Le Pagine di Storia

 

 

La Rivolta di Genova, gli scontri di Porta San Paolo, i morti di Reggio Emilia (giugno – luglio 1960)

di Gianmarco Calore [1]

Genova 1960, Piazza De Ferrari

Tratto da http://www.polizianellastoria.it/

Nel cinquantesimo anniversario di una delle pagine più brutte della nostra Repubblica: perché la memoria storica non vada mai perduta anche quando essa diventa imbarazzante per chi la scrive.

L'argomento che andremo ad affrontare in queste pagine è probabilmente quello più difficile, più “scomodo”, di sicuro il più brutto della storia della Polizia italiana dell'ultimo secolo.

Quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa riguardante gli scontri di Reggio Emilia del 7 luglio 1960 ho passato mesi interi a documentarmi: articoli di giornale, libri, materiale scaricato da internet (molto poco, a dire il vero...) e soprattutto testimonianze di chi quel giorno a Reggio Emilia c'è stato sul serio. Sono i vecchi pensionati dell'A.N.P.S.: gagliardi vecchietti, allora poco più che ventenni gettati allo sbaraglio ad affrontare situazioni per le quali mancava non soltanto la preparazione, ma anche l'informazione. E mentre su Genova (30 giugno 1960) hanno fatto a gara per raccontarmi nei dettagli quella che fu una giornata di tregenda, su Reggio Emilia è subito calata una strana reticenza, un sipario evasivo che mi ha fatto comprendere che nella città emiliana doveva essere accaduto proprio un “fattaccio brutto”. Stavo quasi per accantonare l'idea di scrivere su quegli avvenimenti: mi sono detto che certi fatti è bene lasciarli dove stanno, soprattutto quando questi sono ancora molto sentiti nella coscienza civica degli Italiani, di quegli Italiani.

Ma c'era questo tarlo che continuava a rodermi. Alla fine, dal momento che scriviamo di storia, bisogna essere autocritici: nessuno vuole tratteggiare una Polizia italiana a tutti i costi senza macchia e senza peccato, e del resto il mio rigore di amante della storia mi impone di parlare anche di ciò che tanti vorrebbero dimenticare. Ma l'oblio è di sicuro peggiore dei fatti concreti: non mi sono tirato indietro neanche quando si è trattato di affrontare le tristissime vicende della  scellerata “banda della Uno bianca”, una delle peggiori pagine della nostra storia che ha lasciato cicatrici insanabili sull'intero Corpo della Polizia di Stato. Qui si trattò di elementi deviati di un'Istituzione fondamentalmente sana; a Reggio Emilia invece fu un intero metodo di fare Polizia ad andare in crisi.

E allora, siccome nascondere la polvere sotto al tappeto è da felloni ed è soprattutto inutile e dannoso principalmente per la nostra storia, ho preso il coraggio a due mani e ho cercato di ricostruire quei mesi lontani non trascurando alcuna delle informazioni in mio possesso anche quando queste diventano scomode e fastidiose: perché la storia non ammette né la scomodità né il fastidio. Ammette solo l'obiettività.

Sono pienamente consapevole di addentrarmi in un ginepraio: tuttavia mi auguro che questo scritto venga interpretato per quello che è, cioè uno spaccato di storia che aiuti a comprendere gli errori del passato per non commetterne più di analoghi in futuro. E questo a beneficio non solo del Corpo della Polizia di Stato, ma anche dei singoli cittadini italiani.

