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S. Adriano

di Domenico Cassiano

Costantino Marco Editore - Collana NUOVA ARBERIA

Domenico Cassiano.

S. Adriano. Vol. I (955 - 1806): La Badia e il Collegio Italo-albanese (1997). 240 pp.

S. Adriano, Vol. 2 (1807-1923): Educazione e politica (1999). 260 pp.

Costantino Marco Editore, P.za Garibaldi 16, C.P. 27, 87010 Lungro (CS)

Collana NUOVA ARBERIA nn. 9 e 12

ISBN 88-85350-58-5 e 88-85350-65-8

Lit. 35.000 e lit. 38.000

Recensione di Carmine Colacino

La collana di testi e saggi Nuova Arberia pubblica lavori di interesse per la minoranza etnica, religiosa e linguistica arbëreshe (italo-albanese) dell’Italia meridionale, ma anche di più ampio respiro e interesse. Proprio in tale ottica si inquadra il lavoro, in due volumi, di Domenico Cassiano, insegnante di storia e filosofia al Liceo Classico, apprendiamo dalle note biografiche riportate nei risguardi, pubblicista, ricercatore, nonché dedito all’attività forense. Promotore dell’Istituto di Studi Albanesi di Lungro (Cosenza).

Il tentativo è quindi quello di inserire la storia e le vicende relative al Collegio di San Adriano nel più ampio ambito delle vicende storiche e civili del Mezzogiorno d’Italia.  Si deve dire che il tentativo è solo parzialmente riuscito però, interessantissimo è infatti il primo volume dove l’origine del collegio (fondato da San Nilo, quindi prima Cenobio Basiliano e poi, successivamente, Badia) viene inquadrata nella fervida attività religiosa che si svolgeva alla fine del primo millennio nell’area tra Calabria e Basilicata, quando la Calabria ancora dipendeva da Bisanzio. Viene tratteggiata la vita del Santo in relazione alle condizioni della Calabria dell’epoca ed agli eventi storici contemporanei, per poi evidenziare come con il venir meno del potere di Bisanzio, sostituito da quello Normanno, e poi da altri, le attività della Chiesa orientale vadano progressivamente diminuendo in quantità e soprattutto in qualità. La venuta degli albanesi che sfuggivano la conquista ottomana dei Balcani (XV secolo) però darà nuova linfa, e continuità, alla chiesa orientale in Calabria (e Basilicata) che sembrava altrimenti destinata ormai a scomparire.

Questa è forse la parte migliore del lavoro, le condizioni della Calabria del tempo vengono infatti descritte con precisione sulla base di riferimenti documentali e ci si può veramente rendere conto delle condizioni durissime di vita che albanesi, e popolazioni locali, si trovarono a sostenere. È una avvincente rappresentazione del periodo feudale cosí come si presentò nella Calabria settentrionale tra il XV ed il XVIII secolo. L’autore cerca quindi di convincere il lettore delle ragione per le quali in tale periodo  si originasse, per cosí dire, la tendenza delle popolazioni italo-albanesi a essere dei combattenti per la libertà, a non tollerare il dispotismo. Da qui, ultima parte del primo volume e secondo volume, comincia purtroppo la parte più carente dell’opera. Si presentano infatti le comunità arbëreshe, e in particolare il Collegio di San Adriano, come fortemente antiborboniche anche se non si riesce a capire il perché di tale avversione, tenuto conto che mai più il collegio godrà della stessa libertà, autonomia, e prestigio (come si evince proprio dalla lettura di questo lavoro). In realtà l’autore anche se vorrebbe presentare una sorta di unanimità arbëresh giacobina e pro-risorgimentale, non può fare a meno di citare fatti e documenti che, apparentemente, dimostrano che le comunità arbëreshe, sia nel 1799 che nel periodo risorgimentale, nella realtà furono divise così come lo era il resto della società meridionale del tempo. Apprendiamo per esempio di ufficiali borbonici arbëreshë che non esitarono a darsi  alla macchia e poi a combattere in favore del Re legittimo e contro le truppe di occupazione francesi ed i loro sostenitori locali nel 1799, così come di figure di intellettuali, e non, che non videro di buon occhio la conquista delle Due Sicilie da parte dell’esercito piemontese (notevole per diversi aspetti la figura di De Rada, sicuramente meno conformista dei suoi contemporanei, anche se ovviamente non è presentato così nell’opera). Si apprende anche che, nonostante le famose leggi di eversione della feudalità del periodo murattiano la situazione, almeno in Calabria settentrionale, non cambiò sostanzialmente per la povera gente.

