Le Pagine di Storia

Giuseppe D’Alesi, un eroe sconosciuto

di Fara Misuraca

 

Un po’ di storia e poi Giuseppe D’Alesi, un eroe sconosciuto

di Fara Misuraca

Da sempre la storia d'Italia è la storia di alcune città e regioni italiane nei rapporti intercorsi fra loro o con gli stranieri, ricalcata dalle cronache del Villani, del Compagni, del Malespini, del Guicciardini e via via fino al Muratore,al Sismondi e ai cronisti del Risorgimento. Da Napoli in su! Nessuno pare abbia mai consultato il Fazello, l'Auria, il Serio, il Baronio, il Pirri, il Mongitore, il Di Blasi, l'Amari e il La Lumia. 

I libri, soprattutto quelli scolastici, della Storia d'Italia, sono stati da sempre una raccolta mal coordinata delle cronache di alcune regioni, o peggio, di alcune città o famiglie che avevano avuto parte preponderante in certi episodi, al seguito di un papa o di un sovrano straniero. Manca quasi sempre la storia del popolo. E poiché la coordinazione di queste cronache e la loro riduzione in trattati di storia è stata fatta sempre da scrittori del nord o del centro Italia che conoscevano meglio gli avvenimenti che riguardavano le loro contrade, ne è venuta fuori una storia d’Italia nella quale il mezzogiorno d'Italia e la Sicilia specialmente figurano come teatro di episodi secondari; fanno quasi da contorno alla storia del papato, a quella di Milano, di Venezia, di Genova, di Firenze e di Pisa. In questa storia di regioni e di città che comincia, nelle scuole, con la storia orientale e greca, troviamo Ninive, Babilonia e Cartagine; ma si accenna di sfuggita a Siracusa, Agrigento, Gela, Erice, Lentini, Catana, Zancle, e solo perché alcune di queste città entrarono in guerra con Atene, coi fenici o con i romani. 

La storia d'Italia piuttosto che dagli etruschi di cui si sa poco o nulla, dovrebbe cominciare dalla Sicilia che, come valore politico nel mondo antico e fino alle guerre puniche contò più di Roma.

Il primo nucleo statale, la prima potenza civile italica fu in Sicilia, con capitale Siracusa.

Dalle invasioni barbariche al trasferimento del seggio papale ad Avignone la storia d'Italia non è che un continuo frazionarsi d'interessi, e di guerre fra imperatori e papi, fra vassalli e imperatori, di leghe fra comuni e pontefici. Solo Venezia riesce a fare un po' di politica estera ed a mostrarsi stato. 

Mai si scrive che in quello stesso periodo, c'era in Italia, uno stato siciliano. 

Si parla appena della conquista della Sicilia da parte degli avventurieri normanni. Che questi erano guerrieri mercenari, valorosi ma incolti e barbari appena latinizzati, che trovarono presso il popolo siciliano una maggiore civiltà, dalla quale rimasero allettati e, a loro volta, conquistati. Nessuno spiega che allora si formò in Sicilia il primo regno italiano, il più importante stato italiano autonomo ben più importante di qualsiasi altro staterello della penisola. Nessuno spiega che attorno alla corte di Palermo gravitò, dal 1130 circa al 1250 la cultura italiana e la politica italiana di cui fu autorevole portavoce Federico II, personaggio, nel bene e nel male, certamente di maggior spessore di Carlomagno.

Tutti i libri di testo ad esempio parlano del 1848 come dell'anno delle rivoluzioni, citando i moti di Francia e d'Ungheria, esaltando le 5 giornate di Milano, i moti di Venezia, di Roma, e dei piemontesi e dei toscani. Ma perché nessuno ricorda i siciliani? Perché non si dice che fu Palermo a dare il primo segnale in Europa ? Il dodici gennaio palermitano, esempio unico nella storia, in cui un popolo affigge alle cantonate un proclama di sfida al governo e lo avverte del giorno e del modo in cui la rivoluzione scoppierà e si compirà ?

