Le Pagine di Storia

Andrea Carusso vittima del Tribunale dell’Inquisizione

A cura di Rosa Casano Del Puglia

Il primo processo 1624-1634

Che il Tribunale dell’Inquisizione non abbia mai condannato al rogo guaritori e stregoni è risaputo, poco si sa invece, come emerge dalle “Relaciones de causas” [1] conservate a Madrid, che spesso gli inquisitori siciliani forzavano a tal punto le cose da trasformare un capo di imputazione per stregoneria in accusa di eresia con conseguente condanna al rogo. È questo quel che successe ad Andrea Carusso, un calzettaio di origine messinese, che viveva a Palermo nel vivace quartiere del Papireto.

Andrea subì tre processi; nel primo (1626-1634) venne condannato come guaritore superstizioso e venne bandito dal regno di Sicilia. Nel secondo, 1648-1651, venne catturato come superstizioso e fattucchiere, ma condannato come blasfemo al carcere perpetuo. Nel terzo (1651-1652) venne processato prima come eretico e poi come fattucchiere e rilasciato al braccio secolare (alla giustizia civile) per essere bruciato.

Prima di addentrarci nella tragica storia di Andrea Carusso, è opportuno sottolineare che gli inquisitori siciliani, come guida per gli interrogatori facevano riferimento al “Malleus malefica rum” di Sprenger, secondo cui la magia equivaleva alla stregoneria e questa all’eresia. Su questa questione il pontefice e alcuni inquisitori spagnoli come Frias e B. Rojas la pensavano diversamente sostenendo che i voli di streghe o visioni del diavolo non erano “sperimentabili” e che le prove di eresia dovevano essere cogenti.

Ancora si fa presente che l’arte della magia dava una posizione di rilievo a chi la esercitava e ad esercitarla erano soprattutto medici, sacerdoti, maestri di grammatica, dottori in legge etc. Inoltre le guarigioni ottenute dai medici non avevano la stessa cassa di risonanza di quelle ottenute dai guaritori, che venivano vissute come qualcosa di miracoloso.

Andrea Carusso vive a Palermo nel quartiere del Papireto, è un artigiano che produce calze di seta, come secondo mestiere fa il guaritore e per questa ragione ha una posizione di rilievo nell’ambito del vicinato. Il quartiere in cui abita è nuovo e nella corsa a chi controllerà il Papireto arriva prima l’Inquisizione, che si assicura un numero notevole di “familiari” fra i membri delle corporazioni, i professionisti, e gli operai ivi residenti. Andrea non si cura di entrare a far parte dei “familiari”: ha una sua attività, non ha problemi.

La gente del quartiere spesso si rivolge a lui per guarire qualche malanno e altrettanto spesso Andrea, come erano soliti fare tutti i guaritori, si presenta, anche non chiamato, presso qualche famiglia, quando sa che c’è un problema da risolvere. Di tanto in tanto si allontana dal Papireto, quartiere che tacitamente si era spartito con gli altri colleghi che esercitavano in città, per affari che riguardano o l’acquisto della seta o in cerca di lavoro, così gli capita di esercitare l’arte magica al di fuori della sua zona.

La posizione privilegiata, di Carusso, un po’ al di sopra dei suoi vicini, lo rende spesso oggetto di invidia e di ostilità. Ma tutto scorre tranquillamente fino a quando Andrea non sarà vissuto dal vicinato come un uomo che pretende di ergersi a giudice del comportamento morale altrui.

Era successo questo: una vedova, vicina di casa, l’aveva chiamato per chiedergli cosa pensasse di un giovane del quartiere, che frequentava la propria figlia. Andrea aveva sconsigliato quella frequenza in quanto il giovane apparteneva ad una famiglia disonesta. In realtà, il calzettaio non si sbagliava, infatti, dopo qualche giorno, scampò miracolosamente al tentativo di quel giovane di ucciderlo.

