Catanesi si
nasce, è un dato di fatto. Qualcuno sostiene che anche scrittori si nasce.
Ma una cosa è certa: scrittori catanesi si diventa. Non basta essere nati a
Catania e scriverne per afferrarne l'essenza. Catania è una città da sempre
sfuggente, ama nascondersi, mascherarsi. Per togliere i veli a questa città,
per scoprirne i meccanismi bisogna guardarla da lontano, starne a distanza
sia pure per un periodo soltanto. Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De
Roberto, Vitaliano Brancati, Ercole Patti - nomi che basterebbero a far la
gloria di una intera regione e non di una città soltanto - sono tutti
catanesi di nascita o d'adozione. Ma nessuno di essi è rimasto abbarbicato
alla "casa del nespolo", per usare un'espressione dei Malavoglia.
Sono andati tutti
via. Perché avevano voglia di altri frutti. Perché le "nespole" non
bastavano più o magari erano venute a noia. (Chissà come mai Verga ha scelto
un frutto che, per quanto frequente in Sicilia, non può certo definirsi un
simbolo di questa terra. Eppure aveva le arance a disposizione...). Ma poi
sono tornati, ed è stato un grande ritorno.
Tornando in città
- magari soltanto con il pensiero - si riprende ad apprezzare la casa del
nespolo che ci aveva affascinati da bambini, e soprattutto finalmente si
capisce attraverso quali meccanismi, contorti e sapienti, si siano formati
una mentalità e un atteggiamento che, rimanendo nel luogo natale, ci erano
sempre apparsi semplicissimi, naturali. È tornando a Catania con il
pensiero, mentre ne è fisicamente lontano, che Verga riscopre quel mare
amaro che "tutt'a un tratto si fa scuro che non ci si vede più neanche a
bestemmiare". È a Milano che Capuana concepisce la cieca ossessione del
Marchese di Roccaverdina. È ancora a Milano che De Roberto inventa la saga
dei Viceré, dove don Blasco si "sciala" al convento di San Nicola. Al
convento di San Nicola, diventato sede scolastica, chi scrive ha trascorso i
beati anni del tormentato liceo; e gli sembrava colpa sua se nella
descrizione di De Roberto non riusciva a trovare nulla che combaciasse con
il convento effettivo.
E che dire di
Ercole Patti che, lontano da Catania, viveva di cinema e si abbandonava al
ricordo di "un bellissimo novembre" nella città natale? Anche Vitaliano
Brancati inventava i personaggi catanesi del Don Giovanni in Sicilia, il
bell'Antonio, Paolo il caldo, mentre a Roma scriveva per Alberto Sordi, Totò
e Rossellini. La distanza, si dirà. Per creare occorre il distacco emotivo
dalla materia. Ma è anche vero che, finché ci si trova presi nel groviglio,
è impossibile dipanare il filo della matassa. Si rischia di prendere
cantonate, di scambiare - ad esempio - per indolenza vera e propria quella
che invece è soltanto la maschera di una operosità ingegnosa.
Il catanese
tipico sembra schiavo dell'ozio, indolente. Non è mai borioso né spaccone.
Finge di non ascoltare, di non capire. Finge anche di non dire. Finge per
una forma di understatement che è tutta catanese: è poco fine
mostrarsi troppo indaffarati, troppo zelanti, troppo preoccupati. Poco fine
e anche poco furbo. Perché se è vero che Palermo è una città nobiliare,
Catania è una città di commerci e un commerciante per concludere affari non
deve mai far capire quello che ha veramente in testa. Ma questo simulare
indolenza per dissimulare operosità è una cosa che si capisce a distanza,
non passeggiando alla villa Bellini.
E infatti Verga
la comprese appieno a Milano, quando al suo capolavoro diede come titolo I Malavoglia. Che altro non è se non un
calembour. I Toscano, la
famiglia protagonista del romanzo, sono "tutti buona e brava gente di mare",
animati di voglia di lavorare, e proprio per questo vengono chiamati, al
contrario, "malavoglia". Non è strano che proprio un milanese,
Luchino Visconti, abbia voluto ricreare nel film La terra trema il
romanzo di Verga, ma lo ha solennizzato trasformandolo in una bellissima
cerimonia sacrale.