Un corretto manuale di storia dovrebbe invece evidenziare 1'influenza che, specialmente in taluni periodi, esercitò la Sicilia rispetto ad altre regioni.

Basta solo pensare che nel decimo secolo dopo Cristo, quando l’Europa era devastata dalle orde barbariche e Bisanzio era ormai una civiltà in dissoluzione, Berlino era solo un borgo selvaggio della marca di Brandenburgo, Vienna la piccola capitale di un ducato, Londra e Parigi città di poco superiori ai centomila abitanti. In Italia soltanto Milano, Pisa e Venezia si salvavano e Roma era solo un borgo la cui potenza era soltanto spirituale. Il Piemonte con Nizza e la Savoia non era altro che uno staterello vassallo della Francia alle cui sorti legò le sue vicende finché non si alleò per convenienza politica ed economica all'Austria. In Sicilia invece, si era affermata la potenza araba, non una dominazione barbara, come qualcuno dei nostri politici oggi potrebbe pensare ma antesignana di quella nuova civiltà che doveva più tardi fiorire e spandersi per l'Europa tutta. Qui, infatti, in Sicilia dalla mescolanza dei retaggi della civiltà greca e romana, con la giovane e agguerrita civiltà araba, si origina e si sviluppa una nuova civiltà.

Gli arabi di Sicilia fanno rinascere e coltivano la poesia, reinventano l’architettura, diffondono la matematica, la medicina, l'alchimia (l’odierna chimica). Gli arabi di Sicilia riattivano i commerci prima ancora di Amalfi, di Pisa e di Genova che contro di loro lottarono per accaparrarsi la supremazia commerciale che nel Tirreno per circa due secoli fu in mano della Sicilia.

I mercenari normanni, primi crociati per la Chiesa, non erano che rozzi soldati di ventura, ma ebbero un merito e contro la stessa Chiesa: sostituitisi agli emiri mussulmani nell'antico fiorentissimo stato, essi s'incivilirono alla scuola dei vinti e favorirono lo sviluppo già dato da questi alle lettere, alle arti e alle discipline scientifiche. Sotto di loro la Sicilia divenne l'emporio europeo della civiltà, la culla del progresso, la sede di ogni bellezza. Con Federico II, Palermo, diventa sede degl'imperatori; è la prima città d'Italia e di Germania e di tutto l'occidente, e la storia di quel periodo, che si prolunga fino alla battaglia di Tagliacozzo, ruota attorno alla Sicilia. Ma nei libri di storia non se ne parla o quasi!

Tanto spazio viene dato alle lotte sanguinose tra i piccoli comuni, alle lotte tra le repubbliche marinare, alle carneficine tra guelfi e ghibellini e poi si parla di sfuggita di quella che potremmo chiamare la madre delle rivoluzioni: la guerra del Vespro del 1282, una vera e propria guerra d’indipendenza dallo straniero.

Mai nessuno parla delle battaglie navali combattute e vinte alle isole Eolie, a Capo d'Orlando, nel golfo Napoli e nelle acque di Malta, dai siciliani contro i francesi, mentre la battaglia della Meloria tra Genova e Pisa è da tutti ricordata. Perché solo la battaglia di Campaldino tra guelfi e ghibellini si ricorda e non la battaglia di Messina contro l'Angiò, battaglia combattuta anche dalle donne, in prima linea sulle mura accanto ai guerrieri?

Campaldino significa solo l’affermazione dello stato e dell'unità nazionale sul separatismo dei comuni e del papato; Messina rappresenta la voglia d’indipendenza, di cacciar via lo straniero. Ma tant’è!

La nostra storia, la storia del regno di Sicilia, come si può notare riempie gran parte del medioevo ed evidenzia, come in Sicilia sia sempre stato forte il sentimento dell'indipendenza, sentimento che fa della Sicilia il primo vivaio della nazionalità e dell' “italianità” anche per la nascita della letteratura in volgare.

