immacolata
Concezione, da Cittaducale, provincia di Rieti, si lancia alla
conquista del Viminale. Ma assai meno viene da sorridere leggendo il
rapporto top-secret inviato a Londra dall'addetto militare
dell'ambasciata britannica a Roma, colonnello Madsen, un mese esatto
prima delle elezioni del 20 giugno. Titolo: «La reazione delle forze
armate italiane alla partecipazione comunista al governo e l'effetto
che essa può avere sul contributo dell'Italia alla Nato». Sono
undici pagine fitte e dettagliatissime, dai piani di
ristrutturazione appoggiati dal Pci al movimento dei «proletari in
divisa» organizzato da Lotta continua. E di nuovo le conclusioni
dell'indagine vanno a parare sul colpo di Stato: «Gli ufficiali
delle Forze armate sono per la maggior parte di destra o di estrema
destra. Tuttavia soldati di leva riflettono le inclinazioni
politiche tipiche dell'Italia attuale. In teoria, se non in pratica,
il Pci potrebbe contare sul sostegno di un terzo delle Forze armate.
Una eccezione importante è costituita dai Carabinieri,
ottantaseimila uomini tra i quali il Pci non ha appoggi. Ma i
Carabinieri sono tradizionalmente leali al governo, qualunque sia il
suo colore politico». Rispetto all'ipotesi di un governo con i
comunisti, sostiene il colonnello che «il sentimento degli ufficiali
è generalmente di preoccupazione. È difficile individuare nelle
Forze armate un nucleo abbastanza forte o influente da promuovere un
golpe. L'unica possibile eccezione è quella dei Carabinieri.
Nell'attuale situazione è improbabile che i militari lo appoggino.
Tuttavia potrebbe in breve crearsi una situazione tale da favorire
un putsch militare "per l'ordine pubblico", soprattutto se i
risultati delle elezioni del 20 giugno generassero una situazione di
incertezza politica». La premessa è che si tratta di uno «scenario
ipotetico». Ma al tempo stesso il colonnello Madsen segnala al suo
ministro della Difesa che «nei piani di ristrutturazione, le forze
armate italiane hanno di recente rafforzato le formazioni
territoriali e quelle dei para con l'obiettivo di condurre
operazioni di salvaguardia della sicurezza nazionale, nel caso venga
meno l'ordine pubblico».
23 febbraio 1976, Lettera sull'Italia dell'ambasciatore britannico
presso la Nato a Bruxelles
Parco
Lambro e "Porci con le ali"
Beato il
paese che non ha paura del proprio passato. E che in nome della
democrazia e della trasparenza apre regolarmente i suoi archivi a
studiosi, appassionati e gente comune. Detto questo, a rileggere
queste carte, si resta colpiti da un dubbio: meritava, l'Italia, la
società italiana, di essere sorvegliata in quel modo? Come una
repubblica delle banane in mezzo al Mediterraneo? Torna alla memoria
quel 1976: «E l'Italia giocava alle carte e parlava di calcio nei
bar» come ne La presa del potere di Gaber. Si resta un po'
interdetti fronte a certe canzoni di allora: «E la Cia ci spia -
questo è un Finardi d'annata - non vuole più andare via». L'Italia
degli scioperi, della guerriglia urbana, dell'austerità, della
disoccupazione, dell'inflazione, dei mini-assegni al posto degli
spiccioli. Parco Lambro e Porci con le ali. Ma anche l'Italia
del boom di Benetton, del femminismo, della nascita di Repubblica e
delle radio libere, degli ultimi Caroselli e dell'arrivo in tv della
banda di Renzo Arbore, con Roberto Benigni improbabile critico
cinematografico la domenica pomeriggio. E Gimondi, Panatta, la
Ferrari di Niki Lauda. E il terremoto del Friuli, i matrimoni che
diminuivano, Gheddafi nella Fiat, le Br che cominciano ad uccidere,
il giudice Coco, a Genova, l'8 giugno 1976.
