L’uso del corallo nei nostri ornamenti fa parte del nostro costume e delle nostre tradizioni. Ma da quando è entrato nella nostra cultura? E fa parte solo della nostra cultura?
E’ difficile dire da quanto tempo l’uomo conosca ed apprezzi il corallo. Probabilmente fin dalla preistoria: ha trovato un rametto di corallo sulle spiagge e lo ha conservato attribuendogli già allora un valore apotropaico, principale motivo che lo ha reso assai apprezzato presso varie culture.
Le prime testimonianze storiche fanno supporre che fosse conosciuto già varie migliaia di anni fa; parliamo di reperti archeologici di Sicilia, Sardegna, Siria, ed una tomba di una dea sumerica in cui sono stati rinvenuti molti ornamenti di corallo.
Gli storici non sempre sono d’accordo sugli indizi forniti dai testi antichi, sul fatto che la ricorrenza della parola corallo si riferisca effettivamente a questo materiale. Le prove ritenute più attendibili sono, ovviamente, i ritrovamenti archeologici e molto potrebbero aiutare in tal senso quelli di archeologia sottomarina, che sono, però, più difficili da effettuare.
E’ acclarato che i Greci conoscessero il corallo anche se non lo apprezzavano molto; il loro uso era relegato più alla farmacologia. Si sa che i Greci per gli ornamenti gradissero di gran lunga le perle.
Per gli Etruschi non si ha nessuna notizia che ne faccia dedurre la loro conoscenza ed uso.
Per quanto riguarda gli antichi Romani, sappiamo che lo usavano come sostanza medicinale e che poco lo usassero in gioielleria. Ma al loro tempo era assai fiorente la pesca del corallo nel mediterraneo il cui pescato era assorbito quasi del tutto dai Celti che avevano una vera e propria predilezione verso questa “pietra” rossa con cui ornavano anche le briglie dei loro cavalli al punto che, in mancanza di questa, nelle decorazioni usavano del vetro colorato di rosso.
Non si conoscono precise leggi romane intorno alla pesca del corallo, ma era un’attività talmente intensa che si presume che i Romani, che tutto cercavano di regolamentare, non possano non essere intervenuti in merito a tale materia.
La pesca e la lavorazione del corallo erano praticate in tutto il mediterraneo, anche nei paesi del nord Africa. E dal mediterraneo era esportato in tutto il mondo conosciuto. Venivano utilizzate le vie per le quali in senso inverso importavamo le spezie, i profumi e le altre merci pregiate. Una delle più importanti del mondo era quella che andava nello Yemen, l’Arabia Felix per i romani. Fin dal V sec. a.C. questa rotta, che collegava il mediterraneo con l’Arabia del sud, era controllata dai regni sud arabici ed era nelle mire di romani, egiziani e greci. La tappa principale delle carovane che portavano incenso, mirra e prodotti che provenivano dall’oriente, era la capitale Ma’rib e proseguiva per i mercati di Palmira, Petra, i porti di Tiro ed Alessandria. Al ritorno i mercanti portavano merci tipiche del mediterraneo tra cui il corallo. La fornitura del corallo in India lungo questa direttrice avveniva già tra la fine del II e l’inizio del I sec. a.C.
Fucili di re Ferdinando, con decorazioni in corallo ed altre gemme. Napoli, Museo di Capodimonte |
Poi si svilupparono i traffici per via mare e nel più importante portolano dell’epoca Periplus Maris Erythraei (I sec. d.C), viene segnalato anche il corallo tra le merci dirette in India.
Nel Materia Medica, Dioscuride indica come luoghi di pesca del corallo Pachino, vicino Siracusa; nella Naturalis Historia Plinio nomina varie zone di pesca e dice che quelli più pregiati sono quelli di Gallico sinu (Isole Stecadi –Marsiglia-), nel siculo, nelle Eolie, a Trapani e a Gravisce e conclude che quello più rosso è quello che nasce di fronte Napoli, mentre quello eritreo è molle (probabilmente gorgonia) e di scarso valore. Plinio dice anche: «Gli indiani apprezzano il corallo quanto i romani valutano le perle indiane il cui costo varia con l’importanza che ogni popolazione gli attribuisce».
