Giacinto Romano n. Eboli
26 ottobre 1854 – m. Milano 7 febbraio 1920
Giacinto Romano
nacque a Eboli il
26 ottobre 1854
da Domenico e Teresa Masillo, frequentò le scuole
primarie a Eboli ed il liceo a Salerno, si iscrisse alla Facoltà di
Lettere a Napoli, avendo come professori, Settembrini, Calvello,
De Blasis e De Santis. Interruppe gli studi per cinque anni per
prestare servizio militare come ufficiale di cavalleria, al termine
tornò a Napoli e completò gli studi. Fu per quattordici anni
professore di storia nei licei di Monteleone Calabro, Messina, Pavia
e Milano, docente per quattro nell’Università di Messina, per venti
nell’Università di Pavia. Per titoli ed esami mediante un concorso
guadagnò la cattedra nel liceo Parini di Milano, per concorso
di titoli vinse, una prima ed una seconda volta, la cattedra
universitaria a Pavia. In questa città dimorò venti anni, fu eletto
due volte consigliere comunale. Assessore all’istruzione, introdusse
in quelle scuole riforme importanti. Fu anche, per qualche tempo
prosindaco.
Questa è la sua biografia esteriore. La sua vita
intima, la sua attività bisogna trovarla, là dove restano di essa le
tracce indelebili: cerchiamola, nelle opere e nell’insegnamento.
Sono passati centotrent’anni da quando il primo scritto di
Giacinto Romano, in un numero unico, fu stampato a Napoli: era
una breve nota intorno al ‘fondo storico’ di una novella del
Boccaccio, che gli capitò tra le mani mentre studiava: “le
relazioni tra l’Italia Meridionale e Tunisi sotto i re Normanni,
Svevi ed Angioini”. Lo pubblicò nella cronaca del Liceo
di Monteleone, una monografia di un giovane appena uscito
dall’Università, una indagine ammirevole condotta su un gran numero
di cronache latine ed arabe, di storie e raccolte di documenti. Tra
i tanti personaggi storici, cristiani e mussulmani, spicca
l’Imperatore Federico II di Svevia, presentato come: “precoce
e splendida manifestazione del mondo moderno”, è il primo che rompe
le barriere del feudalismo, riesce a far convivere in pace credenti
e non credenti, cristiani e maomettani insieme. Il principe che
combatteva
la Chiesa
in nome della ragione, che proclamava la libertà dei culti,
emancipava i servi, proteggeva la scienza e la poesia, e dava asilo
a coloro cui la Curia romana aveva tolto l’indipendenza e la patria”.
Con questa larghezza d’informazione, Giacinto Romano,
a ventisette anni, riprenderà ad insegnare, indagare, scrivere la
storia adoperando il metodo del quale anni più tardi, in una
occasione solenne disse: “E’ l’analisi, l’analisi minuta,
rigorosa e paziente… La storia non immagina, essa vede
solamente; e però l’investigazione non può avere altro obbietto che
i fatti in quanto risultano da documenti certi. Lo studio delle
fonti è, perciò divenuto parte essenziale della critica storica e
principale fondamento di ogni investigazione scientifica”.
A Pavia tra il 1889 ed il 1899 il principale oggetto
della sua investigazione fu rivolto alle fonti della storia “Viscontea”
per gran parte ancora sconosciuta, corresse, rivelò e rischiarò il
giudizio su Gian Galeazzo Visconti, primo duca di
Milano, cominciando a determinarne l’età ed il luogo di nascita di
cui non si aveva notizia certa. Purgò tutta la sua vita, passando
alla storia intima, penetrò nella sua vita politica accorta, audace
e perseverante che ne fece il vero fondatore dello stato dell’Italia
Settentrionale. A suo giudizio Gian Galeazzo, “ad onta dei
suoi delitti e delle sue colpe, fu il più grande politico del tempo
e lasciò nell’arte tracce incancellabili della sua splendida
magnificenza; unico in Italia, in mezzo allo spettacolo di lotte
fratricide quotidiane, procurava all’orgoglio nazionale la
soddisfazione di due battaglie vinte su gli stranieri”. Un altro
lavoro sintetico e rigorosamente tracciato, è la “Cronaca del
soggiorno di Carlo V in Italia dal luglio 1529 all’aprile del
1530
” che Giacinto Romano scovò nella Biblioteca di Pavia. Subito
dopo gli venne pubblicato “Suor Maria Domitilla”, le visioni
e l’estasi di una cappuccina di Pavia, in cui tratta la
restaurazione cattolica della seconda metà del 500. A Monteleone,
alla sua instancabile attività, dobbiamo le utili “Bricciche di
Storia Calabrese”, i particolari della prigionia e morte di
Gioacchino Murat. “Messina nel Vespro Siciliano” da
quest’opera si apprende quale ruolo questa città ebbe nel periodo
normanno-svevo, quali le condizioni della popolazione, quale il suo
ordinamento amministrativo, e, quantunque favorita da Carlo
