Mai, ci si era abituata. A quell'afrore rancido. A quel tanfo di
corpo sudicio. A quell'odore di stoffa ruvida e lercia, Al puzzo del
sudore della suora della camerata, quella che, con occhi aguzzi e
maligni, osservava lei e le altre bambine quando si spogliavano per
andare a dormire. E nella luce grigia della camerata, quando la
suora della notte scivolava silenziosa accanto ai letti,
sorvegliando che non ci fossero movimenti sospetti sotto le
lenzuola, l'aveva odiata. Come aveva odiato il risveglio triste,
quel caffellatte grigio e quel pane avaro, triste promessa del
pranzo insipido che le sarebbe stato proposto. Non mi piace, aveva
detto qualche volta. Mangia, devi fare un fioretto a Gesù. O alla
madonna. Ma perché poi doveva fare un fioretto. E cos'era un
fioretto. Una punizione che si doveva amare, secondo quelle troie di
suore. Oddio l'aveva pensata quella parola. Come confessarla? Ma
vai, non c'è più il padre confessore. Quello al quale dovevi dire
tutti i peccati che avevi fatto – no- che avevi pensato di poter
fare. E l'ansia di quella domanda, inevitabile: hai commesso atti
impuri? Che la metteva sempre in imbarazzo. Sempre aveva detto che
lei, quelle cose non le faceva, a quella figura di prete. Lo aveva
sempre ingannato. E non sapeva invece che il prete lo sapeva
benissimo. E che, magari, una erezione l'aveva, quando formulava la
domanda. E lei sapeva appena, si e no, cos'era l'erezione. Se ne
favoleggiava, nei rari momenti di confidenza con le altre. E ora
stava abbandonando tutto questo, la coperta arida della sua
costrizione. Nulla c'era da rimpiangere, di quell'edificio triste e
cupo, nel quale stava intristendo la sua pubertà, mentre fuori gli
odori, i sapori e la luce accecante della Calabria la invitavano ad
inebriarsi di loro. Ma non si poteva. Per via del fioretto alla
madonna. Ciononostante un'ansia sottile c'era. Si c'era. Si voltò
indietro e mentalmente sputò contro quel greve macigno schifoso che
le aveva nascosto e rubato gli anni e i mesi dell'infanzia, che sono
i più lunghi della vita. Che ne sarà di me? Che ne sarà di noi? La
domanda l'avrebbe inseguita per tutta la vita. Ma erano state le
oscure presenze evocate dalle suore a marchiare a fuoco la sua
mente. Suore che però erano state una delle poche certezze della sua
giovane vita. E adesso non c'erano neppure quelle. Una nuova
enigmatica presenza s'avanzava. La nuova donna del padre. Quella che
avrebbe dovuto sostituire la figura della mamma, che non c'era più,
e per la quale, a causa della sua scomparsa, ne era derivata la
reclusione. Chi era? Ed eccolo, il paese, il suo paese.
Un paese, come ce ne sono molti sulla costa del Tirreno, diviso in
due: la “marina” e il “paese”. La “marina proiettata verso il mare,
il “paese” arroccato in se stesso, protetto, chiuso, là sulla
collina. E la gente ripeteva questi caratteri: aperta, solare o
chiusa, ombrosa. Il borgo marinaro era costituito da una fila di
piccole case, coi muri ingrigiti e scrostati dalla salsedine, i
portoncini azzurri. Fili tirati da un balcone all’altro creavano una
parata di bucato steso al sole. Per la strada polverosa, un tempo
neanche asfaltata, erano “parcheggiate” sui paranchi, le barche,
appena più grandi di un guscio di noce, utilizzate per la pesca
locale. Quante storie aveva sentito raccontare, da bambina, sui
pescatori che sfidavano il mare, nelle notti di tempesta. E,
separata appena da un muricciolo, c’era la spiaggia dove, nei
pomeriggi di ogni stagione, i pescatori riparavano le reti e i
bambini giocavano, confondendo le loro grida con gli stridii dei
gabbiani che volavano radenti le onde. Il “paese” era davvero un
piccolo presepe: le case erano talmente addossate le une alle altre
