Prima guerra mondiale. Brigata "Catanzaro". Ritirata dal fronte dopo le gravi perdite subite il 23 e il 24 maggio del 1917 (che si aggiungevano alle molte migliaia accumulate negli anni precedenti) era stata ricondotta di fronte all’Hermada (oggi monte Querceto, a est di Monfalcone) il 4 giugno. Ritirata nuovamente il 24 giugno, venne accantonata a Santa Maria La Longa, paesino della bassa friulana. Insofferenza e indisciplina cominciavano da tempo a serpeggiare nelle retrovie costipate da migliaia di militari destinati a rimpiazzare i tanti caduti dei reparti più dissanguati. Costoro sapevano che sul Carso - e nella Brigata Catanzaro soprattutto - fatalmente si muore. Speranza non c’è. Il parroco del paese aveva avuto sentore che qualcosa si andava tramando, dai discorsi fatti nelle osterie ed a lui riferiti. Credette
fosse suo dovere mettere sull’avviso il comandante della Brigata. Fu tranquillizzato a sufficienza: era logico e naturale che i soldati si lamentassero, era sempre accaduto così: ma da ciò all’ammutinamento c’era bel correre! Quando la Brigata ricevette l’ordine di tornare al fronte, la sommossa divampò. Alle 22.30 del 15 luglio, con un violento fuoco di fucileria. Razzi multicolori ascesero il cielo per dare il segnale della rivolta ad altre Brigate che mordevano il freno. Furono uccisi un capitano e un tenente addetti al Comando e la truppa in rivolta si apprestò ad assalire la residenza di Gabriele D’Annunzio, il cui campo d’aviazione era nei pressi. Gli ufficiali si rintanano dove possono, si schierano i carabinieri disponibili e viene dato l’allarme al Comando Supremo a Udine. Nel cuore della notte gruppi di artiglieria e squadroni di cavalleria circondano la Brigata Catanzaro. Squadriglie di aerei da caccia sorvolano nel frattempo il cielo. Verso le 3 del mattino la rivolta si spense. Tre ufficiai e quattro carabinieri erano rimasti uccisi. Si istruì il processo per direttissima a seguito del quale 28 militari furono condannati a morte, passati per le armi e gettati in una fossa comune. Qualche ora dopo, sotto buona scorta di cavalleggeri e di artiglieri la Catanzaro fu rispedita nella bolgia carsica. Ma gli animi erano tuttora sconvolti, perché lungo la strada molti soldati in segno di ribellione si liberarono dei caricatori. Imposto nuovamente l’alt, altri dieci infelici dopo giudizio sommario vennero condannati e fucilati.
Gabriele D’Annunzio scrisse in
proposito:
Dissanguata da troppi combattimenti, consunta in troppe trincee, stremata di forze, non restaurata dal troppo breve riposo, costretta a ritornare nella linea del fuoco, già sovversa dai sobillatori come quel battaglione della Quota 28 che aveva gridato di non voler più essere spinto al macello, l’eroica Brigata "Catanzaro" una notte, a Santa Maria la Longa, presso il mio campo d’aviazione si ammutinò. (…) La sedizione fu doma con le bocche delle armi corazzate. Il fragore sinistro dei carri d’acciaio nella notte e nel mattino lacerava il cuore del Friuli carico di presagi. Una parola spaventevole correva coi mulinelli di polvere, arrossava la carrareccia, per la via battuta: "La decimazione! La decimazione!". L’imminenza del castigo incrudeliva l’arsura (…) Di schiena al muro grigio furono messi i fanti condannati alla fucilazione, tratti a sorte nel mucchio dei sediziosi. Ce n’erano della Campania e della Puglia, di Calabria e di Sicilia: quasi tutti di bassa statura, scarni, bruni, adusti come i mietitori delle belle messi ov’erano nati. Il resto dei corpi nei poveri panni grigi pareva confondersi con la calcina, quasi intridersi con la calcina come i ciottoli. E da quello scoloramento e agguagliamento dei corpi mi pareva l’umanità dei volti farsi più espressiva, quasi più avvicinarmisi, per non so qual rilievo terribile che quasi mi ferisse con gli spigoli dell’osso. I fucilieri del drappello allineati attendevano il comando, tenendo gli occhi bassi, fissando i piedi degli infelici, fissando le grosse scarpe deformi che s’appigliavano al terreno come radici maestre. Io traversavo il muro col mio penoso occhio di linee; e scoprivo i seppellitori anch’essi allineati dall’altra parte con le vanghe e con le zappe pronti a scavare la fossa vasta e profonda. Non mi facevano male come gli sguardi dei condannati alla fossa. I morituri mi guardavano. I loro sguardi smarriti non più erravano ma si fermavano su me che dovevo essere pallido come se la vita mi avesse abbandonato prima di abbandonarli. Gli orecchi mi sibilavano come nell’inizio della vertigine, ma era il ronzio delle mosche immonde.