d’Angiò ed in contrasto con i suoi più vitali interessi, Messina
finì con l’associarsi al moto dei Vespri. Agli studi Viscontei
si annoda una delle maggiori opere di Giacinto Romano,
sono seicentocinquanta pagine intense di avvenimenti poco conosciuti
sulla biografia di Niccolò Spinelli di Giovinazzo, trovata a
Pavia tra pergamene polverose e carte ingiallite dell’archivio; la
pertinace raccolta di documenti di altre città d’Italia e della
Francia, gli permisero di raccontare ampiamente quella vita varia,
agiata, che si intreccia con i principali avvenimenti italiani della
seconda metà del Trecento. Niccolò, professore di diritto a
Padova e a Bologna, servì Giovanna I come cancelliere del
regno di Napoli, uomo di fiducia del celebre cardinale Albornoz,
fu promotore dell’elezione di Clemente VII contro Urbano
VI, fu uno dei governatori del Regno dopo la morte di Luigi I
d’Angiò, infine consigliere ed ambasciatore di Gian Galeazzo
Visconti. Giacinto Romano mostrò “come nel
Trecento, non ancora nata la nuova scienza politica, si
formasse un diplomatico di professione”, individuando e
dimostrando come Niccolò Spinelli doveva essere ritenuto una
gloria ed un vanto per il Mezzogiorno d’Italia che aveva prodotto il
primo dei grandi diplomatici dell’Europa Moderna.
Dopo questo fecondissimo decennio (1889-1899) e la
voluminosa biografia dello Spinelli, finita di stampare nel
1901, la produzione di Giacinto Romano sembrò diventare meno
copiosa. La verità è che egli in silenzio era intento a scrivere
un’opera di grandi proporzioni sulle dominazioni barbariche,
vale a dire intorno a sei secoli tra i più oscuri della nostra
storia. Fu preparata attingendo alle fonti originali di cronache e
documenti, consultando pubblicazioni, grandi volumi, memorie
accademiche, opuscoli ed articoli di riviste. L’opera ha
un’esposizione ordinata, limpida, efficace, l’esame delle varie
opinioni, l’espressione delle ipotesi ed il giudizio personale. Tra
le cose di rilievo del suo studio di ricercatore si domanda: “ci
fu un trattato tra Zenone e Teodorico? Quali sentimenti, quali
speranze suscitò negli animi degli italiani la venuta del re
Ostrogoto? Sopravvissero le curie alla conquista longobarda? Il Papa
Stefano II si recò in Francia con il consenso dell’Imperatore
d’Oriente, o di sua spontanea volontà? Il titolo di patrizio fu
conferito a Pipino dal Papa o dall’Imperatore? Che pensare
dell’asserita donazione di Carlo Magno alla Chiesa? Qual è il
vero significato, quale la vera importanza dell’incoronazione di
Carlo Magno Imperatore? Questi, e tanti altri problemi che
scaturirono dall’esposizione, sono trattati e risolti mediante
l’esame delle cause che li generarono, dei caratteri e degli
interessi dei personaggi, delle condizioni in mezzo alle quali i
personaggi operarono e gli avvenimenti si svolsero. Giacinto
Romano dimostra che è improprio parlare di rovina dell’Impero
Romano ed esagerato che alcuni storici, nel trattato di Verdum
dell’ottocentoquarantadue vedono la fine dell’Impero Carolingio, e
il principio della distinzione delle tre nazionalità, francese,
tedesca e italiana. In questa grande opera espone e spiega come
l’autorità spirituale del Papa si mutò, a poco a poco, in sovranità
civile. Il tema fu trattato per la prima volta sinteticamente nel
discorso da lui pronunciato all’inaugurazione dell’anno accademico
nell’Università di Pavia il 3 dicembre 1904. Riassume, interpreta e
severamente giudica quattro secoli di storia del papato.
L’insegnamento che ne trae è “che nella formazione del dominio
temporale della Chiesa non entrò in nessuna maniera il
bisogno di proteggere la religione e l’autorità spirituale dei
pontefici”. Un altro, di valore altissimo, è questo: la lotta
tra
la Chiesa, che vuole “conservare almeno una parte di quella
potenza secolare, a cui si era imposta nel Medio Evo”, e
lo stato laico, “se la storia ha pure la sua logica, se qualche
lume ci può venire dall’esperienza del passato, è lecito ritenere
che finirà con il trionfo dello Stato laico e colla sua completa
separazione della Chiesa”. Come concepiva lo stato laico? “
Lo Stato laico e quello che vuole
la Chiesa rispettata e protetta come ogni altra associazione,
nel libero esercizio delle funzioni che le sono proprie; ma esige
che i sacerdoti si tengono nell’ambito del presbiterio, e che
nell’esercitare il loro legittimo diritto di propaganda, non portino
la politica nella religione, non si trasformino, da apostoli di
pace, in strumenti di sopraffazione e di civili contese”.