Tutti conoscono Pier Capponi ma chi conosce Gian Luca Squarcialupo che comandò un’insurrezione contro le fazioni feudali che combattendosi tra loro facevano il gioco delle potenze straniere che soggiogavano l’isola?

Al regno di Sicilia, in quel periodo, erano aggregate Malta, l'isola di Gerba e Tripoli; i re di Sicilia avevano anche il titolo di re di Gerusalemme.

Boccone ghiotto per gli spagnoli o i francesi ….

Gli avvenimenti e le opere che hanno avuto per teatro la nostra terra sono soltanto in piccola parte da noi siciliani valorizzati; è come se noi non volessimo ricordare.

Milano, Firenze, Genova, Venezia, Roma, Napoli ricordano la loro storia di comune, di stato, con opere, con memorie, con monumenti. Noi no a noi piace dimenticare.

Ad esempio un episodio importantissimo della storia nostra, è quasi completamente dimenticato. Tutti ricordano e celebrano la congiura di Bedmar a Venezia o la rivolta capitanata da Masaniello a Napoli ma Giuseppe D’Alesi, loro coevo chi lo conosce?

Giuseppe D’Alesi

Nativo di Polizzi Generosa (di nome e di fatto) antica città madonita, D’Alesi si era trasferito a Palermo da ragazzo per apprendervi il mestiere di battiloro e si era presto distinto nell'artigianato come nel maneggio delle armi. Era ritenuto una vera autorità fra i popolani, che l'ammiravano per la sua prestanza fisica, per il suo carattere risoluto e leale, per la sua facilità di eloquio e per la sua intelligenza.

Fuggito da Palermo nel maggio 1647 dopo i disordini provocati dai caprai di Nino La Pelosa (altro dimenticato!) riparò a Napoli ove conobbe Salvator Rosa e Masaniello. Tornato a Palermo, comunicò agli amici la sua intenzione di organizzare un’insurrezione contro il malgoverno spagnolo. Il popolo di Sicilia infatti era da anni stremato dalla carestia, dissanguato da tasse e balzelli, avvilito dai privilegi di cui usufruivano le classi dominanti.

La sera del 12 agosto 1647, si narra che in una stanza appartata di una bettola di via Sant'Antonio, si riunirono i capi della plebe e degli artigiani di Palermo. Erano: D'Alesi, Giacomo Conti, suo compare, Antonino Perello e Matteo Di Liberto, pescatori, Pietro Pertuso lettighiere, Giuseppe Errante, Francesco Daniele e Gian Battista dell'Aquila, conciatori.

Si decise d'insorgere per la mattina del 15, approfittando del pellegrinaggio che il viceré Marchese di Los Velez, con tutta la corte e coi nobili palermitani avrebbero fatto ai santuari di Santa Maria di Gesù e Gibilrossa. Il piano era semplice: impadronirsi di costoro e tenerli prigionieri per ricattare il re e il papa e ottenere le nuove condizioni volute dal popolo di Sicilia (terroristi?, forse, ma tutti i rivoluzionari sono terroristi …).

Il capo fu scelto per sorteggio tra i tre più validi: Il primo estratto fu Giuseppe Errante, console dei conciatori, il secondo Pietro Pertuso, capo dei lettighieri, il terzo D'Alesi.

Ma la congiura fu sventata grazie a due spie: il vecchio soldato Carlo Di Liberto, cugino del console dei pescatori, ed un delatore dell'inquisizione, Francesco Marsiglia. Eroici anche costoro nella loro parte di spia, sfidarono la morte l'uno per riferire al suo sergente e l'altro per riferire a don Diego Trasmigra, grande inquisitore.

Giuseppe D’Alesi, avvertito, a sua volta, dei primi arresti, non si perde d’animo, si arma e a capo di un gruppo di fedelissimi si avvia a Palazzo Reale reclamando l’immediato rilascio dei suoi amici già destinati all’impiccagione.