Ma fallita la vendetta, la famiglia diffamata lo denunziò al Santo Uffizio. Scattata la denunzia, l’Inquisitore Tasmiera fece imprigionare Carusso, guaritore superstizioso.

Quali domande gli inquisitori facevano ai presunti colpevoli?

In primo luogo chiedevano al prigioniero se sapeva perché era stato imprigionato o se ricordava di aver fatto o detto qualcosa di non conforme all’ortodossia religiosa; gli facevano, in seguito, raccontare le vicende della propria vita ed eventuali incontri con persone di opinioni non ortodosse. Al prigioniero non veniva mai comunicato il capo d’accusa, poteva conoscerlo solo dopo la terza udienza!

Ai testimoni, l’inquisitore chiedeva cosa avevano da riferire sul presunto colpevole, se questi era in rapporto con altri delinquenti, se gli avevano sentito dire “santo diavolo”, se aveva blasfemato o detto qualcosa di non conforme all’ortodossia cattolica.

I testimoni che si presentarono al primo processo erano 15, a questi vanno aggiunti altri 3 testimoni compagni di carcere, che accusarono Carusso di blasfemia e di eresia, come erano soliti fare con tutti per tentare di alleviare la loro posizione.

Poco dopo ha luogo un secondo interrogatorio, ora l’accusa viene formalizzata nei delitti di blasfemia, proposizioni ereticali e imbroglio; l’inquisitore pone in secondo piano le pratiche magiche e superstiziose.

Il calzettaio accusa i testimoni di mentire, racconta l’affare della vedova, chiama in sua difesa un testimone di un altro quartiere, ma non viene creduto, perde i suoi beni e la sua attività, il 19 dicembre del 1634 è condannato a otto anni di “fuorbando”. il giorno seguente viene frustato per le vie di Palermo e cacciato dalla Sicilia. Si rifugia a Napoli, lì rimane otto anni, vive di espedienti, conosce la miseria e la solitudine.

A Napoli fa amicizia con un palermitano, condannato al bando. questi sapendo che Carusso, ormai passati gli otto anni, deve tornare in Sicilia, lo manda dalla moglie a Palermo. Andrea si presenta da questa signora, che abita nel Cortile del Fico, vicino alla chiesa della Magione, è accolto benevolmente, ma di riprendere l’attività di calzettaio non se ne parla, la crisi aveva messo alle corde molte corporazioni artigianali. Non potendo più esercitare il suo mestiere si rimette a fare il “curandero”, il guaritore, ma incorre nuovamente nell’ostilità del vicinato, ci sono pochi soldi in giro, ci si contende il lavoro e inoltre i clienti abituali sono le prostitute, che hanno il denaro per acquistare le fatture amorose e che portano scompiglio nel quartiere e nel cortile del Fico, dove vive Andrea. In più il nostro calzettaio aveva contratto un debito, con un tal mastro Pedro Corrao, per acquistare un cappello e un mantello, ma non era nelle condizioni di estinguerlo, per questo Mastro Pedro si rivolge al pretore che sequestra i due indumenti, e come se non bastasse si rivolge ad un amico, “familiare” del Sant’Uffizio, tale Leonardo Romeo, il quale accusa Adrea Carusso, debitore insolvente, di stregoneria e coinvolge come testimoni vicini e parenti. Nel 1648 si aprirà il secondo processo a carico di Andrea.

Il secondo processo 1648-1651

Il 16 dicembre 1648, il fiscale del Sant’Uffizio palermitano L. de Cisneros, a seguito della delazione, avvenuta nella notte del 14 dello stesso mese, da parte di Corrao che già l’aveva accusato nel primo processo, chiama Andrea Carusso allo Steri di Palermo.

I delatori solitamente si recavano allo Steri sul calar della notte, quando col buio è impossibile distinguere i tratti del volto.