Per capire appieno gli scontri di Reggio Emilia si commetterebbe un grossolano errore metodologico parlando solo di quei giorni, solo di quei fatti. Estrapolarli dal contesto storico-politico nel quale si svolsero ne darebbe una visione completamente distorta. Bisogna quindi iniziare da più lontano, da qualche anno prima. Negli anni Cinquanta la situazione sociale e politica del Paese era travagliata da spinte antagoniste molto forti: si stava già allargando la forbice che separò le grandi metropoli industriali del Nord dall'economia rurale del Meridione. Livelli opposti di benessere, un boom economico alle porte, la libertà riconquistata dopo la guerra: tutti elementi che nacquero e si svilupparono come una casa priva di fondamenta, perciò destinata a crollare. La situazione del Settentrione vide lo sviluppo massiccio dell'economia industriale fatta dal “padrone capitalista” che sfruttava nel vero senso della parola i suoi operai senza nessuna frizione frapposta dai sindacati, considerati niente di più di un manipolo di “sovversivi comunisti”: orari di lavoro massacranti, nessuna tutela della propria incolumità, possibilità di licenziamento in tronco per qualunque motivo oltre a un trattamento economico da fame. Il tutto nel nome del rilancio dell'economia nazionale messa in ginocchio dagli eventi bellici appena conclusi. Al Sud, invece, l'esatto opposto: poche le industrie, molto spesso “costole” degli stabilimenti del Nord. Estesa invece l'economia rurale fondata sull'agricoltura e sullo sfruttamento delle risorse naturali, molto spesso costituita su base familiare. Come contraltare, un analfabetismo diffuso che colpiva quasi il 90% della popolazione; la mancanza di strutture abitative e lavorative decenti (con la gente che viveva ancora nelle grotte naturali, come a Matera); la presenza invasiva di forme di controllo criminali: la mafia in Sicilia, la 'Ndrangheta in Calabria, la camorra in Campania.

A tutto questo si aggiunga quello che diventerà l'elemento detonante per l'ordine pubblico: la vivissima contrapposizione tra “fascisti” e “comunisti”, con una Democrazia Cristiana che soffiava a pieni polmoni sul fuoco dell'anticomunismo nel timore di uno sbandamento del Paese nell'orbita sovietica.

Oggi sentire parlare di questi argomenti può far sorridere: in un clima fatto di bipolarismo, con un'Italia in cui sinistra e destra hanno perso molta dell'identità politica che avevano fino a pochi anni fa, pensare a fascisti contro comunisti può far venire in mente soltanto le vicende di don Camillo e Peppone così come tratteggiate da Guareschi. Ma in quegli anni il clima era completamente diverso, rovente e appassionato come mai capiterà più. Ancora negli anni Cinquanta il governo aveva capito che la stabilità politica del Paese si sarebbe mantenuta esclusivamente con la forza: se vuoi che una pianta cresca diritta, la devi sfrondare dei rami più pericolosi. La Costituzione italiana garantiva diritti e libertà fino a quei tempi insperate, ma anche sconosciute: troppa libertà poteva portare a pericolose derive di instabilità e – magari – all'avvento di personaggi ambigui che detenessero il potere in via esclusiva. Non dimentichiamo che Mussolini era stato fucilato neanche quindici anni prima, che in termini storici significa l'altro ieri. L'espressione di questa necessità di controllo si incarnò in uno dei ministri dell'interno più duraturi della storia: Mario Scelba. Il fatto che ad un certo punto della sua carriera politica Scelba abbia rivestito simultaneamente il ruolo di capo del governo e di ministro dell'interno la dice lunga sulle reali intenzioni della classe politica dell'epoca. Del resto, il turn-over di personaggi politici dalla dubbia moralità, collusi con il fascismo, cacciati dalla porta per poi rientrare dalla finestra aveva innalzato la febbre politica nazionale, con gli ex partigiani che in alcune occasioni imbracciarono nuovamente le armi dando l'assalto addirittura al Viminale. Di contro, la politica di Scelba fu quella di “tagliare le gambe” a tutti coloro che erano anche minimamente sospettati di simpatie sinistrorse: a questi fu negato l'accesso ai ruoli civili e militari della Pubblica Amministrazione e per chi già vi faceva parte era pronto un “trattamento” di favore che oggi costituirebbe vero e proprio mobbing: non te ne andavi? Bene, ecco pronti per te trasferimenti d'ufficio in sedi disagiate, attribuzione di mansioni umilianti, isolamento dagli altri colleghi, sfruttamento in termini di lavoro straordinario non retribuito... E' facile quindi immaginarsi il clima di sospetto e di tensione che si sviluppò nei vari ambiti di lavoro: una molla che fu caricata apposta dai governi centrali che credevano di poterne conservare sempre e comunque il controllo, ma che si rivelerà un boomerang con l'avvento del Sessantotto e della Contestazione.