che le vie erano poco più di un sentiero e il sole riusciva a
penetrare nell’odore di muffa e piscio di gatti solo quando era alto
nel cielo. E tuttavia le case, più vecchie di quelle della “marina”,
conservavano l’idea di un’antica nobiltà. Tale era riservatezza dei
“paesani” che potevi attraversare l’abitato senza incontrare anima,
quasi un paese di fantasmi. Sul punto più alto, un terrazzo, la
piazza della chiesa. Nelle notti serene le stelle erano lì, appese
al nero profondo, poco più in alto del campanile. E i giorni,
tuffati nell'oro dei profumi, dei fiori, E le notti, e le stelle
cadenti che sfrecciavano per ogni dove. Le barche oscillanti,
nell'onda spumosa, e gli uomini forti. Venne anche il tempo
dell'amore baldo dell'adolescenza, degli ormoni fluenti, delle pene
d'amore lancinanti; un presagio del tempo che sarebbe venuto. E la
scuola. Era adolescente, ora. Sapeva, confusamente che c'era del
ribellismo, a giro. Sapeva che c'erano tanti giovani, in tanti posti
del mondo che volevano.. Già, cosa volevano? Buttare all'aria un
mondo ingiusto, fin qui ci arrivava. E dopo? E non sapeva che un
paio di generazioni sarebbero riuscite, sì, a buttare all'aria un
ordine ingiusto, senza assolutamente avere la minima idea di cosa
fosse un ordine giusto. Si disse, di loro, con verità, che non
sapevano cosa volevano, ma lo volevano subito. Tutto e subito. Anche
lei, ribelle di natura, voleva tutto e subito. Ma non sapeva cosa
voleva. Gli anni della scuola, del Liceo, vissuti intensamente. E
gli uomini, i ragazzi, le avventure, il sesso giocoso. Cresceva però
l'insofferenza, verso un mondo che le prometteva solo una vita
brulla, confinata in un ruolo di femmina sottomessa agli usi del
sud. Che lei non perdonava e rifiutava. Alla prima occasione se ne
sarebbe andata. Scorrevano lenti quei giorni, scanditi dai litigi
con la figura familiare che aveva sostituito quella della madre. Su
quel treno che la portava verso una città del Nord, viaggiavano con
lei le speranze e le ansie di una generazione intera. E alla fine
scese, quella ragazza bella e sensuale del Sud. Preda. E
cacciatrice. Subito, gli uomini. La nebbia, al contempo minaccia e
riparo. E quel sesso che era sempre stato una componente essenziale
del suo farsi donna, farsi persona. Quel sesso voluto, goduto e
talvolta, in seguito, storpiato. Un matrimonio forzato e costruito
in modo artificioso, proprio come quello di un altro uomo, che
avrebbe conosciuto alla fine di questa storia. Pigmalione alla
rovescia. E poi, feroce e imparziale come solo il destino sa essere,
la tragedia. In una notte d'ospedale nasceva una bambina che mai
avrebbe potuto essere guardata come era, e sarebbe stata, guardata
la madre, e moriva un matrimonio. Cominciava la Via Dolorosa. In
fondo, lo temeva, il Calvario. La crocifissione. Che arrivò, quasi
per caso. Non ad un dolore. Peggio: ad un amore. Le sembrò un
risarcimento danni ed era la somma dei danni. Le sembrò l'unica cosa
bella che la vita le potesse ancora riservare, una via di scampo
alla quotidiana sofferenza. Perchè uno dei bracci della croce alla
quale era inchiodata era il dolore di una vita familiare straziata,
contorta. Come accadeva agli appesi alla forca, giunse il colpo di
lancia nel costato. L'amore, al quale era stata crocifissa, di
dileguava nell'ombra, lasciandole l'onta di un cuore stuprato. E
adesso non c'era più nulla. Solo maree di dolore, che si rinnovavano
ogni minuto, ogni passo. Onde di dolore liquido che inghiottiva ad
ogni respiro. Che la soffocavano. Un turbine di nera disperazione,
un vortice di smarrimento. Buio assoluto, e nemmeno un cerino in
tasca. De nihilo tenebrisque. Il nulla e le tenebre.
