Le Pagine di Storia

Il Concilio Vaticano II

Giovanni XXIII

Il Concilio rinnovò la Chiesa

Giuseppe Alberigo

Il discorso di Giovanni XXIII dell'11 ottobre 1962 all'apertura dei lavori conciliari, che indicava prospettive nuove per il Vaticano II, ha trovato consensi tra la grande maggioranza dei padri. Ne è nato un concilio «nuovo», cioè diverso da quelli della tradizione precedente, dato che era formato da vescovi di tutto il pianeta, non era stato determinato dalla risposta a deviazioni eretiche, e neppure da esigenze di organizzazione della Cristianità, né da emergenze drammatiche né, infine, aveva un progetto ben determinato da realizzare - come era stato all'ultimo concilio del 1870. Il concilio ha lavorato durante due pontificati diversi.

Giovanni XXIII l'ha voluto e avviato, Paolo VI l'ha continuato e concluso. Gli impulsi che l'uno e l'altro hanno dato all'assemblea episcopale sono stati sensibilmente differenti. Da papa Giovanni è venuta l'idea stessa del concilio, caratterizzata da un «pensare in grande», dalla convinzione che la fede potesse generare un evento storico adeguato alle esigenze nuove dell'umanità. Papa Paolo ha accettato lealmente il concilio, si è sforzato di garantirne l’unanimità, ha trovato la costanza di portarlo a termine. La chiesa di quegli anni sessanta era provocata a rendersi conto di trovarsi di fronte a un mondo nuovo, al quale ripresentare i valori dell'uguaglianza universale, della povertà, della giustizia, della pace e dell'unità cristiana.

La «forza» del concilio

Il concilio, con un intenso lavoro di quattro anni, ha portato la chiesa a rispondere coralmente e in positivo, cioè riproponendo i contenuti evangèlici essenziali, all'umanità di oggi, secondo i criteri della pastoralità e dell'aggiornamento. Erano criteri da molto tempo inconsueti - anzi, estranei - al cattolicesimo, per i quali mancava sia una consuetudine recente che un approfondimento concettuale: i padri conciliari si sono impegnati in una riscoperta di questi valori.

«Pastoralità» significava concepire, vivere e guidare la chiesa con uno stile mite, povero, ben diverso dal modo di essere delle comunità statuali. «Aggiornamento» voleva indicare disponibilità e attitudine alla ricerca, impegno globale per una rinnovata inculturazione della rivelazione. La storia viene riconosciuta come luogo teologico, cioè realtà nella quale la fede può e deve alimentare la propria incessante ricerca del Regno, non per averne un possesso geloso, ma per farne la sede privilegiata dell' amicizia con gli uomini. L'abituale contrapposizione tra storia profana e storia sacra risulta pertanto superata.

Era una macroscopica inversione di tendenza rispetto all'orientamento cattolico prevalente da almeno quattro secoli. La chiesa che Giovanni XXIII aveva convocato a concilio usciva da una lunga stagione di diffidenza, spesso arcigna, verso la storia e di immobilismo dottrinale, secondo il quale la verità dell'evangelo era un tesoro da custodire, piuttosto che da trafficare. C'era la convinzione che la chiesa fosse chiamata a una nuova stagione di fedeltà evangelica, più ricca e più fedele delle precedenti.

L'assemblea conciliare ha anche avuto il coraggio di abbandonare l'eurocentrismo, che caratterizzava il cattolicesimo. Gli episcopati del «terzo mondo» hanno conquistato progressivamente spazio, esercitando un influsso crescente sui lavori e sulle decisioni. Questa de-europeizzazione ha trovato conferma soprattutto nell'impatto che l'evento conciliare ha realizzato proprio nei continenti della «periferia» del mondo.

Il Vaticano II - ancorché appesantito da un certo numero di decreti di ispirazione pre-conciliare - ha complessivamente trasceso le attese, realizzando una «svolta» più profonda e organica di quanto le istanze della vigilia avessero avuto la lungimiranza e il coraggio di auspicare.