 Il viceré‚ li fa rimettere in libertà sperando di placare i rivoltosi, ma D'Alesi, nominato dal popolo Capitano Generale, assale le armerie governative e il palazzo Pretorio, arma i suoi uomini, si impadronisce di due cannoni dal baluardo del Tuono, e marcia all'assalto del Palazzo Reale.

I soldati spagnoli si difesero coraggiosamente contro la "turba scellerata" come venne definita dai cronisti dell’epoca, evidentemente di parte spagnola. Tra le vittime di questo primo assalto c’è anche il pittore Pietro Novelli, monrealese, amico del D'Alesi, del quale, per fortuna, tante opere ancora rimangono nelle nostre chiese.

Il primo scontro finisce con la vittoria dei palermitani. Il vicerè, con la famiglia e il seguito, fugge imbarcandosi su una galera.

Al grido di “fuori lo spagnolo!” il Palazzo Reale viene conquistato e i soldati fatti prigionieri. D'Alesi a questo punto (e qui si vede la grande intelligenza del nostro) dava ordine di non distruggere nulla e confermò l'ordine anche per palazzi dei nobili siciliani alleati al viceré‚ e odiati dal popolo. Risparmiò anche la ricca dimora d'un suo personale nemico.

I primi atti di D’Alesi, dopo la vittoria, furono rivolti ad assicurare l'ordine e la disciplina in tutta l’sola rimasta senza governo. Furono vietate, pena la galera o la vita, le ruberie, i saccheggi, le uccisioni. La Tavola o Banco Pubblico ( una delle prime banche della penisola) benché rimasta in balia dei rivoltosi, non fu toccata e fu riaperta al pubblico all’indomani della rivolta, il 16 agosto.

I nobili e i ricchi borghesi che erano “coraggiosamente” scappati, vista la “civiltà” (da non confondere con quella degli idromassaggi e delle lavastoviglie) di D’Alesi, tornarono ben presto e don Diego Trasmigra, l’inquisitore, decise di affrontare subito la questione recandosi, di persona, a trovarlo.

Gli fece molte e interessanti offerte. Ma D’Alesi non abboccò, rifiutò di lasciar tornare il Viceré per trattare, come il Trasmiga assicurava da pari a pari, e invece chiamò in aiuto quali consiglieri i più famosi giuristi di Palermo (Lo Giudice e i Miroldo) e nominò suoi segretari gli avvocati Giuseppe La Montagna e Pietro Milano.

Al grande Inquisitore chiese, invece, la scarcerazione di don Francesco Baronio, storico e letterato, detenuto nelle carceri del Sant'Uffizio sotto l'accusa di eresia e di lesa maestà, per avere osato semplicemente rivendicare, a parole, il diritto della Sicilia all'indipendenza dagli spagnoli.

Il 18 agosto 1647 nella basilica di San Giuseppe, sotto la presidenza di D’Alesi, si radunarono gl' Inquisitori, i nobili, i rappresentanti della borghesia e i consoli delle corporazioni artigiane, per discutere e approvare il nuovo statuto del regno di Sicilia, promulgato da Giuseppe D'Alesi.

Questo statuto, composto da 49 capitoli era veramente rivoluzionario per l’epoca: venivano, si, rispettati i beni dei patrizi, che all’inizio, in verità, si volevano devolvere alla comunità ed alcuni privilegi di carattere morale ma il governo dell'isola, pur mantenendosi come avallante il vicerè spagnolo, passava in mano completamente ai siciliani, ai "nativi del regno".

L’esercito, per un terzo spagnolo e per due terzi siciliano sia di mare che di terra, doveva avere ufficiali "regnicoli" e con preferenza palermitani.

Gli artigiani avevano diritto ad una loro guardia armata, alla quale era affidata la sorveglianza perpetua e la guardia delle porte della città di Palermo (cosa hanno inventato i leghisti?) .