La situazione dell'ordine pubblico in Italia negli anni Cinquanta vedeva un'aspra contrapposizione ideologica non solo sul piano politico ma anche su quello sociale: gli scontri di piazza iniziarono a farsi sempre più violenti in una escalation che si pose progressivamente fuori controllo

Questo era il panorama sociale e politico dell'Italia alla fine degli anni Cinquanta. E la Polizia? Per comprendere esattamente la situazione dell'epoca, va premesso che la Polizia di quegli anni non aveva niente in comune con la Polizia di oggi. La stessa gestione dell'ordine pubblico era diametralmente opposta a quella attuale, sia per metodo di intervento, sia per mezzi e armamento impiegati.

La Polizia di quel periodo, chiamata Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza, era una struttura militare strettamente incardinata a livello gerarchico nelle Forze Armate: ai suoi dipendenti era richiesto uno spirito di sacrificio fuori del comune fatto di vita di caserma, permanenza non retribuita, vincoli strettissimi alla vita personale, trattamento economico al minimo salariale. Ad essi non era concesso alcun potere discrezionale, tantomeno la possibilità di produrre lamentele o organizzarsi sindacalmente. I poliziotti più anziani molto spesso provenivano direttamente dai ruoli dell'esercito dai quali erano stati fatti transitare in assenza di appositi concorsi specifici come personale “ausiliario” o – come si diceva allora - “aggiunto”. Gli stessi Ufficiali, mancando ancora un'accademia di Polizia, erano ufficiali dell'esercito formati secondo quel tipo di mentalità che anche a livello tecnico-operativo si discostava completamente dalle prerogative richieste alla Polizia soprattutto in tema di ordine pubblico. Nelle manifestazioni di piazza mancava oltretutto un collegamento tra i manifestanti e i funzionari di Polizia come avviene oggi: per i primi esisteva solo l'obbligo di comunicare al Questore l'intenzione di effettuare un corteo o uno sciopero, sottoposti a una valutazione discrezionale da parte di quest'ultima Autorità. Ogni altra forma di dialogo non solo non era prevista, ma non era nemmeno cercata. I Reparti “Celere” impiegati molto spesso non scendevano nemmeno in piazza ma facevano sosta in questura o all'interno dello stesso reparto, pronti a intervenire solo se c'era da reprimere con la forza ogni esuberanza dei manifestanti. In questa ottica, ben si comprende come il margine di rischio per cui una manifestazione inizialmente tranquilla poteva scaturire in cruenti scontri con l'impiego addirittura delle armi da fuoco. Un esempio pratico: solo dopo i fatti di Reggio Emilia si comprese l'inutilità di dotare ogni singola guardia anche dell'arma lunga, vale a dire del mitra.

Lo spiccato inquadramento militare del Corpo delle Guardie di P.S. imponeva ai suoi appartenenti il dovere di assoluta subordinazione gerarchica

La gestione dell'ordine pubblico privilegiava metodi di pura repressione: i singoli militari venivano dotati anche dell'arma lunga

Per analizzare correttamente i fatti di Reggio Emilia dobbiamo necessariamente partire da ciò che accadde a Genova il 30 giugno 1960. Il clima di tensione che caratterizzava l'ordine pubblico fino a quel giorno aveva subìto un crescendo di acrimonia tra le Forze di Polizia e i manifestanti. La Celere aveva già avuto feroci scontri in prevalenza in ambito rurale; alcuni di questi erano sfociati anche in scontri a fuoco. Ora, perché ricorrere all'uso indiscriminato delle armi? Oggi un simile comportamento significherebbe quanto di più illogico, barbaro e terzomondista per uno Stato democratico: in una parola, sarebbe il fallimento dell'ordine pubblico. Ma in quegli anni a livello operativo mancavano protocolli di intervento predefiniti. E soprattutto, mancava uno specifico addestramento. Le cariche avvenivano esclusivamente a bordo delle jeep scoperte e dei gipponi Dodge: erano i famosi “caroselli” con i quali la Polizia intendeva innanzitutto impressionare e spaventare i rivoltosi costringendoli a disperdersi: un sistema già collaudato in Gran Bretagna e importato in Italia da un colonnello del Governo Militare Alleato. Tutto questo andava bene fintantoché i manifestanti si disperdevano senza opporre più di tanto resistenza. Ma cosa succedeva quando questi ultimi iniziarono a reagire violentemente con lanci di pietre, uso di bastoni, impiego delle prime bombe incendiarie? Fu qui che mancarono disposizioni specifiche che prevedessero l'uso di sistemi alternativi alle armi, quali l'idrante, i lacrimogeni, i sistemi di protezione passiva dei poliziotti come gli scudi e i giubbotti antiproiettile: il militare che scendeva in strada era infagottato in pesanti cappotti che arrivavano sotto al ginocchio (il c.d. trench, usato anche in piena estate...); disponeva di uno sfollagente di tipo corto che lo portava troppo a contatto col manifestante; aveva come unico riparo un antiquato elmetto metallico privo di visiera e copri-nuca (il modello 33 di inizio secolo...). E naturalmente aveva con sé le sue armi: mitra e pistola d'ordinanza. Quando capitò che alcuni reparti si trovarono con le spalle al muro, accerchiati dai manifestanti inferociti, qualcuno perse la testa e sparò.

