Quelli a cavallo delle due guerre mondiali furono anni
travagliati nel rapporto fra lo Stato italiano e la
Chiesa cattolica. Quest’ultima era impegnata nella
stipula di quei concordati che le avrebbero sancito
libertà d’azione nelle Nazioni europee, dopo che la
prima grande Guerra aveva ridisegnato confini ed
idealità dei vari Stati. Per quanto riguarda l’Italia,
i “Patti Lateranensi” del 1929 non solo
decretarono la nascita dello Stato del Vaticano, ma
riuscirono a chiudere la cosiddetta “Questione
Romana” conseguente alla “Bercia di Porta Pia”
del 1871 ultimo atto del Risorgimento italiano. Negli
stessi anni, in Italia come in altre Nazioni europee,
fin dai primi anni del fascismo si fossero appalesate
differenze fra il magistero della Chiesa ed alcune
idealità dei nuovi regimi totalitari, come l’esaltazione
della violenza e del nazionalismo, ma ciò nonostante fu
forte l’attrazione della gerarchia ecclesiastica verso
il fascismo, come scriveva Arturo Carlo Jemolo secondo
cui quello del fascismo rappresentava per il Vaticano
una sorta di “male minore” rispetto a forme
“altre” di potere.
Il fascismo, infatti, a detta di Jemolo era “un
movimento che si presentava come una rivincita non solo
contro i socialisti, non solo contro i liberali, ma
mirando più lontano ancora contro giacobini e girondini,
contro enciclopedisti ed illuministi, contro i valori e
le affermazioni della rivoluzione francese, tanto che
era difficile che lo stesso Partito fascista apparisse
ai Cattolici come inconciliabile con la propria fede”
[1]
“Di fronte al pericolo dell’Ateismo e del Comunismo
– aggiunge Guido Verrucci – la Chiesa guardava come
baluardo del Cattolicesimo a quegli Stati come l’Italia,
l’Austria, il Portogallo, più tardi la Spagna
franchista, dotati di regimi autoritari o dittatoriali
in grado di contenere quel pericolo”.
Se per lo stesso periodo storico si guarda alle
provincie della periferia italiana, la situazione
ecclesiale rimaneva estremamente complicata. In
Calabria, emblematica la “Relazione ad Limina”
che mons. Saturnino Peri invia al Vaticano relativamente
alla diocesi di Crotone, ampia poco più dei confini
cittadini, nell’estate del 1916. Relativamente ali
sacerdoti presenti in diocesi, il Presule sardo osserva
nel suo latino ecclesiastico che “generalmente il
clero della nostra Diocesi è considerato male”.
“Sono, infatti, pochi – osserva il vescovo - i
sacerdoti che, secondo il sentire comune sono di vita
integra. In vero, negli ultimi quindici anni sono cinque
quelli che hanno lasciato la vita religiosa, di questi
tre si sono redenti pur vivendo fuori dalla diocesi. La
maggior parte del clero ha poca dottrina e spirito
sacerdotale”.
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Il Duomo di Crotone |
In una cittadina dove la Chiesa era osteggiata anche da
una presenza massonica, il Presule osserva come lo
stesso clero diocesano era diviso in due fazioni
contrapposte, una delle quali contraria allo stesso
Vescovo che, infatti, dopo aver subito l’oltraggio di un
ceffone da parte del padre di un sacerdote fu trasferito
ad Iglesias, nella nativa Sardegna. Finito il Regime
fascista il Crotonese, da sempre terra di fermenti
socialisti, registrò l’esperienza di un “prete
operaio” che tanto clamore suscitò nella diocesi di
Cariati. È questo il caso di don Claudio Vitale che
operò per qualche anno a Zinga, di Casabona.
“La scelta di fare il bracciante agricolo –
scrive don Pietro Pontieri – aiutando chi aveva
bisogno nei lavori dei campi, in mezzo ad un paese di
piccoli coltivatori diretti, non solo non fu condivisa
dai benpensanti, ma il suo gesto apparve provocatorio”.