L’ostilità tra Corrao, di professione merciaio e Carusso calzettaio, erano dovute a tante questioni. Carusso ritornato da Napoli, aveva trovato alloggio presso la casa di una tale Vincenza La Castelletta meta di prostitute, la qualcosa non era gradita né a Corrao, né al vicinato (allora nessuno, neanche i parenti stretti, erano disposti ad ospitare qualcuno che aveva a che fare con l’Inquisizione). Inoltre Carusso non solo si era rifiutato di vendere la sua fabbrichetta, ormai dismessa, a Corrao, ma in più aveva il controllo del Cortile del fico, prima nelle mani di Corrao. Come già detto, la notte del 14 dicembre 1648 Corrao riferisce a Cisneros che il calzettaio gli aveva mostrato alcune “pietre calamite” utili ad attirare l’amore degli altri. Si trattava dunque solo di un’ accusa di magia, non sufficiente per essere perseguiti; infatti la Suprema Inquisizione di Madrid, alla quale gli inquisitori siciliani erano tenuti ad inviare estratti dei loro interrogatori e dei loro processi, aveva stabilito che per essere perseguiti l’accusa doveva avere i caratteri dell’eresia e che era proibito torturare o bruciare i rei di superstizione, magia, stregoneria.

Cosa sia successo dopo la delazione di Corrao non si sa. Un accordo tra Corrao e Cisneros?

Potrebbe darsi, visto che dopo due giorni spuntano fuori nei verbali due accuse che Corrao non aveva mosso. Saranno state suggerite da L. Cisneros? Le accuse riguardano due frasi che Carusso avrebbe pronunziato: “La Chiesa più importante del mondo è Santa Maria la Botte” cioè la taverna e che “avrebbe confessato i suoi peccati al confessore, qualora questi gli avesse confessato i suoi”.

Queste frasi erano un intercalare popolare, ma se ci si costruisce un po’ sopra si arriva dove si vuole: infatti se non esiste l’inferno non esiste l’aldilà. L’accusa è diventata ora pesantissima. Vengono chiamati a consulto i “Maestri qualificatori”, cioè cinque dottori in teologia: questi affermano che trattasi di “proposizioni eretiche”.

Qualche giorno dopo un’altra accusa, di cui non c’è traccia nella deposizione di Corrao, piove su Carusso: “Ha venduto polizze di pergamena con scongiuri”. Il problema ora sta nel trovare i testimoni che siano disposti a suffragarle. Vengono trovati subito: una è Leonarda, moglie di Corrao, donna gelosa che mal sopportava che il Cortile del fico fosse frequentato dalle prostitute; le altre due sono Margherita Palumbo e Vicencia Landolina, queste affermano che Andrea avrebbe venduto loro due polizze di pergamena. Andrea viene catturato, nelle sue tasche si trovano due polizze di pergamena, è strano che un uomo sapendo di essere ricercato per magia, si faccia trovare con quelle polizze in tasca.

Andrea per difendersi chiama in sua difesa degli amici, dalle testimonianze di questi risulta che quanto più i testimoni vivono lontano dal Cortile del fico, tanto più le loro testimonianze sono benevoli nei confronti di Andrea. Intanto l’odio di Corrao per Carusso è diventato di dominio pubblico; a questo punto dopo la cattura se le testimonianze presentano una minima contraddizione tra loro e con quanto afferma il presunto reo, si somministra la tortura: lì o il reo confessa o deve essere scarcerato. Il 23 marzo si vota perché Andrea venga sottoposto alla tortura come “eretico”. per magia non lo si poteva torturare, disposizione della Suprema di Madrid. Si decide che prenda “cento frustate e sia rinchiuso perpetuamente in carcere”. La pena è durissima, stupisce la dicotomia tra delitto e pena, la severità della pena è attribuita alle espressioni eretiche (Madonna botte etc.), mentre la motivazione della sentenza indica Carusso come superstizioso, eretico, sortilego, invocatore de demonos [2].

