Il tempo distrugge/ La memoria costruisce
di
Nicola Lo
Bianco
Recensione al volume: Santo Platino “Gibilrossa-accadimenti e storia di
Misilmeri” Edizione del Comune di Misilmeri
Il titolo che
ho voluto dare nel prendere in considerazione il libro di Santo Platino
sulla partecipazione di Misilmeri (cittadina alle porte di Palermo)
all’evento epocale del Risorgimento Italiano, vuole sottolineare
l’importanza fondamentale che ha la memoria nella vita dei popoli,
proprio in questa nostra epoca che tende a sprofondare paurosamente
nella cecità del presente.
Le vicende
narrate su Gibilrossa (collina, dove si accamparono i Garibaldini, prima
della battaglia di Palermo) e Misilmeri, mirano evidentemente a rendere
prestigio e gloria a questa cittadina.
Questo tipo
di storia, la storia su cui si affatica Santo Platino, è importante e
utile per i diversi aspetti che promuove sia riguardo alla conoscenza
sia riguardo alle istanze civili che sollecita.
Una prima
considerazione che si può fare è che la conoscenza del passato crea
identità: sapere che cosa è accaduto in quel luogo, che cosa hanno fatto
i suoi abitanti, come hanno operato, quali scelte hanno compiuto,
traccia e fissa un profilo che rende quella città immediatamente
identificabile, come se assumesse una precisa personalità con la quale
confrontarsi.
Un
riconoscimento di piccoli e grandi atti che, insieme alle esperienze
analoghe di tanti altri luoghi sparsi in tutto il mondo, confluiscono in
un’ideale storia universale e contribuiscono ad allontanare l’incombenza
della morte. La vera morte, a ben riflettere, è l’oblio, lo scivolare
nel buio della notte del tempo.
Ecco, ad
esempio, Santo Platino ricorda la famiglia Gucciardi di Misilmeri che
ospitò Garibaldi nella notte tra il 25 e il 26 maggio 1960, e, fra
quelle stanze, la piccola Ciccina, la quale diede il suo grembiulino per
fasciare la ferita alla mano destra, ricordo della battaglia di
Calatafimi, di Menotti Garibaldi: da questo racconto riusciamo a
intravedere le movenze della bambina, la sua timidezza, il rossore delle
sue guance, lo sguardo curioso e stupìto, quando, incontrando Garibaldi
che si muoveva fra quelle stanze, gli domandò: “È vero che non credi
in Dio?” E immaginiamo il sorriso, il gesto benevolo, la carezza
affettuosa dello sguardo di Garibaldi nel rispondere, facendole
osservare la lunga barba: “Ma non vedi che somiglio a San Giuseppe?”
La piccola
Ciccina Gucciardi, ritratta nella quotidianità della sua casa, ritorna a
vivere, dopo centocinquantanni, tra di noi. Se non ci fosse questa
amorevole storia municipale, quelle vecchie pietre del Castello, detto
dell’Emiro, sarebbero macerie, e a chi verrebbe in mente che è un
frammento di storia di Misilmeri e che è onorevole, oltre che doveroso,
mettere mano al suo restauro?
Non ci sono
storie minori e storie maggiori, tutte hanno pari dignità, perché fanno
parte della grande storia di gioie e di dolori che accomuna più o meno
direttamente gli uomini che vivono su questo pianeta. Proporre una
gerarchia di valore degli eventi è un’idea falsa e interessata, come ci
insegna un grande maestro della storiografia del Novecento, Fernand
Braudel.
Talora il più
piccolo dettaglio illumina l’accaduto che altrimenti sarebbe
inspiegabile, e insomma per dirla col paradosso di Blaise Pascal, “se
il naso di Cleopatra fosse stato più corto, sarebbe cambiata la faccia
della terra”.
Il problema è
semmai quanto penetrante sia la luce che quegli episodi, quei dettagli,
riescono a gettare sulla società del tempo. È la memoria che trasmette
alle generazioni successive tutti gli strumenti utili a continuare la
vita, dalle tecniche di lavoro, alle feste religiose, dalla cura dei
bambini, ai legami affettivi, dalla preparazione dei cibi, alle varie
concezioni del mondo. I secoli bui del Medioevo nella storia dell’Europa
furono quelli in cui l’uomo perse l’eredità del passato e dovette
ricominciare quasi tutto daccapo.
In questi
ultimi decenni, la tendenza ad oscurare la storia, a ridurre lo spazio
della memoria, è insistente: in vari modi, più o meno volontariamente,
si cerca di far credere che il passato intralcia il cosiddetto
“progresso”, che esso è una zavorra inutile, del quale bisogna liberarsi
prima possibile, se si vuole adeguatamente competere per il “successo”
economico personale.