Queste notizie sono tratte dal discorso commemorativo
che il prof. Francesco Torraca (compagno indivisibile ai
tempi dell’Università) tenne il
16 maggio 1920 ad Eboli nel salone del palazzo comunale. L’amico
concluse dicendo: “Questa, che ho rapidamente passata a rassegna,
è l’eredità sostanziosa, copiosa e varia che Giacinto Romano lascia
alla scienza storica italiana, e che tramanderà onorato il suo nome
alle future generazioni di studiosi. Questa, io la conoscevo
direttamente. Ma ve né un’altra, quella del suo insegnamento, della
quale i più sinceri testimoni sono i discepoli, i più autorevoli
giudici sono i colleghi”.
Il giorno dei funerali, a nome dei suoi compagni,
Ettore Rota, suo allievo prediletto disse: “In tempi nei
quali
la Scuola universitaria pareva ridotta a una fucina di pura
erudizione senz’alito di vita né fiamma di passione, Giacinto Romano
seppe essere prima di tutto e soprattutto un maestro nel senso
classico e umano della parola. Noi che gli fummo discepoli sentiamo
vivi nel cuore i fremiti destati dalla sua calda eloquenza”.
Ed ecco quel che disse per tutti i colleghi il prof. Guido Villa:
“ Da lungo tempo Pavia aveva imparato ad ammirarlo ed amarlo, sin
da quando cioè egli era dalla Sicilia venuto quassù ad insegnare nel
nostro Liceo. Il ricordo di quel suo insegnamento, che subito si
impose per la forza di una dottrina riscaldata da una viva fiamma
d’interna passione, è tuttora vivissima nei suoi numerosi discepoli
che da quella parola alta incitatrice ricevettero una suggestione
spirituale sì profonda che mai doveva cancellarsi dal loro spirito.
E col suo ritorno tra noi incomincia un periodo nuovo della sua
attività di scienziato e d’insegnante. La sua parola che gli anni
avevano resa anche più alta e più grave senza nulla togliere alla
sua calda eloquenza rinnovò nelle aule universitarie il fascino che
già gli aveva creata la fama di Maestro insigne nel Liceo. E dalla
sua scuola uscì una schiera eletta di giovani che nell’insegnamento
secondario portano i frutti della scienza appresa dal Maestro e pei
quali fu utilissima palestra il Bollettino della società pavese di
storia patria, da lui fondata con eccellente pensiero, al fine di
raccogliere intorno a un centro principale di ricerche i più
meritevoli studi intorno alla storia della città e provincia”.
Tra i lavori di questa scuola, merita di essere ricordata l’edizione
del Carme di Pietro da Eboli. Fu l’affetto per la sua
città natale, che lo portò a proporre ad Ettore Rota la
ristampa delle Particole con l’illustrazione del poema. Il
discepolo gli dedicò il lavoro e a testimonianza di gratitudine
scrisse: “Al mio Maestro professor Giacinto Romano, a cui mi
legano vincoli di affetto e di riconoscenza, sento il dovere di
porgere, sulla soglia di questo lavoro che alla sua iniziativa si
deve e che fu condotto a termine sotto la sua amorosa e sapiente, le
più vive grazie”. Ettore Rota.
Mi preme ricordare come il professor Torraca
chiuse la dotta esposizione per ricordare e commemorare il
vecchio amico e compagno di studi con queste parole: “Cittadini
di Eboli! Il ricordo di Giacinto Romano, purissima gloria vostra,
non si cancellerà dalla vostra memoria, come indelebile rimarrà la
sua cara immagine nel mio cuore. E voi tramanderete il suo nome ai
vostri figlioli. Possa il suo esempio, negli animi loro, esser seme,
che frutti gentilezza di sentimenti, fervori di studi, dignità di
vita, utile operosità civile, virtuose azioni”.
Eboli, il
16 maggio 1920,
onorò uno dei suoi più grandi figli alla presenza del Ministro della
Pubblica Istruzione, dei Rettori delle Università di Napoli, Pavia e
Roma e della figlia del compianto professore, signora Elena,
giunta da Milano dove insegnava, che ringrazio con commosse parole
per quanto si era fatto a gloria dell’adorato padre.
Mariano Pastore
Articolo
inviato dall'autore al portale del Sud nel mese di febbraio 2011 |