Torniamo a Genova, giugno 1960: siamo in pieno governo Tambroni, un monocolore DC che si manteneva in carica grazie all'appoggio esterno del M.S.I. e dei monarchici: l'ultima spiaggia per non affidare il Paese ai socialisti di Pietro Nenni, ma quel tanto che bastava per accecare dalla rabbia le centinaia di migliaia di antifascisti in giro per le città italiane. Genova, poi, vantava da sempre una tradizione antifascista ben radicata: quando  il capoluogo ligure venne molto “sapientemente” scelto dal Movimento Sociale Italiano come sede di un convegno nazionale, la cittadinanza insorse. Genova era medaglia d'oro alla Resistenza e vedere un ex prefetto repubblichino, Emanuele Basile (responsabile della deportazione nei campi di concentramento di tanti concittadini) parlare dal palco di quella città era un oltraggio insostenibile. Gli ex partigiani, appoggiati dalla popolazione e dalla nutrita comunità dei portuali, iniziarono a picchettare ogni angolo del capoluogo ligure; i sindacati di categoria forse per la prima volta fecero la voce grossa con il governo, sostenendo che quella manifestazione a Genova non si sarebbe tenuta. E questo a qualunque costo. A Roma il governo andò in fibrillazione: mai nessuno aveva osato trattarlo con tale protervia e arroganza. L'equazione ribellione = rivolta = minaccia all'ordine democratico scattò con la rapidità di un lampo e si concretizzo nell'invio a Genova di migliaia di uomini, soprattutto dei reparti “Celere”. Ai Carabinieri e ai militari dell'esercito fu imposta la consegna nelle caserme in un clima da autentico colpo di stato: mai a memoria d'uomo si era visto un simile dispiegamento di forze per una semplice manifestazione. I muscoli mostrati dallo Stato non fecero altro che innalzare ulteriormente la tensione, soprattutto tra i “camalli” genovesi che da sempre avevano mal digerito le imposizioni statali. Nessuno capì che un passo indietro, la ricerca di una soluzione alternativa, non sarebbero stati interpretati come segnali di debolezza, ma di lungimiranza. Soprattutto, non si capì – o non si volle capire – che le conseguenze di quella battaglia avrebbero vincolato tutte le manifestazioni di piazza per gli anni a seguire.

Si noti come anche in piena estate i militari indossassero ancora gli ingombranti trench invernali. L'elmetto mod. 33 (qui ancora dotato della fascia cremisi che identificava i reparti "Celere") era privo di protezioni al volto e alla nuca

Il 30 giugno 1960 Genova è una città sotto assedio: Polizia ovunque con jeep, idranti, autoblindo, camionette e mezzi pesanti. Dall'altra parte, un assembramento di manifestanti iniziato alle prime luci dell'alba e che alle 10, orario di inizio del corteo antifascista, aveva superato le centomila unità. Ma quale fu l'elemento che costituì il vero spartiacque nella gestione dell'ordine pubblico? Questa è una storia che pochi conoscono: una storia mai ufficialmente confermata dal Ministero dell'Interno ma sussurrata a mezza voce dai poliziotti che quel 30 giugno erano lì. Il governo, già bersagliato da numerose interrogazioni parlamentari che avevano avuto ad oggetto proprio l'uso delle armi da parte della Polizia, dette disposizione che agli uomini della Celere fossero tolte le cartucce dai caricatori delle pistole e che i proiettili venissero loro consegnati ben sigillati in involucri di cartone che per nessun motivo dovevano essere aperti: al termine della missione, quegli involucri sarebbero dovuti essere restituiti intonsi. Le armi cariche furono lasciate solo agli Ufficiali comandanti dei contingenti. Una decisione quantomeno scellerata, per non dire suicida, ma che all'epoca venne voluta come segnale di improbabile distensione: non dimentichiamo questo particolare che riprenderemo più avanti.