Il 7 novembre 1649, nella Chiesa di Santa Cita dell’ordine delle Domenicane si celebra un autodafé, in cui compare Carusso, l’8 novembre il reo esce per l’ultima volta per le vie della città, è frustato e poi rinchiuso in carcere. Mastro Pedro Corrao si è liberato del suo nemico e forse rileverà anche la fabbrichetta del calzettaio che è stata messa in vendita dal Sant’Uffizio.

immagine tratta da www.filodiritto.com

Il terzo processo 1651-1652

Nel 1650 troviamo A. Carusso rinchiuso a scontare la pena del secondo processo, nelle carceri della Penitenza; qui a differenza delle carceri segrete, in cui il condannato vive al buio e in assoluto isolamento, il calzettaio ha la possibilità di muoversi, di girare, di chiacchierare insomma vivere un minimo di vita sociale.

Proprio in quelle carceri un gruppo di condannati, per scippare agli ingenui quel poco denaro che potevano trovarsi in tasca, aveva organizzato un gioco d’azzardo, probabilmente ne faceva parte anche l’alcaide (direttore del carcere). Si trattava di un vergognoso sfruttamento dei detenuti, che A. Carusso mal sopportava. Un giorno in carcere venne aggredito e massacrato un giovane. il calzettaio intervenne a difenderlo, ovviamente la cosa non fu tollerata da chi gestiva quella bisca. Nei giorni successivi uno degli aggressori si presentò al Segreto riferendo che Andrea li aveva insultati chiamandoli “marabutti” cioè turchi maomettani. Carusso, subito accusato di “eresia formale”, è condotto nelle carceri segrete, qui il calzettaio è solo, isolato, nessuno può difenderlo; disperato comincia a rifiutare il cibo, Cisneros, l’inquisitore, immagina che il calzettaio voglia lasciarsi morire per sottrarsi al rogo, informa la Suprema Inquisizione di Madrid ed emette la sua sentenza prima che l’avvocato venga chiamato a difendere il reo. L’accusa si conclude così: “…Dato il malanimo e la perversa coscienza di Andrea, si presume che oltre ai delitti contestati, egli ne abbia compiuti molti altri che non si conoscono ma che gli vengono imputati egualmente come aggravante e per questo chiede, per prima cosa, che sia sottoposto a tortura, senza termine di orario, finché non confessi la verità e gli si commini la condanna alla pena più grave: il rilascio al braccio secolare e il rogo”.

Intanto un’altra accusa di “blasfemia” si abbatte su Andrea, che convocato in giudizio, rifiuta il suo avvocato e fa appello al Sant’Uffizio romano. la tragedia di Andrea risulta incomprensibile se non si va indietro nel tempo: nel 1630 i tre bracci del Parlamento siciliano - quello demaniale, il regio e il baronale - avevano insistito presso il Re e l’Inquisizione di Madrid, perché si condannassero al rogo i rei di magia, di stregoneria etc. da Madrid era arrivato un secco no: quei rei dovevano scontare la loro pena nelle carceri della Penitenza, non dovevano essere inviati al rogo. Il braccio di ferro tra Madrid e Palermo si protrasse a lungo, ovviamente il terreno su cui potersi misurare era costituito da qualche reo di magia, nel nostro caso dal calzettaio. Questa la ragione per cui nella maggior parte dei casi, e non solo per Andrea, l’accusa originaria mossa a carico degli imputati, viene ogni volta stravolta, acquisendo false testimonianze che li colpevolizzano come “eretici”. Questa è anche ragione per cui in tutte le sentenze emesse contro il calzettaio c’è una forte discrepanza tra il reato commesso e la severità della pena. Un’altra causa, forse di minor rilievo, va rintracciata nel fatto che l’Inquisizione di Palermo non era sovvenzionata da quella di Madrid: gli inquisitori e tutta la macchina inquisitoriale si finanziava con i beni sequestrati ai condannati.

Il 9 gennaio 1651 gli Inquisitori emettono la seguente sentenza: “Andrea Carusso in autodafè pubblico sia rilasciato al braccio secolare come pertinace e negativo, con confisca dei beni, e prima di eseguirsi questa sentenza informino i Signori della Suprema di Madrid”.