Le corporazioni, inoltre, avevano la possibilità di intervenire nel governo della cosa pubblica tramite una giunta, di sei membri, metà dei quali artigiani e metà patrizi, rappresentanti la proprietà e l'industria terriera.

 Le corporazioni mantenevano amministrazioni e leggi proprie,che regolavano la produzione e i prezzi e mandavano inoltre propri delegati ai comuni e al fisco con diritto d'intervento in ogni pubblica questione coi loro Capitani e Consoli, insieme con quelli della borghesia professionale, coi "Dottori, Procuratori, Notai, Gentiluomini, Commissari e tutte le altre persone dei quartieri".

Era un vero e proprio stato corporativo che distribuiva diritti e responsabilità a tutti cittadini, con un parlamento popolare che doveva governare in accordo col Senato già esistente.

I nobili sottoscrissero, anche se non volentieri, presumo. Il clero si congratulò per la saggezza del vincitore, ipocritamente presumo. Trasmiera, l’inquisitore, che doveva firmare per il Viceré de Los Velez, sempre latitante, tergiversava, ma alla fine cedette.

Ma Palermo non ha premiato questo suo figlio. La nostra bella città infatti ha come simbolo un “genio” un uomo coronato cui una serpe succhia latte o sangue dal seno, e reca la scritta "Alienos nutrit, suos devorat". (Nutre gli stranieri, mangia i suoi figli)

E Palermo divorò questo suo figlio, così come Napoli aveva divorato Masaniello e Roma, Cola di Rienzo.

I nobili, infatti, specie dopo aver saputo dell'intenzione di Giuseppe D' Alesi di nominare vicario il marchese di Geraci o il duca di Montalto con l'aiuto (dicono, ma non ho riscontri personali) del cardinale Mazzarino, organizzarono una controrivolta. Grazie a tanto denaro che passò da una tasca all’altra si allearono con il Trasmiera.

Furono armati famigli e villani chiamati dai feudi e soprattutto furono sparsi i germi di velenose invidie e calunnie.

Qualcuno avvertì D'Alesi. Ma la ormai il veleno della controrivolta era stato assorbito.

Giuseppe si guardò attorno ma non vide che adulatori: i nobili lo trattavano come uno dei loro, i popolani gli baciavano le ginocchia. E lui si illuse!

All’alba del 22 agosto, Cicco Panza, fedelissimo del D’Alesi, fu ucciso per strada con un colpo d’archibugio. Il fratello del D'Alesi, Francesco, fu inseguito e raggiunto dai soldati di Trasmiera: fu sgozzato e decapitato. A Gian Battista dell'Aquila mentre correva a cavallo, giù per una scalinata, gli uccisero il cavallo, nonostante questo riuscì a raggiungere i vicoli della Conceria e a raggiunger il suo Capitano.

Il quartiere si difese disperatamente ma l’inquisitore Trasmiera ed i principi di Trabia, Scordia e Butera col Riggio e col Branciforti (che disponevano di oltre 6000 uomini) circondarono la Conceria, dove sono solo in ottocento resistevano.

Giuseppe D’Alesi fugge per un passaggio segreto, che immette nelle fogne, dalle quali si sbocca fuori le mura. Ma uno di quei passaggi è troppo angusto e D’Alesi, di grossa stazza non riesce a passare, ritorna indietro e sbuca presso la scalinata di Santa Maria della Volta, in mezzo ai suoi nemici: fu ucciso. Sgozzato. Decapitato. Ferocemente.

Anche Giuseppe Errante a Francesco Daniele furono scovati dai nascondigli e trucidati.

Nessuno se lo ricorda D’Alesi … eppure fu più consapevole di Masaniello e di Cola di Rienzo o del successivo Pietro Micca, eroe risorgimentale ed antesignano degli odierni kamikaze che di niente arricchiscono le loro lotte se non di morte.

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