L’interrogativo nasce dalle lettere del duca garibaldino
Si scoprono nuove testimonianze sul Risorgimento
siciliano nelle tre lettere inedite, conservate
nell’Archivio di Stato di Palermo, scritte da un
siciliano, nobile e garibaldino, fra il 1° e il
17 ottobre 1862
dal carcere di San Benigno (Genova) dov’era stato
ristretto, con altri volontari, dopo la resa
d’Aspromonte.
L’autore è Calogero Gabriele Colonna, duca di Cesarò e
barone di Joppolo Giancaxio, il quale racconta all’amico
Luigi De Brun, redattore del periodico palermitano “La
favilla”, come andarono esattamente le cose in
Aspromonte e un po’ accenna al clima politico e morale
dei primissimi anni del travagliato percorso unitario.
Insomma, uno che non parla per sentito dire, ma per
essersi trovato nel mezzo della tragica sparatoria
dell’agosto 1862.
Com’era stato, a soli 19 anni, nell’aprile del 1860,
fra i coraggiosi che, a Palermo, diedero vita alla
sfortunata rivolta della Gangia e per questo condannato
a morte, insieme al padre, da quel Borbone che oggi
qualcuno rimpiange.
Tre lettere importanti che, come si evince dai brani
seguenti, illuminano di una luce nuova i fatti
d’Aspromonte e, al contempo, ci rendono la cronaca
ragionata, palpitante del dramma consumatosi fra camice
rosse e soldati regi, fra italiani combattenti per la
stessa causa: l’Unità d’Italia.
“I bersaglieri di Pallavicino avanzavano sempre; Menotti
ordinò di correre loro incontro. Obbedimmo. Con le mani
alzate in aria ci avvicinammo alle grida di “Viva
l’Italia”, “Viva Vittorio Emanuele”, “Viva Garibaldi”,
“Viva i fratelli Italiani”. I regi risposero col grido
unanime di “Viva Garibaldi” e contemporaneamente ci
circondarono, disarmarono alcuni, e ci dichiarano
prigionieri…”.
Aspromonte: cronaca di un assurdo scontro fratricida
Gridavano gli stessi slogan, suonavano gli stessi
“tocchi”, parlavano il medesimo linguaggio della libertà
eppure hanno dovuto affrontarsi, e morire, in uno
scontro fratricida (“aggressione fraterna” lui la
chiama) che solo l’alto senso di responsabilità
nazionale di Giuseppe Garibaldi evitò di trasformare in
una carneficina.
“Si disse essere stati i garibaldini i provocatori: ti
posso assicurare sull’onor mio del contrario.”
L’ordine del Generale era di non rispondere al fuoco.
“Solo le guerriglie di Corrao non ressero allo
spettacolo per paura o per impeto…e risposero al fuoco
col fuoco.”
Fino a quando: “Il Generale, ch’era a piedi allato
ad una bandiera con lo scudo dei Savoia, cadde tra le
braccia di Turillo Malato che si distinse per coraggio e
sangue freddo. Anche Maurigi restò al suo posto. Rocco
Gramitto (zio di Luigi Pirandello ndr) era al mio
lato. Corrado Niscemi restò sempre in piedi e faceva il
diavolo a quattro per far cessare il fuoco…”
Da notare che il duca, pur avendo il grado di
sottotenente della guardia dittatoriale, partecipò alla
spedizione come soldato combattente “rifiutai di
entrare nello Stato Maggiore… vi andai pour payer
de ma personne in una quistione vitale per l’Italia… la
mia camicia rossa significava Roma solamente e non
fremiti rossi né altro.” (dalla lettera del 17
ottobre)
Non tutti i nobili siciliani
furono “gattopardi”
Una notazione opportuna che ci dice che non tutti i
rampolli della nobiltà siciliana sostenitori
dell’impresa garibaldina, per quanto moderati, furono
necessariamente “gattopardi”.
Almeno nel caso di questa famiglia, l’impeto unitario
e il desiderio di cambiamento proseguirono oltre
l’annessione della Sicilia al regno sabaudo.