Dalla letteratura
al cinema, dalla Catania scritta alla Catania vista, il passo è breve. La
terra trema però resta un caso isolato. Da quando gli italiani hanno
cominciato a leggere di meno e andare di più al cinema - dagli anni del boom
economico, all'incirca - raramente la città di Catania si è presentata sugli
schermi come paesaggio drammatico o addirittura tragico. Ha prevalso il
grottesco. Meglio ancora, il comico. E all'origine della figura del catanese,
finto indolente che pensa solo alle femmine e ci pensa con tormento, ci sono
loro: Ercole Patti e Vitaliano Brancati. Sono stati questi due scrittori
catanesi, con i loro libri e talvolta con le loro sceneggiature, a dar vita
a personaggi rimasti proverbiali.
Tanti gli attori
che sono diventati catanesi sugli schermi. Tra i più improbabili Christian
De Sica ai suoi esordi con Giovannino di Paolo Nuzzi, tratto da un romanzo
di iniziazione di Ercole Patti. Il più variopinto, certamente Giancarlo
Giannini in Mimì metallurgico di Lina Wertmuller: sembra ancora di
rivederlo mentre corteggia senza pietà la moglie del suo rivale tra i banchi
della pescheria. Marcello Mastroianni è stato il prototipo del catanese
emancipato e istruito, ma con il timore di non essere all'altezza delle
aspettative familiari e sociali: Il bell'Antonio di Mauro Bolognini,
ispirato da Brancati. Ma contemporaneamente Mastroianni, in Divorzio
all'italiana di Pietro Germi, dava vita a un catanese della provincia,
all'ingegnoso barone Fefè che si spostava nel capoluogo per corteggiare la
cugina adolescente e organizzare un sofisticatissimo e complicato
"divorzio". Mai si sarebbe comportato come lui il più sanguigno e diretto
Turi Ferro, catanese autentico. Il grande attore ha dato vita in film come
Un caso di coscienza, Virilità, La governante,
Malizia, Il lumacone - alcuni dei quali ispirati a scrittori
siciliani - alla maschera del catanese arruffone, in lite con i tempi
moderni, sempre più a disagio nel ruolo traballante di pater familias.
Lando Buzzanca ha rappresentato l'altra faccia del personaggio di Turi
Ferro: i tempi che avanzano, la spregiudicatezza, la nuova volgarità, il
senso degli affari. Ma anche il gallismo che è ossessione mentale e fuga da
ogni impegno. Un perfetto Don Giovanni in Sicilia tratto da Brancati.
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"Mimì metallurgico"
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Oggi il nuovo
catanese, cresciuto con le canzoni di Battiato, che non passa tutta l'estate
nei lidi della Plaja, che non fa più l'emigrante ma il turista, impegnato
produttivamente e socialmente, potrebbe avere soltanto una faccia: quella di
Luigi Lo Cascio.
E le donne?
Spiace dirlo, ma personaggi femminili catanesi in letteratura ce ne sono
pochi. Galantuomini siciliani come Brancati e Patti scrivevano di tormentose
ossessioni erotiche, ma di donne fantasticavano soltanto. Non le
conoscevano. La donna nei loro romanzi è uno sguardo dietro una persiana che
si chiude, un passo svelto sul marciapiede, una testa che si volta per
sbirciare furtiva. Il resto è immaginazione. Ma anche quando fossero stati
al corrente dei segreti femminili, Brancati e Patti si sarebbero ben
guardati dal metterli su carta, in piazza. E così, quando il cinema si è
impadronito delle pagine dei due scrittori, si è dovuto accontentare di
cuginette, studentesse straniere, cameriere. Sempre filtrate attraverso
un'ottica maschile. Eppure - potenza delle donne - pur partendo da una
situazione di svantaggio, spesso sono loro ad imporsi. Basta richiamare alla
mente la giovanissima Stefania Sandrelli di Divorzio all'italiana:
apparentemente preda rassegnata e indolente del desiderio maschile, in
realtà motore di tutto, e pronta a ben altre imprese. Ancora più determinata
la scaltra Laura Antonelli in Malizia di Salvatore Samperi: da
sprovveduta cameriera, vittima di pesanti attenzioni da parte di tutti i
maschi della famiglia, a padrona di casa e dei destini di tutti.
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Carmen Consoli |
Ma i tempi
cambiano, e oggi quando si pensa a un personaggio simbolo di Catania,
rivolto un pensiero deferente a Pippo Baudo e a Franco Battiato, la mente
corre proprio a una donna, minuta e decisa: Carmen Consoli.
Articolo tratto da Aldo Piro,
giornalista e autore televisivo, Ulisse la Rivista di bordo
dell'Alitalia
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