Prima del trasferimento nell’Italia settentrionale,
continua don Pietro Pontieri, giornalista e storico
della Chiesa crotonese, un motivo di imbarazzo nel clero
calabrese fu suscitato dallo stesso sacerdote nella
città di san Francesco, il celeste patrono della
Calabria.
“Durante il primo Convegno ecclesiale regionale a
Paola, tra i delegati nella città di San Francesco da
Paola era anche don Claudio, ma ad un certo punto lasciò
il convegno e salì sul primo treno per partecipare alla
marcia dei duecentomila disoccupati a Roma”.
Lo stesso don Pontieri, nella medesima pubblicazione,
racconta un’altra vicenda che ben descrive il rapporto
fra la Chiesa cattolica e quel Comunismo che ebbe
proprio nel Crotonese una delle zone di maggiore forza.
Ed ecco apparire nelle cronache di don Pontieri la
sospensione a divinis subita da don Antonio Maone
per lunghi anni parroco ed arciprete a Savelli.
“Quando il signor Antonio Gentile – racconta il
sacerdote – si era ammalato, sua moglie Mariantonia
aveva chiamato il prete e, da donna di fede qual era,
con una famiglia numerosa ed in tenera età, aveva
confessato a don Antonio la sua posizione matrimoniale”.
“Erano sposati solo al civile – spiega il
sacerdote - perché prima del Concordato si faceva
prima il civile e poi il matrimonio religioso”.
“Le misere condizioni familiari – aggiunge don
Pontieri - la chiamata in guerra del marito avevano
impedito questo passo, a cui si erano aggiunte a guerra
finita le diatribe partitiche, e suo marito compagno di
partito non si era mai preoccupato di ricevere il
Sacramento. Ora era disposto a farlo, e se doveva morire
voleva farlo da cristiano. Confessione, matrimonio,
comunione e viatico”.
Ai funerali che quindi si svolsero in chiesa, aggiunge
don Pietro Pontieri: “c’era una grande folla di
parenti ed amici, e naturalmente di compagni, ma nessun
segno di partito, né manifesti, allora non si usavano.
Questa partecipazione di massa urtò gli sviscerati
anticomunisti e ci fu qualcuno che espose al vescovo
l’accaduto dell’arciprete, ma in termini tali che quel
vescovo dalla “sospensione facile” che era mons. Fagiano
comminò la sospensione A Divinis per una settimana,
compresa la domenica”.
In questo contesto, a fianco dei contadini calabresi,
spiccano le figure di due sacerdoti impegnati col
proprio apostolato a rendere più facile la vita dei
campi. Si tratta di mons. Gaetano Mauro e di don Carlo
De Cordona, entrambi del clero diocesano cosentino che
fecero della difesa delle classi subalterne la ragione
prioritaria della propria vita di sacerdoti.
“La vita rurale – osservava mons. Mauro - o è
vita di fede o è vita di tormento. Le privazioni che
impone il vivere tra i campi, se non sono confortate,
impreziosite dalla fede, diventano insopportabile
strazio. La solitudine dei casolari deserti, se non è
riempita di Dio, è desolante deserto”. “Le stesse opere
sociali e ricreative, create per l’elevazione per il
sollievo degli abitanti delle campagne - aggiungeva
mons. Mauro - sono, da sole, insufficienti. Noi siamo
stati chiamati per riempire questa solitudine, portando
a chi tanto ne ha bisogno, fin nel suo casolare, il
pensiero di Dio, la parola di Dio, la presenza di Dio”.