Siete innocenti?
Forse trasognavo. Forse la voce non passò la chiostra de’ miei denti. Ma perché allora il silenzio divenne più spaventoso, e tutte le facce umane apparvero più esangui? E perché l’afa del mattino d’estate s’approssimò e s’appesantì come se il cielo della Campania e il cielo della Puglia e il cielo della Calabria e il cielo di Sicilia precipitassero in quell’ardore fermo e bianco?
Siete innocenti? Siete traditi dalla sorte della decimazione? Si, vedo. La figura eroica del vostro reggimento è riscolpita nella vostra angoscia muta, nell‘osso delle vostre facce che hanno il colore del vostro grano, di quel grano grosso che si chiama grano del miracolo, o contadini. Siete contadini. Vi conosco alle mani. Vi conosco al modo di tenere i piedi in terra. Non voglio sapere se siete innocenti, se siete colpevoli. So che foste prodi, che foste costanti. La legione tebana, la sacra legione tebana, fu decimata due volte. Espiate voi la colpa? O espiate la Patria contaminata, la stessa vostra gloria contaminata? Ci fu una volta un re che non decimava i suoi secondo il costume romano ma faceva uccidere tutti quelli che nella statura non arrivassero all’elsa della sua grande spada. Di mezza statura voi siete, uomini di aratro, uomini di falce. Ma che importa? Tutti non dobbiamo oggi arrivare con l’animo all’elsa della spada d’Italia? Il Dio d’Italia vi riarma, e vi guarda. I fanti avevano discostato dal muro le schiene. Tenevano tuttora i piedi piantati nella zolla ma le ginocchia flesse come sul punto di entrare nelle impronte delle calcagna. E, con una passione che curvava anche me verso terra, vidi le loro labbra muoversi, vidi nelle loro labbra smorte formarsi la preghiera: la preghiera del tugurio lontano, la preghiera dell’oratorio lontano, del santuario lontano, della lontana madre, dei lontani vecchi. (…) Le armi brillarono. (…) M’appressai. Attonito riconobbi le foglie dell’acanto (…). Recisi i gambi col mio pugnale. Raccolsi il fascio. Tornai verso gli uomini morti che con le bocche prone affidavano al cuor della terra il sospiro interrotto dagli uomini vivi. E tolsi le frasche ignobili di sul frantume sanguinoso. Chino, lo ricopersi con l’acanto.
Gabriele D’Annunzio
Il 16 luglio 2007, ad Udine, nel
Tempio Ossario, è stato celebrato il 90° anniversario della decimazione
della Brigata Catanzaro. In tale circostanza, il dr. Mario Saccà di
Catanzaro ha reso noti i nomi di alcune vittime della ribellione, frutto
di una ricerca durata tre anni e non ancora conclusa. La notizia, con i
nomi fin qui noti è stata pubblicata sul sito
di
Canicattì, in
cui sono riprodotte le fotografie dell'evento. Come si può constatare
dalla documentazione raccolta dal Saccà, i caduti nella ribellione di
Santa Maria La Longa erano in gran parte pugliesi e siciliani, alcuni
calabresi e di altre regioni. Chi volesse contribuire alla ricerca del
dr. Saccà con ulteriori notizie, lo può contattare all'indirizzo
catacium-@tin.it. L'immagine è tratta da
Calabria Ora,
che ha pubblicato la notizia dell'evento di Udine.
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