La suprema di Madrid risponderà immediatamente: “A questo reo si legga la sua sentenza, con le motivazioni, in autodafè pubblico, che abiuri e che sia carcerato nelle carceri perpetue”.

Andrea è ancora rinchiuso nelle carceri segrete e non sa che la Suprema ha modificato la pena, non più il rogo ma le carceri della Penitenza, cosi continua a non mangiare né bere, ha la febbre; viene mandato un sacerdote per tentare di convincerlo ma ottiene questa risposta: “Lasciatemi morire, il Signore avrà misericordia di me”. viene visitato da alcuni medici che lo danno in fin di vita, gli si concede di ascoltare la messa dal corridoio delle segrete, da cui la Cappella si vede da lontano. Andrea si rifiuta di ascoltarla dicendo che vuole entrare in cappella assieme agli altri e che ha capito che “i quattro papi che stanno a Palermo (gli inquisitori e l’avvocato fiscale) lo hanno già condannato a morte” e che “gli avvocati del tribunale non sono altro che magnacci e ruffiani degli inquisitori che li adoperano perché i rei facciano e dicano ciò che loro desiderano sentire. Dio ci liberi dal cadere nelle mani di teologi, avvocati e sacrestani, come sono gli inquisitori. Io muoio martire perché non sono un eretico, mentre i veri eretici sono loro”.

A questo punto, visto che da Madrid era arrivato un no per la condanna al rogo, si devono trovare altre accuse, questa volta sono l’alcaide, l’aiuto alcaide ed il secondino, che si occupa delle segrete, a testimoniare che Andrea “parla male degli inquisitori”. Viene chiamato anche un testimone esterno fra’ Angelo da Polizzi che scenderà nelle segrete per convincere Andrea a riprendere a nutrirsi. il cazettaio si rifiuta, si difende ripetendo che non è un eretico che vuole ascoltare la messa, però non dal corridoio ma assieme agli altri in cappella e nega di aver mai praticato la magia. Le sue condizioni si aggravano, per non perdere sia la preda che il grandioso spettacolo del rogo a cui accorreva numerosissima gente anche di altre città, vengono chiamati medici, gli si porta cibo speciale, intanto si riuniscono i Dottori del regno, tutti appartenenti ai tre bracci del Parlamento, ricoprono le più alte cariche dei tribunali religiosi e civili. Soddisfatti di averla vinta su Madrid i “consultori e i migliori giudici del regno emettono una nuova sentenza che rasenta il ridicolo, infatti sottoscrivono un documento in cui si legge: “Visto il pericolo che sta correndo l’anima di A. Carusso, il quale vuole suicidarsi, si affretti la pena del rilascio al braccio secolare con conseguente morte sul rogo, sperando che così in punto di morte, egli possa pentirsi e salvare la sua anima”. I documenti che riguardano il seguito non ci sono, non sappiamo se nell’autodafè successivo Andrea sia salito sul rogo, si arguisce solo che il braccio di ferro con la Suprema di Madrid non era finito, visto che un anno dopo, fino al 15 dicembre 1652, nei registri delle carceri è ancora annotata la presenza del nostro calzettaio. Forse, ma solo forse, il diritto ha avuto la meglio sul fanatismo.

Note

[1] “Relaciones de causas” erano dei brevi estratti che l’Inquisizione di Palermo era tenuta ad inviare alla Suprema di Madrid.

[2] La giustizia era allora cetuale, cioè la severità della pena dipendeva dalla fascia sociale a cui si apparteneva.

Bibliografia

  • F. Renda, La fine del giudaismo siciliano, ed. Sellerio, Palermo

  • M.S. Messana, Il Santo Ufficio dell’Inquisizione, Sicilia 1500-1782, Ed. Istituto Poligrafico Europeo, Palermo

Pagina a cura di Rosa Casano Del Puglia. Riproduzione, anche parziale, vietata. Pubblicato dal Portale del Sud nel mese di Febbraio dell'anno 2013

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