Il commercio di tale materia tra mediterraneo e Yemen avveniva tramite egiziani. In antichi testi in sanscrito il corallum rubrium era chiamato alasandraka o alakandaka ad indicare il luogo d’origine del prodotto o l’etnia dei mercanti, segno che Alessandria d’ Egitto era luogo di scambio tra le aree di pesca e l’Oriente. Nel medioevo tra l’ XI e XII sec. il porto di Aden in sud Arabia era scambio terminale di merci ed i traffici erano in prevalenza controllati da mercanti ebrei. Nel XII sec. Ahmed ibn Yousuf Al-Tifashi diceva che che il marjan (corallo) era pescato nelle zona di «Marsa Al Khazer nel mare d’Africa ed anche nel mare di Francia. Non ci sono altre buone qualità, grandezza e quantità di corallo come quelle che si trovano in questi luoghi». «…è esportato da Marsa verso l’Oriente, in Yemen, India e altri paesi…….in Alessandria è pulito, forato e lucidato». Il porto di Marsa Al Karez era centro di raccolta e vendita dei coralli più pregiati da dove Genovesi e Veneziani prendevano ingenti quantità da smerciare, a volte proprio come merce di scambio, in altri paesi orientali. Nel 1286 Marsa fu conquistata per conto degli Aragonesi dal Generale Ruggiero di Lauria, segnando il declino arabo del commercio del corallo.
Marco Polo scriveva: «…il corallo che si porta dalla nostra patria in quelle parti, si spende maggior prezzo che in alcuna altra parte»; e scrivendo del Tibet diceva: «…in questa provincia si spende lo corallo et evvi molto caro peroch’eglino lo pongono al collo di loro femmine e di loro idoli, e hannolo per grande gioia».
Con le conquiste mongole, invece, i traffici furono favoriti dalla “pax mongolica”. I Mongoli avevano ridotto in steppa la gran parte delle loro estese conquiste per meglio controllarle, ma ben presto capirono che per favorire gli scambi ed i mercati era opportuno garantire la sicurezza delle carovane internazionali adottando una politica di tolleranza. In punti prestabiliti del percorso i funzionari del Khan davano ai carovanieri un salvacondotto dietro pagamento di una tassa per ogni carico trasportato. E così il viaggio fino in Cina durava solo 225 giorni a fronte dei quattro anni impiegati da Marco Polo per raggiungere la Cina. Francesco Pegolotti , al servizio di banchieri fiorentini, così scriveva: «…il cammino di andare a Tana al Ghattaio è sicurissimo e di dì e di notte»…..« ..portasi al Ghattaio per vendere e barattare teli line sottili, e coralli puliti e non puliti, e ambre, e argento in verghe alla lega veneziana….».
Come veniva usato il corallo? Esso era tenuto in gran conto per gli ornamenti religiosi e anche per gli ornamenti delle persone e, per i Mongoli, ad esempio, anche per i loro cavalli e pugnali. Il corallo aveva un significato diverso a seconda delle culture e delle religioni, ma i poteri che più ricorrentemente gli erano attribuiti erano quelli di protezione dal male e dalle malattie per i neonati, fertilità e protezione della famiglia per le spose, infondere forza e allontanare la morte per i guerrieri. I gioielli di corallo facevano parte del corredo e della dote delle spose sia per le popolazioni più lontane dei mongoli, sia per le popolazioni dell’Asia centrale come l’Uzbekistan, e per gli Indiani, e i Musulmani.
Certo esiste del corallo anche nei mari del Giappone e della Cina, ma a profondità maggiori che nei nostri mari, e forse all’epoca non ne erano a conoscenza e non c’erano i mezzi per raggiungere quelle profondità. E la qualità è meno buona e di consistenza più dura e di difficile lavorazione.
Intanto nel sud Italia la pesca del corallo era stata regolamentata con precise norme già dal re Guglielmo che concesse al Monastero di San Pietro e Sebastiano di Napoli 300 ducati annui ricavati da “la Gabella del corallo de la spiaggia de mare” (questa gabella fu tramutata in esazione sulla pesca quando, ai primi del ‘600, il corallo si esaurì).
Carlo d’Angiò emanò il 25 febbraio 1277 delle ordinanze “pro pescatoribus corallorum” nei mari di Terra di Lavoro (provincia di Napoli) e Principato Citra (provincia di Salerno).
Carlo concesse particolari privilegi ai marinai provenzali e marsigliesi che esercitavano tale pesca nel regno, riscuotendo sul prodotto pescato una decima che al tempo di re Roberto corrispondeva ad un’oncia per ogni barca. Dette ordinanze furono confermate da Giovanna I d’Angiò. Tale gabella continuò ad essere riscossa anche in epoca aragonese. All’atto di fondazione della certosa di San Giacomo a Capri la regina Giovanna I concesse ai certosini un diritto detto “pecunia maris” in cui, oltre all’esazione della decima parte del pesce pescato, era compresa anche metà dei proventi della gabella sul corallo. Ed i monaci continuarono a riscuotere fino al 1500, quando i banchi si esaurirono, malgrado le proteste dei corallari che ricorsero al regio fisco. Ma i certosini nel ‘600 continuarono a reclamare i loro diritti, ottenendone conferma fino alla fine del secolo.