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Mons. Gaetano Mauro |
Era il novembre del 1939 quando mons. Gaetano Mauro,
fondatore dei Missionari Ardorini, in un numero di
“Sempre più in alto” bollettino curato dallo stesso
sacerdote, spiegava così le finalità della stessa
comunità religiosa. Erano passati appena 12 anni da
quando, nel 1927, l’allora Arcivescovo di Cosenza aveva
approvato la regola dell’“A.R.D.O.R.” acronimo di
Associazione Religiosa degli Oratori Rurali che,
prima di espandersi essere riconosciuta anche dal
Vaticano, nel 1928 sarebbe divenuto Istituto di diritto
diocesano e le finalità della nuova famiglia religiosa,
dedicata all’educazione dei giovani e all’apostolato nel
mondo rurale erano già ben delineate.
“All’affacciarsi sul campo di don Mauro nel profondo
Sud della sua Calabria – osserva il domenicano p.
Vincenzo Romano – accanto a preti pieni di
iniziative, c’era anche un clero fiacco, carente per
zelo e per cultura, tutto ripiegato sulla propria vita
quieta e senza preoccupazioni, che si limitava ad
amministrare i Sacramenti. Oltretutto, erano ritenute
fortunate le famiglie i cui figli entravano nello stato
clericale, perché così facendo garantivano loro un
futuro, moderato ma socialmente vantaggioso”.
Per padre Romano, dunque, “c’era solo da guardarsi
attorno per accorgersi del bisogno di riqualificarsi, in
ordine all’apostolato parrocchiale e pastorale, ma anche
di inserirsi adeguatamente nella nuova realtà socio
religiosa, presente ormai anche in tutto il Meridione
d’Italia con caratteri di preoccupante urgenza”.
“Prima che don Mauro se ne facesse carico –
aggiunge lo storico domenicano – fondando per loro
uno speciale Istituto di Missionari rurali, i contadini
rimanevano “esclusi” dai benefici della cultura e della
civiltà, e persino della stessa pastorale della Chiesa
organizzata, com’è noto, solo all’interno dei centri
urbani, trovandosi a vivere nei loro casolari,
“dispersi” nei vasti territori lontani da tutto e da
tutti”.
Nato a Rogliano il 13 aprile 1888, Gaetano Mauro fu
ordinato sacerdote il 14 aprile del 1912. Dopo una breve
presenza a San Giovanni in Fiore, don Gaetano Mauro
arriva a Montalto Uffugo nel 1914 dove fu nominato
parroco della parrocchia di Santa Maria Assunta e decano
della Collegiata. In vero, il primo rapporto con la
cittadina, famosa per l’opera “Pagliacci” di
Ruggero Leoncavallo musicata da Pietro Mascagni, dove
rimase sino alla morte del 31 dicembre 1969, non fu
affatto facile. Ciò a causa della presenza alquanto
forte della massoneria, ma anche a causa di lunghe liti
nel clero cittadino che avevano sfiduciato i fedeli.
Dopo la parentesi della prima guerra mondiale che lo
vide prigioniero in Germania nel campo di sterminio di
Katzenau, don Mauro intensificò a Montalto
quell’apostolato in favore della gioventù che gli meritò
il titolo di “don Bosco della Calabria” e della
gente dei campi avvicinata, sostenuta e catechizzata nei
casolari.
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Montalto Uffugo (Cs) |
Descrivendo le motivazioni che lo avevano spinto a una
nuova Congregazione religiosa, mons. Mauro osservava
anche l’impossibilità per i sacerdoti del suo tempo di
ben operare in solitudine in favore del mondo rurale.
“Uno dei motivi che ispirò al principio la nostra
opera fu il pensiero di tanti cari confratelli nostri
che spesso isolati, incompresi, privi di mezzi in
paeselli di campagna, trovano gravissime difficoltà ad
esercitare con efficacia il proprio ministero e a
sopportare pene inevitabili di un apostolato complesso e
faticoso, sogniamo di poter venire incontro a tante
difficoltà”.