Mai che le
carte inglesi facciano riferimento al terrorismo rosso e nero di
quella stagione di piombo. Insomma, non c'era solo Berlinguer. Ma in
quella primavera fra Londra, Washington e Bruxelles sembra davvero
che non pensino ad altro. Il 6 maggio il Fco produce un secondo
documento che integra e sviluppa il manuale di metodologia
anticomunista del 13 aprile. E tuttavia proseguendo nella lettura si
capisce che sull'uso di questi record nei contatti internazionali
con gli alleati sorgono dei problemi. Il segretario di Stato si
preoccupa delle «implicazioni politiche» di una linea cosi rigida.
Nell'ambito dell'amministrazione britannica,che è pur sempre
costituita da laburisti, ci sono delle diverse valutazioni. Quelle
che pone all'attenzione del Segretario di Stato il suo consigliere
politico David Lipsey suonano ad esempio più moderate e molto meno
interventiste: «Se diamo troppa corda ai comunisti potrebbero
dichiararsi innocenti oppure impiccarsi da soli. Se invece ci
imbarchiamo in un'operazione di linciaggio - è la conclusione - sarà
la nostra credibilità democratica ad essere danneggiata, non la
loro». Anche per questo il governo inglese è preoccupato che studi,
indagini e relazioni restino al sicuro. «La loro esistenza non deve
essere rivelata - è la raccomandazione - La Gran Bretagna non deve
essere vista come un governo che interferisce negli affari interni
dell'Italia». Ma il 18 maggio, in vista di un vertice Nato a Oslo,
qualcosa trapela: un articolo del Financial Times dal titolo «I
timori del Foreign Office sull'Italia». Il giornalista rivela che
l'atteggiamento degli alleati è stato riassunto in un documento ad
hoc. Dalla Farnesina, a questo punto, chiedono spiegazioni, ma a
Londra fanno i vaghi, ridimensionano: il caso Italia non è
nell'agenda ufficiale di Oslo, non c'è nessun paper, del Pci
si parlerà al massimo «nei corridoi».
Più in
generale, al di là delle necessità diplomatiche, pare anche di
cogliere una sottile linea di distinzione fra l'atteggiamento
britannico e quello americano. Oltre una certa prudenza che porta
Crosland e il premier Callaghan a non fare mosse avventate prima del
20 giugno, il Foreign office si preoccupa soprattutto dell'unità
degli alleati, il che significa da un lato incoraggiare i francesi e
i tedeschi a una maggiore presenza sulla questione italiana e
dall'altro di frenare gli americani, soprattutto Kissinger.
Del
Segretario di Stato Usa i colleghi britannici sembrano poco
apprezzare certe intemperanze, sottolineano che in privato usa uno
«strong language», un linguaggio forte; come pure si concedono una
qualche distaccata superiorità quando gli pare che Kissinger si
comporti più da professore di storia che da stratega: «Così rischia
di perdere di vista le implicazioni immediate delle sue parole –
nota l'ambasciatore inglese a Washington, Peter Ramsbotham -
sviluppando una sorta di teoria del domino europeo sul lungo
termine». Ma gli americani, imperterriti, non solo seguitano a
spingere sulla loro linea, ma in un memorandum del 4 giugno si
mostrano anche piuttosto seccati dal fatto che mentre gli europei
sono indecisi sul da farsi, loro rischiano di figurare sempre e
comunque come il «bad cop», il cattivo poliziotto della situazione,
tipo in Cile nel 1973.
A pochi
giorni dalle elezioni tutto è ancora incerto: «I sondaggi italiani
sono notoriamente inaffidabili». Intanto Berlinguer dichiara di
accettare l'ombrello della Nato e Montanelli invita a turarsi il
naso e votare Dc. E con questo si arriva finalmente al 20 giugno. I
risultati non potrebbero essere più ambigui. La Dc al 38,7 per cento
e il Pci al 34,3 risultano i «due vincitori», come li definisce
Moro. Ma questi due vincitori, secondo un'analisi del Fco, sono
anche «prigionieri l'uno dell'altro».
Gli uomini della maggioranza
Giuseppe Saragat «Fisicamente possente,
Saragat ha perso negli anni la sua antica bellezza. È
ritenuto un forte bevitore. Dal carattere complesso,
volubile ed egocentrico, può diventare irascibile e
maleducato. Tuttavia, negli ultimi anni si è un po'
calmato».