Il corallo si pescava nell’isola di Ponza e lungo le coste del Cilento, in particolare a Palinuro, ed in Calabria. In Calabria nel ‘400 si dirigevano i pescatori di Praiano (SA) e di Trapani. In epoca spagnola i genovesi ed altri “forestieri” che pescavano corallo nel mar grande di Taranto, dovevano pagare particolari diritti doganali. Ma il corallo cominciava a scarseggiare ed i pescatori dovettero dirigersi già in Sardegna e Corsica.
Documenti del XIII secolo attestano la produzione di corallo lavorato proveniente da Genova ed inviato ai mercati di Costantinopoli dove c’era una estesa richiesta. Anche i mercanti amalfitani commerciavano l’oro rosso con i levantini e nel secolo successivo possedevano case e botteghe nell’Impero d’Oriente.
Napoli fu meta dell’ambasciatore Raban Bar Sauma, turco nestoriano, nato in Cina e designato dal Khan dei Mongoli dell’Iran a guidare un’ambasceria in Europa in cerca di alleanze. Nel suo diario di viaggio Sauma parla con ammirazione di Napoli ove regnava Irrid Charladou (Carlo II). Il risultato dell’ambasceria fu la nomina del salernitano padre francescano Giovanni di Montecorvino ad arcivescovo di Pechino. Le lettere spedite in Italia da padre Giovanni parlano della presenza di mercanti italiani, soprattutto genovesi e veneziani, in Persia e Medio Oriente. Altri italiani testimoniano di scambi commerciali e soprattutto di corallo, nel Turkestan, nell’Uzbekistan.
La situazione favorevole agli scambi, determinata prima dalla Pax Mongolica, durò anche con il regno di Tamerlano la cui politica dava molto rilievo agli scambi commerciali con l’Occidente. Ma a sfavore degli scambi politico-economici tra Mediterraneo e Oriente intervennero due fattori: dal 1344 al 1348 la peste nera; nel 1368 la caduta dell’impero mongolo. La caduta di Costantinopoli e dell’Impero Bizantino nel 1453 chiuse la porta tra Oriente ed Occidente. La situazione era meno favorevole agli scambi, ma, sebbene si aprissero nuovi orizzonti (la scoperta delle Americhe) per l’Europa, i traffici con l’Oriente non terminarono di certo. Infatti dalla fine del XIV sec. all’inizio del XX sec. il corallo fu una parte costante dei tributi dati dal Tibet alla Cina.
Nel XIV secolo Trapani gareggiava in questa attività con Genova. I trapanesi erano allora gli “scultori “ per antonomasia ed a Barcellona godevano di particolari privilegi. Essi producevano di tutto: arredi sacri e arredi domestici. La loro specialità era l’incastonatura di piccoli coralli di varie forme su rame, bronzo dorato, più raramente su argento. Secondo una tecnica di lavorazione di origine levantina.
In quel secolo la lavorazione si accentrava quasi totalmente nelle mani di ebrei, per cui quando i reali di Spagna espulsero gli Ebrei dall’isola la lavorazione del corallo rimase per un periodo paralizzata. Sennonché dopo alcuni anni il banchiere Gian Battista Fardella indusse alcuni ebrei alla conversione, e la lavorazione del corallo riprese con grandi vantaggi per l’economia locale. E’ passata alla storia la
“Montagna di corallo” (1500) commissionata ai corallari trapanesi dal vicerè di Sicilia per il re Filippo II di Spagna.
Nel XV secolo si contendevano il primato di questa attività Barcellona, Livorno, Genova, Napoli, Marsiglia e Trapani.
Dal XV secolo lo sfruttamento delle coste barbaresche passò sotto il controllo di compagnie europee che, dietro pagamento di un canone annuale ai potentati locali, mettevano a profitto le zone di raccolta di Marsacares e Tabarca. Per più di tre secoli catalani, provenzali, siciliani e armatori ebrei, che concedevano il denaro necessario ad attrezzare le barche da pesca, si contesero e si alternarono nel controllo mercantile. Per le compagnie europee la raccolta del corallo fu anche l’occasione per fissare insediamenti commerciali e portuali utilizzati anche per l’esportazione di altre merci.