La battaglia esplose violenta quasi subito: da un lato una popolazione scesa in strada col sangue agli occhi, dall'altro la Polizia alla quale erano stati impartiti ordini estremamente precisi in termini di repressione. Il bilancio fu di più di cinquanta militari ricoverati in ospedale con lesioni anche gravi; centinaia di arresti; una città messa a ferro e fuoco. In piazza De Ferraris un contingente del Reparto Celere di Padova agli ordini del capitano Ludei  fu disarmato e isolato da centinaia di manifestanti, molti dei quali con quelle magliette a righe bianche e blu che divennero il simbolo della rivolta. L'ufficiale venne quasi annegato nella fontana della piazza mentre i suoi uomini furono percossi e feriti anche con l'uso delle famigerate “refie”, quei grossi uncini metallici usati per scaricare le stive delle navi. Le foto ci mostrano la jeep della polizia incendiata, i militari che cercano un'improbabile salvezza sotto di essa e il provvidenziale intervento di una quindicina di mezzi che riuscì a fatica a disperdere la folla. Una frase su tutte resta da ricordare, me la disse un anziano maresciallo:

“Fummo fortunati a portare a casa la pelle...”

La città, dopo la sua restituzione ad una calma apparente, venne presidiata per settimane nel timore di ulteriori rigurgiti di violenza. Tuttavia la miccia era stata accesa e le manifestazioni non autorizzate che sfociarono in disordini si propagarono in tutta Italia come un incendio.

Genova, 30 giugno 1960: in questa drammatica sequenza di fotografie viene riassunta la violenza degli scontri. A partire dall'alto, si nota l'ingente schieramento di Polizia; a seguire, l'assalto alla jeep del capitano Ludei in piazza De Ferraris: i militari si salveranno solo grazie al rapido intervento degli altri mezzi del loro reparto. 

Licata, 5 luglio 1960.

Nuova manifestazione, nuovi disordini. Stavolta la Polizia scende in strada armata: il governo Tambroni, il cui motto continuava a essere “Legge e ordine”, non poteva tollerare di perdere la faccia con l'opinione pubblica e con l'opposizione che stava rinfocolando pericolose polemiche che avrebbero potuto causarne perfino la caduta. Una Polizia in netta minoranza numerica, impaurita dalla violenza dei manifestanti e nuovamente armata apre il fuoco sulla folla uccidendo il venticinquenne Vincenzo Napoli e ferendo altre 24 persone. In sede parlamentare esplodono violentissime le proteste, subito zittite dalla maggioranza e dai missini. A gran voce si chiedono le dimissioni di Tambroni ma costui continua a tirare dritto per la sua strada, forte per la mancanza dei numeri necessari alla mozione di sfiducia, non comprendendo di essere in realtà ormai giunto al capolinea.

Roma, 6 luglio 1960.

Viene negata l'autorizzazione a una manifestazione di protesta per i fatti di Genova e di Licata che vedeva scendere in piazza studenti e lavoratori. La manifestazione si tenne ugualmente, con decine di migliaia di persone che scesero per le strade sfidando apertamente il divieto. La Polizia arrivò anche qui nuovamente disarmata, stavolta senza nemmeno le pistole nelle fondine: in questo continuo tira e molla il governo puntò tutto sulle cariche di alleggerimento e schierò in campo perfino i reparti a cavallo. I disordini esplosero violenti e immediati: le cariche servirono a poco perchè i manifestanti avevano imparato a disperdersi e a riorganizzarsi, fiaccando fisico e morale delle Forze dell'Ordine. Gli idranti impiegati ebbero buon gioco finchè si trovarono su spazi aperti, ma nulla poterono nelle strette vie alle spalle di Porta San Paolo. Qui riuscirono a entrare solo i Poliziotti, a piedi, neanche in auto. E fu proprio qui che accadde il dramma: una squadra del 1^ Reparto Celere di Roma  venne attaccata su due fronti dai manifestanti che, così facendo, la isolarono dal resto del contingente. I militari tentarono di difendersi arretrando verso la piazza poco distante ma uno di loro, la guardia Antonio Sarappa, fu letteralmente linciato a calci, pugni e bastonate: il suo corpo ridotto in fin di vita fu recuperato grazie all'intervento di altre squadre del reparto. Il poliziotto morirà due mesi dopo all'ospedale militare del Celio.