Per noia, per stanchezza, per curiosità, aveva iniziato a navigare
nel web. Con moderato interesse, leggeva i commenti, su fatti
sociali e di politica. Uno, le piacque. Cliccò un “mi piace” Era il
commento, sarcastico, di un tizio con la barba, con un lieve sorriso
tra l'ironico e l'intrigante. Finì lì, per quella sera. Lo trovò
ancora, il tipo con la barba. Commentava sapidamente. E lei
approvava. Fu chiesto il contatto. Concesso. Lui scriveva. Glielo
disse e le chiese se voleva dei racconti, di politica, di etica,
umoristici. Che furono inviati. Scriveva bene quel tipo. Divertente.
Poi, un lungo intervallo. Talvolta, commentava qualche suo scritto.
Ma si ritrovarono. Una sera nella chat si esploravano
vicendevolmente. Così, quasi per caso, lei disse della sua bambina.
Svenuto?, chiese, vedendo che il tizio non rispondeva. E non sapeva
che il poveraccio stava scrivendo, a velocità folle, la storia delle
sue sventure, che gli avrebbe elencato quella sera e rovesciato
addosso nei giorni successivi. Più gravi delle sue. Era un rapporto
strano, quello che si era venuto a creare tra di loro. Che aveva
cominciato ad occupare anche un po' del suo tempo e dei suoi
pensieri. E un po' di tempo e di pensieri da parte di lui. Vennero
anche le telefonate. Tante. E la posta, quasi quotidianamente. Si
raccontarono, si scrissero, si scambiarono notizie così intime che
nessuno dei due aveva mai raccontato ad anima viva e mai più
avrebbero raccontato. Condividendo il dolore, i ricordi, i rimorsi,
si liberavano poco a poco, pian piano, dei fantasmi e degli incubi
di un passato troppo brutto per essere sopportato in solitudine. E
il disvelarsi delle proprie sofferenze, le elideva. Volavano veloci,
le dita di lui sulla tastiera, come polpastrelli che avrebbero
voluto esplorare il corpo di lei, il suo viso, i suoi capelli, la
sua bocca. Una sensazione quasi erotica. Fatalmente, e lo avevano
capito entrambi, arrivò quel “ti voglio bene” già insito nelle cose.
Un “ti voglio bene” già detto ad altra donna, in altra occasione,
con conseguenze perigliose, da parte di lui. Detto con timore, ma
anche sentito. “La sventurata rispose”. Si incontrarono. Pranzarono
in un ristorante lungo un fiume azzurro. Un errore. Lui si sorprese
a ricordare un altro fiume, altri momenti passati con l'altra. E non
scoccò la scintilla del contatto. Neppure i baci che ci furono
accesero alcunché. E un bacio è più coinvolgente di un rapporto
sessuale. Lei, gli ricordava una antica relazione precedente. Ma in
qualche modo si vollero bene. Confessioni liberatorie. Si aiutarono
anche. Lei cresceva. E infine decisero di scrivere una storia.
Questa. Sensazione strana, quella di scrivere una storia che era
anche la fine della storia stessa. Come un impiccando che intreccia
la corda con la quale verrà appeso. E il tempo ora ruggiva. Ma lui
aveva promesso di finirla, la storia, e lui manteneva. Sempre. E
adesso siamo davvero alla fine. Ora lei era cresciuta, era più
libera e più forte. Lui la spinse dolcemente fuori del nido dove si
era riparata per tanto tempo, in quel ginepraio che era stato la sua
vita, rondine venuta dal sud. Come un uccellino che tenta il primo
volo, aprì le ali che credeva tarpate, buone solo per proteggere la
sua piccola rondinella malata, e si slanciò. Nella nebbia, ancora;
ma verso l'alto. Volava. Si volse, e lui non c'era più. Era già un
ricordo. I ricordi non dicono addio, ai ricordi non si dice addio, i
ricordi non conoscono la parola fine. Lei ebbe un piccolo brivido e
continuò il suo volo, nell'azzurro ora, perché la nebbia, che aveva
forato, si stava dissipando in bianca lanugine, sotto il sole di
Lombardia, preso a prestito da quello della Calabria. Ne aveva fatta
di strada quell'uccellino tenero. Aveva ricevuto tanti graffi
profondi, in quel ginepraio. Ma stavano guarendo. Un frullo d'ali.
Adesso sapeva di poter volare di nuovo. Poteva essere ancora felice,
si.
Pubblicazione
del portaledelsud.org, novembre 2014. Riproduzione vietata. |