Dal XVI al XVIII sec. Genova, Napoli, Livorno alimentarono per vie tortuose un mercato asiatico che non risentiva dei cambiamenti delle mode. Calcutta divenne centro di smistamento per tutto l’Oriente. Proprio a Calcutta risiedevano alla fine dell’ 800 alcuni corallari di Torre del Greco. Alcune ditte conservano ancora documenti attestanti relazioni commerciali con compagnie indiane di Calcutta.
Il ‘700 fu uno dei periodi di maggiore richiesta del corallo. Nel 1717 il Dey di Algeri inviò al sultano di Costantinopoli, oltre ad altri doni, anche 75 rosari in corallo. Nel XVIII secolo era usanza regalare ai sultani musulmani rosari in corallo assieme a fucili e pistole anch’essi incrostati di corallo. La pratica si estese anche ai regnanti cristiani. Archibugi e pistole decorati con coralli, argento e madreperla, prodotti in Algeria e Marocco vennero regalati al Re di Napoli ed entrarono a far parte della Reale Armeria Segreta.
I pescatori torresi che avevano una secolare tradizione nella pesca del corallo, attratti dai tesori dei mari africani iniziarono nel 1780 lo sfruttamento dei ricchi banchi corallini presso l’isola di Galita, sulla costa tunisina. Da qui continuarono ad approvvigionarsi spingendosi parecchie miglia ad est. Ma dovevano guardarsi dai corsari turchi e barbareschi, nonché dalla francese Compagnie Royale d’Afrique che osteggiava tutti i pescatori stranieri, affermando il suo monopolio sulla pesca del corallo. Ingaggiati dalla Compagnia, i torresi, con corsi e catalani, dovettero accettare rigide normative a loro sfavorevoli. Nel 1780 i torresi inviarono suppliche ai Borbone per mettere fine alle controversie e affinché fosse regolamentata la pesca del corallo. Tale petizione portò dieci anni dopo alla promulgazione del Codice Corallino.
Dopo la pesca da agosto ad ottobre in Corsica e Sardegna, i pescatori torresi tornavano a casa, mentre i padroni, tramite piazzisti napoletani o del posto, vendevano il loro pescato agli ebrei di Livorno che pagavano prezzi irrisori. La pesca dunque risultava un’attività che coinvolgeva una gran quantità di famiglie - per quanto riguarda Torre del Greco potremmo dire quasi una intera popolazione - ma era assai poco redditizia: si armavano poche imbarcazioni (le“coralline”), molti padroni di feluche erano falliti, altri erano andati all’estero. In tutto il golfo di Napoli già dal ‘400 erano sorti Monti di assistenza per le varie attività marinare ed anche per chi praticava la pesca del corallo. Ma le difficoltà erano tante e non sempre il ricavato riusciva a coprire le spese. Si rendeva necessaria una riforma, una riorganizzazione del sistema. Sotto la reggenza del Tanucci, Giovan Battista Jannucci nominato nel 1763 Supremo magistrato di Commercio, in un suo inedito trattato sulla pesca dei coralli auspicava, tra l’altro, la vendita e la lavorazione del corallo nella capitale. E si rendeva necessario far venire a Napoli qualche maestro da Trapani o Livorno per poter diffondere le tecniche della lavorazione ormai da tempo sopita nella città partenopea. Solo nel 1790 , nello stesso anno in cui fu pubblicata una normativa specifica (codice corallino), del codice marittimo (pubblicato nel 1781), Acton approvava la fondazione della Real Compagnia del Corallo che doveva organizzare un sistema di vendita del corallo pescato dai torresi. La compagnia non decollò subito.
Nel 1805 re Ferdinando IV diede al marsigliese Paolo Bartolomeo Martin un permesso decennale, di aprire una fabbrica a Torre. Concessione rinnovatagli l’anno successivo da Giuseppe Napoleone che lo esonerava da ogni pagamento. Il francese doveva istruire a sue spese alcuni giovani apprendisti affinché a termine della privativa concessagli, si diffondesse la lavorazione del corallo.
Nell’ultimo quarto dell’800, si verificò la scoperta dei banchi corallini di Sciacca: in 5 anni ne furono raccolte migliaia di tonnellate. Ditte torresi si organizzarono per vendere i loro stock in Algeria stabilendo succursali nelle maggiori città. In documenti doganali algerini di fine ‘800 sono indicate importazioni dall’Italia per più di tre tonnellate di corallo lavorato. |