Come detto, anche il padre di Gabriele, Giovanni
Colonna Filangeri fu fervente patriota e pagò di persona
la sua devozione alla causa: condannato a morte per la
rivolta della Gancia fu liberato da Garibaldi che lo
nominò primo governatore di Palermo. Successivamente,
Vittorio Emanuele lo nominò senatore del regno e
prefetto di Bergamo.
Da quest’ultimo incarico si dimetterà non per colpa,
ma per dignità, per non fare da capro espiatorio nella
clamorosa polemica seguita all’affaire di Sarnico
(maggio 1862) nella quale, da prefetto, dovette bloccare
d’imperio il suo amico e salvatore Garibaldi a capo di
una spedizione diretta in Trentino.
E se ne tornò, confessa in un’altra lettera, a
Palermo, alle sue trascurate terre di Joppolo (i cui
grani sostentarono, per quasi tre secoli, l’illustre
famiglia) che è anche il mio paese, dove i duchi vollero
essere sepolti, alcuni addirittura trasferiti dal
cimitero palermitano dei Rotoli.
Perciò, li considero un po’ compaesani. Ferme
restando, naturalmente, le distanze politiche e sociali,
alle quali tengo, giacché loro erano i feudatari (non
fra i più rapaci) e i miei bisnonni i loro coloni.
Una folgorante carriera
politica
Insomma, gente tosta, motivata questi Colonna, quasi
sempre al centro degli avvenimenti, come si evince anche
dalla breve e brillante carriera dell’illustre autore di
queste missive, nato, nel
1841, a Messina. Dopo la Gangia, prese parte alla
campagna garibaldina fino al referendum di annessione; a
21 anni lo troviamo in Aspromonte; negli anni successivi
è deputato provinciale di Palermo e presidente del
consiglio provinciale di Messina; nel 1969 fonda il
giornale “La Gazzetta di Palermo”, nel 1870 (a soli 29 anni) è eletto
deputato alla Camera, per
la Sinistra riformista di Crispi, nei collegi di Aragona
e di Ragusa.
Antimafioso quando nessuno ammetteva l’esistenza della
mafia: memorabile è rimasta una sua dichiarazione
annessa agli atti di un’inchiesta parlamentare del 1875.
La morte lo colse nel fiore della vita: nel
1878, a 37 anni. Appena in tempo per sposare Emmelina
Sonnino, sorella di Sidney, da cui nascerà Giovanni
Antonio, altra personalità di rilievo della politica
siciliana e italiana del primo trentennio del ‘900.
Non saremmo iti a Roma perché Garibaldi contava di
passare in Oriente…
Il cuore delle lettere è “la questione romana”.
Perciò, il duca si diffonde in giudizi anche aspri sui
protagonisti di quei primi anni di vita unitaria.
In quella del 10 ottobre, spiega a De Brun le
ambiguità del gabinetto Rattazzi.
“Se
la Francia non ci da ora Roma con le buone, ce la darà appresso
per forza… Dico la verità, Luigi mio, con Rattazzi le
cose non possono stare in gamba, ammenoché domani ci
conduca difilato alla nostra capitale… Intanto
all’interno si sta malissimo: a Palermo riesce possibile
organare una setta di accoltellatori, nel Napoletano
primeggiano i briganti, lo stato d’assedio all’ordine
del giorno… Si è ritornato molto e ben molto indietro…”.
Infine, nella lettera del 17 ottobre, confida al suo
corrispondente una verità raramente considerata dagli
storici. A suo dire, il vero obiettivo della spedizione
non era Roma, ma l’Oriente ossia alcuni paesi balcanici
(Serbia, Montenegro) dove, si riteneva, esistesse una
condizione pre- insurrezionale contro l’Austria.
“Ti dissi già che Garibaldi fosse quasi sicuro che
noi non saremmo iti a Roma… perché contava di
passare in Oriente; ne son prova il tempo immenso
perduto in Sicilia e i mille uomini stranamente
abbandonati a Catania. Il suo progetto era quello di
obbligare il governo a dichiararsi apertamente nel fatto
di Roma e a mettere le carte in tavola”.
Ferme restando le eventuali verifiche in sede storica,
la notizia mi sembra, comunque, degna di nota.
Articolo
pubblicato,
con altro titolo, in “La Repubblica”
del 26 agosto 2010 |