E ben si
comprende questa tendenza, se consideriamo che la storia è invece una
evidenza collettiva e induce a pensare in termini più propriamente
sociali.
Se tutto vien
ridotto al presente, si afferma istintivamente l’atteggiamento
consumistico, la mentalità del “tutto ora e subito”; crescono più
facilmente identità sbiadite, che danno riconoscimento solo al possesso
della cosa, totalmente indifferenti a un patrimonio di valori fors'anche
degno di essere salvaguardato. Si diffondono, cioè, quei vuoti di
coscienza, per cui non ha senso rispettare l’esperienza delle
generazioni precedenti: acriticamente è buono soltanto l’oggi, il nuovo,
ciò che fa moda e tendenza, scivolando inavvertitamente in quel
comportamento che Gramsci definiva il “conformismo
dell’anticonformismo”.
L’opera di
storico che svolge Santo Platino io la considero, a parte il valore
intrinseco, come un contributo che contrasta la nefasta tendenza ad
espropriare i cervelli dell’esperienza accumulata nel tempo.
Può accadere,
come è già accaduto, che quando si esalta il presente con tutto il
corredo di irruente istintività che esso comporta, a discapito della
memoria che accomuna, possano emergere le atrocità più impensate, e
compiute da uomini “normali”, possa emergere cioè quella barbarie che
Hanna Arendt ebbe a definire “banalità del male”.
Un altro
aspetto del libro di Santo Platino, accanto alla semplicità del
linguaggio, dove è chiaro che lo scrittore si rivolge a un pubblico
composito, è da segnalare anche l’entusiasmo ed il carattere, per
l’appunto, “garibaldino” del racconto: penso, ad esempio, alla pagina
dedicata al misilmerese Francesco Ventimiglia, uno dei protagonisti
della “rivolta della Gancia”, fucilato dai borbonici, insieme ad altri
dodici compagni, vicino alla chiesa di San Giorgio dei Genovesi a
Palermo, nella piazza dedicata alla memoria di quei coraggiosi, piazza,
appunto, XIII Vittime, dove oggi sorge il monumento (brutto) dedicato
alle vittime della mafia.
Certo, “La
libertà non è pane”, scriveva Cesare Abba, l’esatto contrario di quanto
pensavano e speravano i contadini del Sud, l’esatto contrario di quello
per cui partecipavano alle rivolte al grido di “W Garibaldi W l’Italia”.
Per certi aspetti, si può essere d’accordo sul fallimento del
Risorgimento dal punto di vista delle masse popolari e contadine, ma da
questa valutazione critica alla sistematica denigrazione di quei fatti e
di quegli uomini, c’è la stessa distanza che corre tra la nobiltà
dell’alto sentire e il degrado morale e intellettuale. Siamo passati da
un pensiero gravido di significato, al disprezzo per il sacrificio
disinteressato di tanti uomini, all’insulto squallido di chi pretende di
essere classe dirigente, come l’on. Bossi, il quale dichiara che
“Garibaldi è un cretino”.
Marcel
Proust, uno dei maestri del Novecento (che siamo sicuri non fa parte
delle letture dell’onorevole Bossi), nella “Strada di Swann”, rivivendo
un episodio della sua fanciullezza, ritrova il “tempo perduto”, si
abbandona cioè alla “memoria rivissuta”, grazie alla quale, il grande
scrittore dice: “avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente,
mortale”.
Tre aggettivi
che credo riassumano l’essenza della memoria e quindi della storia:
privo di quel tempo raddoppiato dal ricordo che eleva l’uomo al di sopra
di se stesso, c’è il sentirsi piccino, isolato, schiacciato
nell’angustia della propria realtà, come peraltro accade agli animali.
Questo nostro
tempo che tende a misconoscere il passato, che irride alla riflessione
che da esso promana, si aggroviglia su se stesso, inaridisce le
coscienze, induce all’indifferenza per tutto ciò che non non è possesso
personale.
La storia
alla quale noi ci riferiamo è quella del racconto onesto e verace, nel
quale si concentra e si cristallizza un valore simbolico che serve a
capire la vita, a mostrare la sapienza dei padri, ai quali perdoniamo
gli errori e dei quali esaltiamo, se ce ne sono, le virtù.
L’opera di
Santo Platino assolve anche a questo ruolo col ricordare che i
misilmeresi di oggi sono figli di chi ha perseguito un nobile ideale, e
probabilmente vuole anche essere un invito a riproporsi altri nobili
ideali che facciano risuonare il nome di Misilmeri oggi come allora.
Nicola Lo
Bianco
Aprile 2010 |