Emilio Colombo «Molto religioso. Corre voce
che sia un francescano laico che ha fatto voto di castità.
Possiede una bellezza meridionale. È molto intelligente e
colto, non senza un discreto senso dell'umorismo».
Benigno Zaccagnini «Manca di peso politico e
affronta un compito non invidiabile. Tuttavia, ha una
reputazione di persona onesta e paziente...». |
Una settimana
dopo, al vertice di Puerto Rico, riservato alle sette potenze più
industrializzate del mondo, l'Italia si presenta senza un governo.
Ci sono Moro e Rumor, ma solo per salvare le forme. Gerald Fora,
Callaghan, Schmidt e Giscard d'Estaing si incontrano alle 12,45 di
domenica 27 giugno al Dorado Beach Hotel per un pranzo di lavoro e
qui si verifica un pietoso incidente. Lo descrive brutalmente
Campbell, futuro ambasciatore britannico a Roma: «Quando arrivano
per il lunch, ai due sfortunati ministri italiani viene impedito di
entrare». È il massimo dell'umiliazione.
Appena chiuse
le porte, si affronta il «problema Italia». Il verbale di quell'incontro
viene redatto dal funzionario Fergusson. Pur riconoscendo che gli
italiani devono decidere da soli, i quattro capi di Stato sono
d'accordo che occorre fare tutto il possibile perché i comunisti
restino fuori dal potere. Giscard propone di elaborare, in una
prossima riunione da tenersi a Parigi, una bozza di programma di
governo che gli italiani dovranno accettare in cambio di un
sostanzioso aiuto finanziario. Quella riunione si tiene
effettivamente a Parigi, all'Eliseo, l'8 luglio del 1976. Il padrone
di casa è il Segretario generale aggiunto della Presidenza della
Repubblica francese Yves Cannac. Per gli Usa c'è Helmut Sonnenfeldt,
consigliere del Dipartimento di Stato e braccio destro di Kissinger;
per i tedeschi arriva Gunther Van Well, alto funzionario del
ministero degli Esteri di Bonn; e infine, perla Gran Bretagna, il
sottosegretario del Foreign Office, Reginald Hibbert. È a quest'ultimo
che si deve il resoconto, a tratti anche abbastanza scanzonato, di
un incontro in cui «ognuno ha i suoi buoni motivi per mantenere il
Pci fuori dal governo». Giscard vorrebbe un «centrodestra
riformista» in Italia perché teme la spinta che a casa sua
favorirebbe Mitterrand. Il rappresentante di Schmidt, d'altra parte,
punta sulla rinascita del centrosinistra perché un successo di
Berlinguer potrebbe spaventare il suo elettorato e aprire le porte a
una vittoria dei democristiani nelle imminenti elezioni tedesche. E
poi ci sono gli americani che appoggiano decisamente una Dc
rinnovata. Insomma, un po' di confusione. In più, fa notare Hibbert
con evidente disappunto, mancano traduttori e dattilografi che
lavorino in inglese e soprattutto c'è una gran fretta perché il
rappresentante di Kissinger deve scappare all'aeroporto. Così, «Cannac
ci invita a pranzo al ristorante Ledoyen, ma l'urgenza è tale che
non facciamo neanche in tempo a leggere il menu». In un angolo,
Sonnenfeldt si concede una battuta sul clima carbonaro di quel
pranzo: «Siete sicuri che l'ambasciatore italiano non sia qui? Se ci
beccano, è chiaro che siamo qui per parlare di Berlino».
Un incontro "appiccicoso"
Chissà che
cosa sapevano Moro, Andreotti o Berlinguer di tutto questo. O che
cosa immaginavano. Da quel che si capisce l'incontro di Parigi, che
Hibbert definisce «sticky», cioè difficile, insidioso, appiccicoso,
fa pensare in realtà a una specie di ultimo avviso all'Italia, che è
anche una prova di commissariamento. Le delegazioni producono una
bozza d'intenti che a distanza di trent'anni finisce per avere un
certo peso storiografico.