A questo scopo, fin dal 1926 il progetto di don Mauro
era stato quello di “riunire sacerdoti,
professionisti, operai e contadini che si consacrino
interamente ad una intensa azione apostolica morale e
religiosa ed organizzare un metodo pratico e costante di
insegnamento catechistico”. Era il 7 ottobre 1938
quando a Petilia Policastro, nel Marchesato crotonese,
veniva aperta la seconda casa dei Missionari Ardorini su
invito dell’allora arcivescovo Santa Severina mons.
Antonio Galati e grazie alle donazioni delle signorine
Ferrari su iniziativa dell’arciprete cittadino don
Salvatore Venneri. Iniziò così fra mons. Mauro e Petilia
Policastro un fervido rapporto di reciprocità. I
Missionari Ardorini furono da subito impegnati
nell’apostolato rurale e nell’educazione giovanile e
Petilia, nel corso degli anni, donò numerose vocazioni
religiose alla stessa Congregazione.
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D. Carlo De Cardona |
Di qualche anno più anziano di mons. Gaetano Mauro, un
altro sacerdote che impegnò la propria vita al fianco
delle classi più deboli della Calabria del primo
Novecento fu don Carlo De Cardona, nato a Morano Calabro
il 4 maggio 1871 che focalizzò la propria missione in
favore delle genti delle campagne cosentine con un
impegno religioso e politico nello stesso tempo. Si era
laureato in Filosofia e Teologia alla Pontificia
Università Gregoriana di Roma, dove era entrato in
contatto col movimento democratico cristiano di Romolo
Murri. Ordinato sacerdote il 7 luglio 1895, fu nominato
segretario particolare del vescovo cosentino mons.
Camillo Sorgente. Nel 1899 diventa direttore del
settimanale “La Voce Cattolica” che aveva fondato
nell’anno precedente e che ospitava una sua rubrica
“La Domenica del Popolo” in cui, sotto il pseudonimo
di Demofilo, affrontava i problemi del lavoro,
dei contadini, degli operai e degli emigrati. E’,
invece, del 1901 la fondazione della “Lega del
Lavoro” che, aderendo all’Opera dei
Congressi, voleva rappresentare la voce della Chiesa in
quel mondo del lavoro che già a quei tempi vedeva
sorgere in Calabria le prime leghe socialiste. Figlie
della “Lega del Lavoro” furono quelle “Casse
Rurali” che, partendo da Cosenza, rappresentarono
un’innovativa novità nella Calabria del tempo. Infatti,
spiega lo storico Luigi Interi, se al tempo dell’impegno
di don Carlo De Cardona in Calabria già vi lavoravano
alcune banche, come osserva lo stesso storico non erano
nello condizioni di offrire un reale sostegno agli
stessi contadini.
“Queste istituzioni erano in buona parte delle
operative; tuttavia esse erano in prevalenza espressioni
dei piccoli industriali e commercianti e quindi non
soddisfacevano le attese dei contadini, soprattutto non
li svincolavano dallo stato di sudditanza politica e
sociale, dipendente dalla sudditanza economica.
Rivolgendosi a questi istituti i contadini sfuggono
certamente dall’usura, ma continuavano a rimanere
dipendenti sul piano politico e sociale”. “Si poneva
pertanto – aggiunge Intrieri - l’esigenza di un
passo ulteriore delle istituzioni creditizie che li
trasformasse in protagonisti del loro riscatto e li
rendesse liberi economicamente e politicamente”.
A motivare il coraggioso intervento in questo senso di
don Carlo De Cardona, il profondo amore dello stesso
sacerdote per le classi subalterne ed emarginate del suo
tempo.
“ll fatto – osservava in un suo articolo – è
che noi perché amiamo fortemente il popolo in Gesù
Cristo non possiamo mirare con sguardo sofferente a
coloro, che oltre ad essere nostri fratelli, sono nella
chiesa la parte migliore e, nella società i fattori veri
e propri della ricchezza pubblica”.
Per quanto riguarda, invece, la “Lega del Lavoro”,
una descrizione della stessa ci arriva dalla storica
Emanuela Catalucci.