Comunque sicuramente ci furono figure importanti uscite dal Collegio di San Adriano, anche se relativamente secondarie considerate in un contesto meridionale più ampio, come per esempio Baffi (o Baffa, “Martire” del 1799) e altri, anche se però non si capisce bene (almeno da questa opera) cosa questi fecero nei sei mesi di esistenza della Repubblica Napoletana. Altro aspetto è quello anticlericale (verso il clero latino, cioè), comunque moderato, più comprensibile a causa dei vari tentativi dei vescovi latini di obbligare le comunità albanesi a rinunciare al loro rito greco, nonostante queste fossero già comunque dipendenti da Roma e dal Papa che ne garantiva la (relativa) autonomia. Rito tutt’ora presente nella maggior parte di quelle comunità.

L’attività più benemerita, secondo l’autore, è quella relativa al periodo risorgimentale, qui però la presentazione è piuttosto apologetica, acritica, di parte, vengono comunque presentate diverse figure interessanti (tra tutte quella, per esempio, di Domenico Mauro, quasi comunista ante litteram, e forse l’unico ad avere a cuore le sorti della povera gente, o magari solo a rendersi conto della necessità di coinvolgerla nelle lotte, piuttosto che quella dei ceti medi e della borghesia dai quali provenivano gli studenti del Collegio). La sensazione (che si ricava dal libro) però è che la maggior parte di questi personaggi, comunque funzionali agli interessi della borghesia, non si rendesse ben conto di quello che effettivamente succedeva intorno a loro, si tratta quindi in parte di idealisti, senz’altro rispettabilissimi in quanto tali, ma che evidentemente non si rendevano conto di far parte integrante di un Paese indipendente che contribuirono a far scomparire, con tutti i problemi che ciò comportò, e comporta, e che furono per la maggior parte comunque fuori gioco una volta che l’Unità fu un fatto compiuto, una volta, cioè, che la loro utilità, per così dire, di “quinte colonne” non risultò più necessaria, quasi redivivi Balabani (traditore albanese) che provocarono di fatto, anche se indirettamente,  un ulteriore esodo delle comunità albanesi (dopo, cioè, quello dai Balcani), questa volta nell’ambito dell’esodo – emigrazione -  meridionale conseguenza della cosiddetta “unità” e delle esplicite politiche dello Stato unitario. E difatti questi intellettuali restarono delusi dalla maniera nella quale si compì l’Unità, si dice nel libro (anche se ciò non impedisce che i paesi arbëreshe della Calabria siano tutti, oggigiorno, pieni di vie e viuzze dedicate ai vari Garibaldi, Cavour, Umberto e vittorioni varî.) Con l’Unità il Collegio perde di mordente, viene burocratizzato (cosa che non avvenne nel periodo borbonico – nonostante i luoghi comuni che tutti conosciamo), e gli intellettuali che prepara, una volta così ferventi campioni di libertà e antiborbonici, apparentemente non sono più in grado di lottare contro il dispotismo. Il Governo addirittura ha piani per utilizzare il Collegio per fini coloniali, anche se non se ne farà niente (il progetto verrà poi portato a compimento nel periodo fascista, ma questo è oltre i limiti temporali dell’opera). Gli intellettuali arbëreshe, almeno quelli che studiano al Collegio, apparentemente, non hanno niente da dire sul periodo del cosiddetto brigantaggio (1860-70), né sull’emigrazione che spopolerà i loro paesi così come gli altri paesi della Calabria e del Mezzogiorno d’Italia, né sulle guerre coloniali nelle quali i governi nazionali trascineranno l’Italia, né tanto meno sulla prima guerra mondiale che tanti lutti (e nient’altro) causerà al Sud Italia, etc. Né niente in proposito si dice nell’opera, che praticamente passa sotto silenzio tutti questi eventi. Tutto questo, ovviamente, rende la tesi sostenuta nella seconda parte del libro poco credibile.

Un lavoro, nonostante i molti e non lievi limiti, comunque interessante e ben scritto – lo si legge tutto di un fiato – che è senz’altro consigliabile per i varî aspetti positivi tratteggiati più sopra, e per l’insieme dei documenti citati. Per i periodi più recenti (cioè più o meno dal XIX secolo in poi) si dovrà aspettare un’analisi meno legata alle varie mitologie risorgimentali, che però in ambito arbëresh sembra sia ancora di là dal venire.

Un’ultima nota sulla rilegatura dei due volumi (entrambi paperback) che sicuramente deve essere migliorata considerandone anche il prezzo relativamente elevato.

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