S'intitola «Democracy
inItaly» e in pratica espone ai futuri governanti italiani quello
che devono fare. Cosi comincia: «Malgrado gli ulteriori progressi
del Pci, le recenti elezioni consentono di mantenere in vita la
democrazia in Italia. Ma è arrivato il momento di mettere fine a
questa deriva». La parola usata è «slide», uno scivolamento che
porta a una caduta, al collasso italiano. I quattro grandi
dell'occidente non solo alzano il tradizionale muro di fronte
all'ipotesi di un governo con il Pci, ma nella riunione segreta di
Parigi intervengono anche sulla formula e sulla maggioranza che
dovrà avere il nuovo dicastero: a «guida Dc», con «partiti non
comunisti e non fascisti». E quindi provano pure a delineare le
caratteristiche della loro compagine ideale: «Un piccolo gruppo
omogeneo di uomini di prestigio che lavorino in squadra». Nelle
carte c'è addirittura il programma, che tocca amministrazione
pubblica, giustizia, sicurezza, economia e politica estera. Si
scende nei particolari: un piano a medio termine per il risanamento
della finanza pubblica e riduzione dell'evasione fiscale; è indicata
la necessità di tentare un accordo con imprenditori e sindacati. C'è
anche la lotta alla corruzione è perfino un accenno al «nepotismo».
Ma
soprattutto si fa notare, sotto un paragrafo dal titolo «The
Chrìstìan Democratìc party», un appello che di nuovo suona come un
atto di sottomissione richiesto alla classe di governo del «partito
che ha esercitato il potere per trent'anni e rimane il più forte
dopo le elezioni». Per battere il Pci, la Dc dovrebbe {shouId)
ripulire a sua immagine di partito tollerante della «prevaricazione
e del sotterfugio», ha il dovere di «liberarsi delle pecore nere»,
la necessità di «mettere ordine a casa sua», di svecchiarsi e
arruolare giovani, assicurare maggiore spazio alle donne, ai
lavoratori e ai sindacati. Suo compito è anche quello di contestare
al Pci l'egemonia culturale «riconquistando l'intellighenzia, le
università e i media». Il giorno dopo, 9 luglio, ore 23.20,
l'ambasciatore inglese a Washington telegrafa a Londra:«Kissinger
approva il paper "Democracy in Italy''».
Da Londra,
forse, il premier Callaghan un po' si spaventa a leggere quelle
carte: «Dobbiamo usare molta cautela considerando il grande danno
che ne verrebbe se la loro esistenza divenisse pubblica. Sarebbe
un'intrusione diretta negli affari di uno Stato europeo nostro
alleato». E aggiunge: «Ogni fuga di notizie finirebbe per essere un
regalo ai comunisti italiani».
E così
potrebbe anche concludersi il grande film del 1976. Poi certo, molte
altre cose accadono - e il Foreign Office le registra con la
consueta diligenza. Il Pci che rimane sulla soglia del potere. I
democristiani che continuano a traccheggiare inventando formule
quasi intraducibili, per cui l'andreottianissima «non sfiducia»
diventa «non no-confidence». C'è anche un nuovo segretario
socialista, il quarantenne milanese Bettino Craxi. L'ambasciatore
Millard, che ha l'occhio lungo, lo segnala subito come una luce in
fondo al tunnel del caos italiano. Si stabilisce che una sua visita
a Londra «sarebbe auspicabile». Arriva l'autunno e a Bruxelles,
davanti a Kissinger, il ministro degli Esteri britannico Crosland
parla «warmly», con calore, del «signor Craxi».
A Roma il
successore di Millard è Alan Hugh Campbell. A fine anno
l'ambasciatore scrive la tradizionale Christmas Letter al
Foreign Office: «Pur immersi nella tristezza, frustrazione,
incompetenza, corruzione, gli italiani continuano a essere un popolo
duttile e molto operoso. Ma condivido l'idea che non siano maturi
per la rivoluzione». E c'è quasi un salto poetico: «Forse, questo
spiega la sofferenza che ho osservato sul volto di Berlinguer,
l'altro giorno, quando me lo sono trovato seduto vicino durante una
cerimonia».
Articolo tratto da:
Filippo Ceccarelli, la Domenica di Repubblica, 13 gennaio
2008, pag. 27 e succ.
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