La stessa Lega, scrive, “era composta da gruppi
professionali e univa, in sezioni distinte, operai e
contadini, con l'esclusione di possidenti e borghesi:
era inoltre articolata in sezioni locali, dipendenti da
un consiglio centrale. La lega si proponeva l'istruzione
degli operai, il miglioramento delle condizioni morali,
economiche ed igieniche del lavoro, l'incentivazione
della cooperazione ed il collocamento dei disoccupati”.
Guardando agli stessi contadini e partendo dalle
idealità della “Rerum Novarum” di Leone XIII, don
Carlo De Cardona riuscì ad essere percussore del
Concilio Vaticano II; con degli scritti molto vicini
alle idealità della “Gaudium et Spes”, ma anche
al pensiero di Giovanni XXIII e Paolo VI.
“Il Cristianesimo – osserva, infatti, il
sacerdote cosentino - è stato fatto dal suo divino
Istitutore, per salvare l’uomo soprannaturalmente:
l’uomo intero con la sua intelligenza, col suo
sentimento, coi suoi bisogni, col suo provvidenziale
istinto alla socialità, al progresso. Di modo che è
semplicemente un assurdo oltre che un’eresia il
concepire un Cristianesimo non informatore di tutto
l’uomo e della sua civiltà, ma di una parte soltanto, di
quella che forse che desse meno fastidi”.
Furono questi i presupposti di un impegno sociale e
politico che, fra l’altro, vide lo stesso Sacerdote
consigliere comunale e provinciale nel Partito cattolico
ed assessore comunale alle finanze.
“Nell'azione sociale del De Cardona la “Rerum Novarum”
– continua la Catalucci - rappresentò il punto di
partenza per un radicale rinnovamento della Chiesa,
attraverso l'alleanza con le masse popolari. Per lui
democrazia cristiana non era solo un movimento di idee e
di fatti nel campo economico, ma un radicale
rinnovamento nelle coscienze, nella economia, nella
civiltà, secondo lo spirito cristiano. Nel 1906 promosse
il primo congresso provinciale operaio, che si tenne a
Cosenza nel marzo; il congresso si proponeva di dare
all'organizzazione una precisa base economica,
costituendo una Cooperativa in ogni Lega. Fu in questa
occasione ribadito il concetto fondamentale che tutte le
leghe dovessero essere composte di soli lavoratori,
principio che il De Cardona difendeva anche l'anno
seguente, al congresso dei giovani cattolici a
Benevento”.
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Papa Leone XIII |
Se con l’enciclica “Pieni L’animo” pubblicata nel
1906 da Pio X, la Lega democratica fu condannata ed il
Sacerdote cosentino dovette abbandonare l’insegnamento
di filosofia nel seminario, i problemi aumentarono con
la salita al potere del fascismo. Il nuovo Regime,
infatti, liquidò ben presto le Leghe del Lavoro,
il Partito Popolare e le Casse Rurali.
Capita così che il De Cordona, anche su invito
dell’arcivescovo consentino mons. Roberto Nogara,
abbandonò Cosenza; ritirandosi a Todi dove viveva
fratello Ulisse.
“Nei confronti della Cassa Rurale federativa di
Cosenza – osserva nel proprio citato saggio Luigi
Intrieri – l’intervento del fascismo fu pesante: la
banca d’Italia prima impedì la concessione di un
prestito della Banca dell’Agricoltura negandole
l’apertura di un’agenzia a Cosenza, infine infierì anche
nella liquidazione estromettendo il comitato nominato
regolarmente, dall’assemblea sociale”.
In un sol colpo, dunque, i contadini calabresi persero
non solo un loro paladino nel mondo politico del tempo,
ma anche quelle “Banche Rurali” e quella “Lega
del Lavoro” che essendo state pensate dal basso
avrebbero potuto rappresentare una positiva risposta ai
loro problemi.
Francesco Rizza
Pubblicato da Il Portale del Sud nel giugno 2012 |