Prima e dopo il Vaticano II

Qualcuno, con un umorismo greve quanto disinvolto, sta tentando di sostenere che prima del Vaticano II la chiesa cattolica godeva ottima salute e che, pertanto, il concilio sarebbe stato superfluo. Non può che trattarsi di chi non ha vissuto da credente gli anni Quaranta e Cinquanta e pertanto non ha esperienza della mortificazione di chi assisteva a celebrazioni liturgiche in latino senza comprendere nulla, né dell'estraneità dei fedeli rispetto al mondo chiuso dei chierici. Allora i rapporti tra cristiani di diverse chiese erano caratterizzati dalla reciproca polemica a base di «eretico» e di «scismatico», persino noti romanzi ricordano lo scandalo della concorrenza tra cristiani di diversa confessione. La libertà era regolata dal S. Uffizio mediante condanne decise senza alcuna garanzia; salvo alcuni «gruppi del Vangelo» semi-clandestini tra studenti universitari, la lettura della Bibbia era vista con sospetto quando non punita.

Infine, soprattutto nel nostro Paese, !'impegno emergente della Chiesa si esprimeva nel «collateralismo» nei confronti del partito della Democrazia Cristiana e in capillari interventi di fiancheggiamento elettorale. E vero che alcuni di questi comportamenti sembrano talora riemergere ai nostri giorni, ma almeno è opinione comune che siano iniziative contraddittorie rispetto a quanto è stato indicato da un grande concilio, che costituisce per i cristiani l'autorità più alta.

Opposizioni

Negli ultimi anni si manifesta un'opposizione all'importanza del Vaticano II. Qua e là, compresi gli «atei-devoti», emerge una tendenza che vorrebbe ridurlo a un «concilio debole». Un fenomeno simile si è già verificato dopo il grande concilio di Calcedonia (451), che aveva elaborato la concezione del Cristo che regge e ispira tuttora la fede cristiana, e si è ripetuto dopo il cruciale concilio di Trento (1545-1563), che ha sottratto il Cattolicesimo alla disgregazione interna, causata dalla decadenza ecclesiastica e dalla «corrosione» protestante. In entrambi i casi si è manifestata una corrente che avrebbe voluto «normalizzare» sia il Calcedonese, negando l'importanza della svolta dottrinale da esso introdotta, e perciò lasciando sopravvivere tensioni dottrinali laceranti, che il Tridentino, riducendolo a un rafforzamento dell'autorità di Roma, malgrado la tenace e strenua resistenza di San Carlo Borromeo, impegnato a un rinvigorimento delle chiese locali.

Paolo VI

Il Vaticano II realizza un’impresa di linee profonde - interrotte, ma non infrante - della tradizione cristiana assunta nell'accezione cattolica più densa e integrale. La visione riduttiva del Concilio, invece, sostiene l'accettazione dei decreti conciliari, ma nega il rilievo del concilio nel suo insieme come «evento»; si accettano i protocolli ufficiali, ma si diffida della viva documentazione personale dei partecipanti, ci si appella alla tradizione non come «trasmissione» dinamica della rivelazione e dell'esperienza credente del passato, ma come patrimonio rigido, chiuso e immobile. Si vorrebbe anche seppellire il significato del pontificato giovanneo nella totale «continuità» con quello paolino, ignorando la varietà, che è una delle ricchezze del pontificato romano. Si giunge così ad annullare la «svolta conciliare», e - non ultimo - a minimizzare l'insegnamento del concilio sulla Chiesa: la liturgia come partecipazione, la sacramentalità dell'episcopato e la collegialità dei vescovi con il papa, la libertà religiosa, la sovranità della S. Scrittura, il rapporto di «amicizia» con l'umanità e sua storia.

Paradossalmente, questa corrente - che strizza l'occhio ai teo-con nord-americani - testimonia, meglio di qualsiasi argomentazione, l'attualità del Vaticano II, malgrado i quaranta anni trascorsi dalla sua conclusione. Attualità riproposta, d'altronde, vigorosamente da prese di posizione che si susseguono, sempre più numerose e autorevoli, in tutte le principali lingue.