La Polizia si sentì a quel punto abbandonata a se stessa: siamo ancora lontani da aperte forme di protesta e insubordinazione che caratterizzeranno il Corpo negli anni Settanta (diciamo, a partire dall'omicidio della guardia Antonio Annarumma [1a] nel 1969), tuttavia all'interno delle caserme il malumore era palpabile. I poliziotti chiedevano di sapere in anticipo la tipologia della manifestazione che sarebbero andati ad affrontare: le loro richieste cadranno per l'ennesima volta nel vuoto. Si dice che all'interno dei reparti “Celere” fu ottenuta invece un'ulteriore esasperazione delle paure dei militari, prefigurando loro violenze e tensioni ingiustificate ma che nell'ottica assurda della catena di comando doveva incattivirli. Anche questo – assieme al disarmo dei poliziotti – è un elemento da non dimenticare.

Roma, 6 luglio 1960: una delle pochissime immagini degli scontri di Porta San Paolo. Gli idranti disperdono la folla

Arriviamo a Reggio Emilia, 7 luglio 1960.

E' una pagina triste per tutti. E' un fallimento dell'ordine pubblico a cui il Corpo di Polizia non può sottrarsi: lo scrivo sia come cittadino, sia come poliziotto. Posso solo cercare di offrire una spiegazione, una delle tante, come tale condivisibile o meno.

Quel giorno a Reggio Emilia viene indetta una manifestazione sindacale del Partito Comunista Italiano: la base sono i fatti di Genova e di Roma, ma sul piatto della bilancia c'è anche altro: rivendicazioni salariali, statuto dei lavoratori, tutela della sicurezza. Di contro esiste il divieto governativo a qualsiasi tipo di assembramento: è lo stesso sindacato a percorrere le strade di Reggio con gli altoparlanti sulle auto, invitando la gente a ottemperare alle disposizioni. Li hanno visti tutti, i poliziotti giunti a Reggio Emilia da Padova, Bologna e Milano: sono tanti, sono imbruttiti; ma quel che è peggio è che sono armati. A bordo delle jeep, oltre ai manganelli, compaiono sinistre le canne dei M.A.B.. Il prefetto, con una decisione personale, concede ai manifestanti come luogo di riunione la “Sala Verdi”: del resto, pensa, sono vietati gli assembramenti in luogo pubblico, non le riunioni in luogo aperto al pubblico. Una sottigliezza squisitamente giuridica che permette una tardiva valvola di sfogo della tensione. Tuttavia quella sala aveva una capienza di circa trecento posti: i manifestanti previsti erano più di ventimila.... Una “costola” di loro, circa trecento persone, raggiunge allora il monumento ai Caduti di piazza della Libertà effettuando un sit-in pacifico, con canti popolari della Resistenza. Ma gli assembramenti sono vietati, pacifici o meno essi siano. Immagino la richiesta pressante di disposizioni del dirigente dell'ordine pubblico, il vice questore Giulio Cafari Panico; immagino la frenesia di quei momenti, nella consapevolezza che una decisione avventata sarebbe stata deleteria per la stessa stabilità del Paese. Non sapremo mai cosa accadde ai vertici della catena di comando; non sapremo mai quali ordini furono impartiti da Roma. Sta di fatto che alle 16:45 il vice questore Cafari Panico ordina alla Celere di disperdere la folla. Partono prima gli idranti, poi le camionette. La gente, incredula, fugge dalla piazza ma all'incredulità subentrò subito la rabbia: raggiunto un cantiere edile nell'isolato San Rocco, i manifestanti si impossessarono di tutto ciò che trovarono: assi di legno, bastoni, tubi metallici, pietre... E reagirono.

