Il sommergibile
Ascianghi il 17 luglio del 1943 imbocca il mare della
tragedia dal porto di Pozzuoli. L’Italia è sicura di essere
perdente, lo sono anche i marinai di un mezzo destinato in tutti
casi a seminare morte. Passano cinque giorni, solo qualche centinaia
di ore per non esserlo più. Per diventare eroi, soprattutto
cadaveri. Il 23 luglio, ricorda qualche burocratico dossier e
l’emozione di quattro marinai, una nave inglese è sulla sua rotta.
Morte tua, vita mia, tra le coordinate del dramma. Voci metalliche,
misurazioni senza computer e dal comandante Mario Fiorini l’ordine:
fuori! Due siluri partono dall’Ascianghi. Pochi secondi di tensione,
la delusione di non aver fatto centro, la voglia e la forza di
esorcizzare l’inevitabile risposta di morte e violenza. È la guerra.
Già, è guerra anche gettare bombe di profondità. Due ne arrivano
dall’alto, dall’aria, dal cielo, dal mare buono, quello su cui stare
sopra, da cui ci si può salvare. Nella roulette russa per mare rosso
sangue vincono gli inglesi: l’esplosione: e quei pezzi di ferro
sott’acqua si aprano: l’acqua entra, la vita esce. Muoiono in 45, si
salvano in 21. Qualche giorno dopo la statistica del comando ne
prenderà nota. Quegli assassini di sopra li raccattano come relitti,
pezzi di carne tra pezzi d’acciaio. Assassini-salvatori: bel teatro
è la guerra. Così è se ti salvi. Prigionieri? E che importa. E la
tomba marina di qualche minuto prima? C’è chi la ricorda, chi la
rimuove: potenza di una mente non addestrata soltanto ad uccidere o
difendere. Già, come uccidere il ricordo. Salvi, sulla nave inglese.
Erano 21; giovani, forti e sono dinanzi all’ignoto. Il rito è il
solito: tutti a bordo.
Sulla nave,
guardati a vista, derisi, e rotta destinazione Malta. Non è lontana,
è anche lei nemica-amica. Si sbarca, i feriti più gravi finiscono in
ospedale: lo garantisce la convenzione. Gli altri? Stanno bene:
allora destinazione Algeri, lì ci sono i campi di prigionia degli
alleati, sì alla stessa guerra. Si riparte, senza più orgoglio,
onnipotenza. Il dovere è compiuto, se tutto andrà bene sarà un
profondo ricordo. Si va verso il Nordafrica. Poi, all’improvviso...
Dio, tutto dejà vu. Ma stavolta la scenografia è diversa. Il nemico
è visibile, arriva da ancora più in alto. Il nemico? Ma se sono gli
alleati da qualche anno: sono i tedeschi. E loro su una barca nemica
... Almeno respirano, gridano, qualche giorno prima non l’hanno
potuto fare: i sonar se ne sarebbero accorti subito. Tutto inutile.
Si rinnova la paura, quella di un soldato, anzi di un marinaio del
sottomare. È diversa? Quella di Giorgio Bergoni sì. Al diavolo la
retorica: «a casa non si torna più. Ragazzi, moriremo tutti». Chi si
ricorderà di noi? Qualcuno. Nel villaggio reale globale, di quello
del tempo vero, può bastare allora una bottiglia.
Ma a galleggiare
sarà ancora anche quella nave inglese che arriva ad Algeri. Il
ricordo? Può ora disperdersi, come quegli amici ancora vivi. Campi
diversi, destini forse mai più da congiungere. Salvatore Grande
(di Potenza) ha 17 anni, forse l’incoscienza del superuomo che ha
superato due tragedie. Scappa, addio Algeri, addio prigionia. Per
lui comincia un’altra storia. Già, un’altra. Come quella parallela
di una bottiglia che naviga per conto suo nel Mediterraneo. Il
ricordo? E vuoi ancora pensarci quando torni in patria e magari
nella Ricostruzione nessuno vuoi più sentire di quelle cose brutte.
Ricordi? Quando devi pensare alla famiglia che si crea, al lavoro,
al futuro dei tuoi. E il tuo passato? È nell’archivio dell’anima,
grazie a quella password che non si cede a nessuno.