Non solo fatto del passato, ma anche progetto

L’abbandono dell'immagine della chiesa come "società perfetta", analoga alle organizzazioni statali moderne, ha consentito di recuperare la natura comunitaria della chiesa. È significativo che un impulso decisivo in questo senso sia venuto dall'episcopato del lontano Cile. Superare la stagione dell'ecclesiocentrismo non ha implicato solo il tramonto dell'importanza predominante della chiesa sulla fede ma, soprattutto, la riscoperta delle altre dimensioni della vita cristiana. Così è stato avviato l'abbandono del riferimento alle istituzioni ecclesiastiche, alla loro autorità e alla loro efficienza come il centro e il metro della fede cristiana e della chiesa. Sono invece la fede, la comunione e la disponibilità al servizio che fanno la chiesa. Sono questi i valori-guida sui quali si misura l'adeguatezza evangelica della struttura e dei comportamenti delle istituzioni ecclesiastiche.

Riconoscere il valore di supremo criterio ecclesiale della consapevolezza di fede e dei segni dei tempi in luogo della logica interna delle istituzioni, troppo frequentemente guidate dal potere, invece che dall'autorevolezza e dal servizio, è un rovesciamento epocale.

Il Vaticano Il ha lasciato una chiesa cattolica ben diversa da quella in seno alla quale si era aperto. La condizione di «cristianità», che era ancora dominante in Europa e, mediante essa, nel Cattolicesimo mondiale, appare l'8 dicembre 1965 superata. Ne sopravvivono frammenti, talora anche tenacemente restii a prendere atto della svolta storica,tuttavia sono sussulti nostalgici. Nella lunga durata, l'uscita dal periodo contro-riformistico e dalla stagione costantiniana caratterizza la «svolta» avviata dal concilio, una svolta necessariamente complessa e graduale, di cui esso ha posto le premesse e segnato l'avvio. Quasi nessuno all'atto dell'annuncio di un nuovo concilio aveva saputo immaginare il tipo di decisioni «orientative» e non «precettive», che avrebbero caratterizzato i testi approvati dal Vaticano II. Al massimo, ci si era spinti a auspicare la rinuncia a condanne.

Senza il Vaticano II il papato avrebbe continuato ad essere una «provincia» italiana, la problematica della pace sarebbe rimasta arenata in solenni quanto sterili deplorazioni, il superamento dell'esasperata personalizzazione del papato sarebbe ancora un sogno. Così come a livello sociale la chiesa cattolica si sarebbe trovata in insuperabili difficoltà a far fronte all'evoluzione verso l'assetto multiculturale generato dalla globalizzazione.

Ciò dà la misura dell'importanza della ricezione del Vaticano II, che coinvolge non solo la chiesa «ufficiale» - papa, vescovi, preti – ma l'insieme dei credenti. L'assimilazione profonda dell'esperienza conciliare di condivisione e di ricerca e delle indicazioni liberanti del Vaticano II è un processo complesso e di lunga durata. È vero che viviamo in una cultura «breve», a consumo rapido e con scarsa memoria, ma ciò che intende incidere su abiti mentali e comportamenti sociali di larga parte dell'umanità ha ancora bisogno del tempo, misurato almeno in «generazioni». Sta scomparendo la generazione che ha «fatto» e vissuto il Vaticano II e si apre una nuova stagione - forse più feconda, certamente decisiva – della assimilazione degli impulsi che nel concilio sono stati proposti ai credenti e a ogni uomo.

Sono ancora attuali alcune osservazioni di Ratzinger, e ancorché fatte dieci anni orsono: è normale che i concili abbiano dovuto essere interpretati e accolti nella vita delle chiese in una lunga battaglia, nella quale si sono assimilate le cose importanti e, nello stesso tempo, si sono lasciate cadere quelle meno essenziali. Mi sembra che sia un grande compito per la chiesa di oggi e di domani lavorare realmente ad una assimilazione profonda e fedele di quel grande avvenimento che è stato il concilio Vaticano II. Benedetto XVI non può aver cambiato idea.

Il ripiegamento su se stesso dell'impulso conciliare implicherebbe una delusione molto ampia, che sciuperebbe un eccezionale moto di attesa, di disponibilità e di creatività.


Articolo tratto da: Giuseppe Alberigo, la Repubblica, 7 dicembre 2005

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