E qui, di fronte all'evidenza delle prove, la Polizia non può che calare il capo. Sì, perchè di quei fatti è stato inciso un disco: uno di quei vecchi 33 giri in vinile in cui fu trasposto fronte-retro il sonoro di quelle cariche. L'ho sentito personalmente: fa venire la pelle d'oca anche a me che di manifestazioni di piazza brutte e cattive me ne sono sciroppate tante. Si odono le sirene delle camionette della Celere: arrivano rapide in piazza e subito aprono il fuoco con i lacrimogeni. Un sordo “pum.. pum..” evidenzia l'uso del moschetto TS per il lancio dei candelotti. Urla, urla di gente che dice di smetterla, un “assassini” gridato più per paura che per offendere. Ma fino a qui normale amministrazione. Il peggio arriva dopo neanche due minuti dall'inizio delle cariche: e sono le raffiche di mitra. E' un inconfondibile gracidio di brevi raffiche, tre-quattro colpi, subito accompagnato dal “tleng – tleng” dei proiettili che sbattono ovunque: sui cornicioni, sulle finestre, sulle colonne [2]. Ancora urla, stavolta disperate: “Basta, basta!” grida qualcuno. A terra c'è un uomo, un ragazzo di 35 anni: Afro Tondelli, un operaio delle Officine Meccaniche Reggiane. Un testimone, sentito agli atti processuali, dichiarò di avere visto un poliziotto scendere da uno degli idranti, accucciarsi, prendere la mira e sparare con la pistola [3]. Il disco prosegue con l'acuto sibilo della sirena dell'ambulanza, molto più lacerante di quello delle camionette, mentre tutto attorno si continua a sparare. Poco distante testimoni videro un ragazzino di 22 anni, Lauro Farioli, staccarsi dal gruppo e muovere pochi passi con le braccia alzate verso un cordone di Polizia: parte una raffica che lo abbatte [4]. Marino Serri, 41 anni, grida la sua disperazione con un “Assassini!” immortalato nell'audio: viene immortalata anche la raffica di tre colpi che lo uccide.

Ancora un morto in piazza Cavour: Ovidio Franchi, 19 anni, la vittima più giovane di quella giornata di follia. Colpito all'addome, cerca di rifugiarsi in un portone aiutato da un amico. Si narra di un “individuo in divisa” che li raggiunse sparando a entrambi [5].

Il disco prosegue con l'altoparlante che invitava la gente ad abbandonare la piazza, che la manifestazione era finita. Ma soprattutto i più giovani non ne vollero sapere. Solo allora la Polizia venne ritirata dalle strade. E solo allora ci si accorse di un altro ferito grave: Emilio Reverberi, che morirà in ospedale poche ore dopo.

In tre quarti d'ora di follia furono esplosi più di 500 proiettili calibro 9 lungo: erano i proiettili dei MAB. Dall'ospedale cittadino arrivò una delle testimonianze più orribili da parte di un medico:

"In sala operatoria c'eravamo io, il professor Pampari e il collega Parisoli. Ricordo nitidamente quelle terribili ore, ne passammo dodici di fila in sala operatoria, arrivava gente in condizioni disperate. Sembrava una situazione di guerra: non c'era tempo per parlare, mentre cercavamo di fare il possibile avvertivamo, pesantissimi, l'apprensione e il dolore dei parenti". [6]

Le rare immagini di Reggio Emilia. A partire dall'alto, le prime cariche in piazza della Libertà, il massiccio uso di lacrimogeni e il tragico epilogo: si cerca di prestare soccorso a Afro Tondelli

Ma quel giorno non si sparò solo a Reggio Emilia. In altre manifestazioni a Napoli, Modena, Parma, Catania e Palermo vi furono altri caduti tra i civili. Non serve altro per capire la situazione: per restare in sella al governo, Tambroni paventò trame occulte internazionali legate a un misterioso viaggio di Togliatti in Unione Sovietica. I patetici tentativi di addossare ad altri la responsabilità per la fallimentare gestione dell'ordine pubblico in Italia prolungarono di qualche giorno l'agonia del governo. Tambroni rassegnò le sue dimissioni nelle mani del presidente della Repubblica Gronchi il 19 luglio 1960. Il 22 dello stesso mese venne affidato ad Amintore Fanfani il compito di formare il nuovo governo, il primo di centro sinistra che impresse una svolta in senso evolutivo sia all'ordine pubblico, sia al Corpo delle Guardie di P.S.