Per Carmela,
l'ecologista che passeggia nelle spiagge nei dintorni di Catania è
quasi una norma trovare bottiglie. Eppure in quella bottiglia c’è
uno strano biglietto: 21 nomi di uomini senza ricordo. Accade lo
scorso anno, quando le comunicazioni sono più immediate: rapida
indagine e telefono in azione. Dall’altro capo c’è Salvatore:
ricorda?
tratto da un articolo di Bruno Abbisogno (Il
Mattino, 24/07/2000)
Io, alla ricerca dei
miei amici
SALVATORE GRANDE
oggi è un tranquillo pensionato di 75 anni (li compirà tra qualche
giorno) che abita a Napoli in via Giacinto Gigante. Ha due figli
(una sposata e l’altro, sociologo, in cerca di lavoro La sua storia
è cominciata quando aveva quindici anni e decise di entrare
volontario in marina. La sua lunga militanza in mare gli ha fatto
guadagnare il distintivo di lunga navigazione a bordo dei
sommergibili, una croce di guerra al valor militare e due croci di
guerra al merito.
Ci descriva le fasi dell’affondamento dell’Ascianghi.
«Furono momenti
terribili. Una esperienza che non si può dimenticare. Ero il
timoniere «verticale» e ricordo ancora il rumore delle esplosioni
che facevano tremare lo scafo. Molti film sono stati girati per
testimoniare quei giorni tragici della Seconda guerra mondiale o di
altre guerra sotto i mari. Ma non si possono riportare sullo schermo
le sensazioni di paura e di terrore disegnate sui volti dei
sommergibilisti. La nostra meta era la Sicilia. Nel tratto Siracusa
- Catania avvistammo una flotta inglese, il comandante Mario Fiorini
decise di lanciare due siluri, ma il contrattacco non si fece
attendere. Fu scagliata, subito, contro di noi l’unità
antisommergibile. L’Ascianghi fu colpito a poppa, lesioni gravi
furono riportate anche a prua. Eravamo spacciati».
A quel punto bisognava solo uscire dal
sommergibile..
«Certo, ma ci
volle un tempo incredibile per aprire il portello, pochi minuti
lunghissimi, in cui si sentivano i boati di morte. Il bombardamento
continuava e noi eravamo lì, facile bersaglio».
Dopo l’affondamento dell’Ascianghi, cosa
accadde?
«Venni fatto
prigioniero dagli inglesi durante le operazioni successive allo
sbarco in Sicilia. Venni condotto ad Algeri, nel campo 211».
Che accadde durante la sua prigionia?
«Una vita
d’inferno. Nessuno di noi riusciva a resistere, tanto è vero che
studiammo una evasione. Ce la facemmo soltanto al secondo tentativo.
La prima volta mi presero e fui rinchiuso per diciotto giorni in una
tenda piccolissima. Ma la seconda volta riuscimmo a scappare».
Quale fu il piano di fuga?
«Facemmo un buco
nel pavimento dei bagni e scavammo un tunnel attraverso il quale
riuscimmo a guadagnare la libertà».
Poi cosa accadde?
«Non posso
raccontare come ma arrivammo in Italia. Era passato quasi un anno
dalle peripezie a bordo dell’Ascianghi. Fui reintegrato nei ranghi
della marina e nel ‘45 nuovamente imbarcato su un sommergibile. Dopo
quattro anni lasciai la Marina».
Ha mai cercato di sapere che fine avevano
fatto tutti i suoi compagni di sventura?
Non ho mai smesso
di sperare di rincontrare i miei compagni superstiti. Ne ho
ritrovati tre, Vardo Santini, di Genova, Antonio D’Alessandro, di
Roma, Giuseppe Compagnoni di Lezise (lago di Garda)»
Ritorniamo all’affondamento. Voi, superstiti
riusciste a rimanere uniti?
«Sì, anche se era
difficile. Furono giorni terribili, di terrore, di morte improvvisa,
di violenza. Il sergente Giovanni Nozze, ferito gravemente morì
sulla nave inglese. Il suo corpo, avvolto in un lenzuolo, fu buttato
in mare. Eravamo disperati, sicuri di andare incontro alla morte. A
Malta i feriti furono curati, ma ci aspettavano giorni duri di
prigionia».
Quale l’immagine di quei giorni che le torna
ancora in mente?
«Quando uscimmo
dal sommergibile e le bombe continuavano ad esplodere, l’acqua si
tingeva di rosso, dovunque era morte. Fu allora che vidi l’aspirante
Guardiamarina, Mario Marinelli, 20 anni, urlava dal dolore, chiedeva
aiuto, era ferito, io e Giorgio Bergani tentammo di farlo salire su
ciò che rimaneva del sommergibile. Lo prendemmo tra le braccia,
eravamo pronti a issarlo, ma una bomba lo raggiunse prima, il suo
corpo scivolò, squarciato, in acqua. Era morto tra le mie braccia».
Testo tratto da un articolo di Andreana Illiano (Il Mattino
24/07/2000)
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