E torniamo a noi. Non è stato facile affrontare questo tema: non siamo alla ricerca di giustificazioni di fronte all'ingiustificabile. Abbiamo soltanto cercato di offrire uno spaccato storico del nostro Paese talmente diverso da quello attuale da rendere ancora più inconcepibile il ricorso a tanta forza sulle piazze italiane. L'unico movente che mi sento di ricavare da tutto ciò è fatto di una miscela pericolosissima di paura e impreparazione: due elementi che, se presi da soli, non causano danni, ma che se messi assieme diventano distruttivi. Un po' come la nitroglicerina.

La paura. Paura politica di perdere la conduzione del Paese; paura di una rapida involuzione a sinistra, con lo spettro dei “comunisti mangiabambini” a turbare i sonni di ministri e parlamentari; paura di perdere il controllo delle piazze, con rigurgiti anarchici e rivoluzionari che – chissà – avrebbero potuto magari disintegrare la neonata democrazia; paura a livello operativo, con le Forze dell'Ordine da un lato ostaggio di un regolamento obsoleto, dall'altro deliberatamente tenute nell'ignoranza più assoluta; paura che i poliziotti si potessero fare una loro idea personale dell'ordine pubblico, se è vero che ad essi veniva perfino vietata la lettura di particolari quotidiani ritenuti troppo faziosi, magari arrivando pure a schierarsi con quella parte d'Italia che si voleva a tutti i costi reprimere.

L'impreparazione. Impreparazione politica nel saper dialogare con le parti sociali, anche le più estreme; impreparazione nel saper valutare i malumori della gente, considerata improvvidamente come un branco di pecore con le quali il pastore doveva usare i suoi cani; impreparazione professionale nell'impiego della forza pubblica, con la mancata adozione di protocolli d'intervento e con la mancata impartizione di ordini chiari e precisi tale da lasciare alla libera iniziativa dei singoli funzionari e ufficiali decisioni che esorbitavano dalle loro competenze.

Null'altro si può aggiungere a una simile storia. Si può solo cercare di comprenderla, mai di dimenticarla. Perché il bello della storia è che essa è sempre lì: tu la puoi sottovalutare, trascurare, cacciare in un angolo. Ma prima o poi tornerà a fare sentire la sua voce. In un modo o in un altro.

Per la redazione Polizianellastoria: Gianmarco Calore


Note

[1] Tratto da http://www.polizianellastoria.it/

[1a] La guardia Annarumma, in forza al Terzo Reparto Celere di Milano, venne brutalmente assassinata il 19 novembre 1969 nel corso di violentissimi scontri scaturiti al termine di una manifestazione nei pressi del Teatro Lirico di Milano. Nel corso della famigerata “battaglia di via Larga”, il militare (che si trovava alla guida di una jeep) fu circondato e colpito alla testa con un tubo in acciaio del tipo usato per le impalcature. I tentativi di depistaggio che insinuarono che la morte del poliziotto fosse stata causata in realtà dallo scontro della propria jeep con un altro veicolo della Polizia scatenarono le prime forme di aperta rivolta all'interno delle caserme: Milano, Torino, Bologna... Gli atti di palese insofferenza e insubordinazione si susseguirono in un crescendo di insofferenza all'interno del Corpo delle Guardie di P.S.: per la prima volta si iniziò a parlare apertamente della smilitarizzazione della Polizia.

[2] Testimonianza di Giuliano Rovacchi – atti processuali e stampa.

[3] Per questo omicidio verrà indagato la guardia Orlando Celani, successivamente assolto per insufficienza di prove nel 1964. Fu processato anche il vice questore Cafari Panico e anch'egli fu assolto per non aver commesso il fatto.

[4] Testimonianza di alcuni manifestanti – atti processuali e stampa.

[5] Ibidem.

[6] Testimonianza del dott. Riccardo Motta, chirurgo – atti processuali e stampa.

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