Tratto da
http://www.polizianellastoria.it/
Nel cinquantesimo anniversario di una delle pagine più
brutte della nostra Repubblica: perché la memoria
storica non vada mai perduta anche quando essa diventa
imbarazzante per chi la scrive.
L'argomento che andremo ad affrontare in queste pagine è
probabilmente quello più difficile, più “scomodo”, di
sicuro il più brutto della storia della Polizia italiana
dell'ultimo secolo.
Quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa
riguardante gli scontri di Reggio Emilia del 7 luglio
1960 ho passato mesi interi a documentarmi: articoli di
giornale, libri, materiale scaricato da internet (molto
poco, a dire il vero...) e soprattutto testimonianze di
chi quel giorno a Reggio Emilia c'è stato sul serio.
Sono i vecchi pensionati dell'A.N.P.S.: gagliardi
vecchietti, allora poco più che ventenni gettati allo
sbaraglio ad affrontare situazioni per le quali mancava
non soltanto la preparazione, ma anche l'informazione. E
mentre su Genova (30 giugno 1960) hanno fatto a gara per
raccontarmi nei dettagli quella che fu una giornata di
tregenda, su Reggio Emilia è subito calata una strana
reticenza, un sipario evasivo che mi ha fatto
comprendere che nella città emiliana doveva essere
accaduto proprio un “fattaccio brutto”. Stavo quasi per
accantonare l'idea di scrivere su quegli avvenimenti: mi
sono detto che certi fatti è bene lasciarli dove stanno,
soprattutto quando questi sono ancora molto sentiti
nella coscienza civica degli Italiani, di quegli
Italiani.
Ma c'era questo tarlo che continuava a rodermi. Alla
fine, dal momento che scriviamo di storia, bisogna
essere autocritici: nessuno vuole tratteggiare una
Polizia italiana a tutti i costi senza macchia e senza
peccato, e del resto il mio rigore di amante della
storia mi impone di parlare anche di ciò che tanti
vorrebbero dimenticare. Ma l'oblio è di sicuro peggiore
dei fatti concreti: non mi sono tirato indietro neanche
quando si è trattato di affrontare le tristissime
vicende della scellerata “banda della Uno bianca”, una
delle peggiori pagine della nostra storia che ha
lasciato cicatrici insanabili sull'intero Corpo della
Polizia di Stato. Qui si trattò di elementi deviati di
un'Istituzione fondamentalmente sana; a Reggio Emilia
invece fu un intero metodo di fare Polizia ad andare in
crisi.
E allora, siccome nascondere la polvere sotto al tappeto
è da felloni ed è soprattutto inutile e dannoso
principalmente per la nostra storia, ho preso il
coraggio a due mani e ho cercato di ricostruire quei
mesi lontani non trascurando alcuna delle informazioni
in mio possesso anche quando queste diventano scomode e
fastidiose: perché la storia non ammette né la scomodità
né il fastidio. Ammette solo l'obiettività.
Sono pienamente consapevole di addentrarmi in un
ginepraio: tuttavia mi auguro che questo scritto venga
interpretato per quello che è, cioè uno spaccato di
storia che aiuti a comprendere gli errori del passato
per non commetterne più di analoghi in futuro. E questo
a beneficio non solo del Corpo della Polizia di Stato,
ma anche dei singoli cittadini italiani.
Per capire appieno gli scontri di Reggio Emilia si
commetterebbe un grossolano errore metodologico parlando
solo di quei giorni, solo di quei fatti. Estrapolarli
dal contesto storico-politico nel quale si svolsero ne
darebbe una visione completamente distorta. Bisogna
quindi iniziare da più lontano, da qualche anno prima.
Negli anni Cinquanta la situazione sociale e politica
del Paese era travagliata da spinte antagoniste molto
forti: si stava già allargando la forbice che separò le
grandi metropoli industriali del Nord dall'economia
rurale del Meridione. Livelli opposti di benessere, un
boom economico alle porte, la libertà riconquistata dopo
la guerra: tutti elementi che nacquero e si svilupparono
come una casa priva di fondamenta, perciò destinata a
crollare. La situazione del Settentrione vide lo
sviluppo massiccio dell'economia industriale fatta dal
“padrone capitalista” che sfruttava nel vero senso della
parola i suoi operai senza nessuna frizione frapposta
dai sindacati, considerati niente di più di un manipolo
di “sovversivi comunisti”: orari di lavoro massacranti,
nessuna tutela della propria incolumità, possibilità di
licenziamento in tronco per qualunque motivo oltre a un
trattamento economico da fame. Il tutto nel nome del
rilancio dell'economia nazionale messa in ginocchio
dagli eventi bellici appena conclusi. Al Sud, invece,
l'esatto opposto: poche le industrie, molto spesso
“costole” degli stabilimenti del Nord. Estesa invece
l'economia rurale fondata sull'agricoltura e sullo
sfruttamento delle risorse naturali, molto spesso
costituita su base familiare. Come contraltare, un
analfabetismo diffuso che colpiva quasi il 90% della
popolazione; la mancanza di strutture abitative e
lavorative decenti (con la gente che viveva ancora nelle
grotte naturali, come a Matera); la presenza invasiva di
forme di controllo criminali: la mafia in Sicilia, la
'Ndrangheta in Calabria, la camorra in Campania.
A tutto questo si aggiunga quello che diventerà
l'elemento detonante per l'ordine pubblico: la vivissima
contrapposizione tra “fascisti” e “comunisti”, con una
Democrazia Cristiana che soffiava a pieni polmoni sul
fuoco dell'anticomunismo nel timore di uno sbandamento
del Paese nell'orbita sovietica.
Oggi sentire parlare di questi argomenti può far
sorridere: in un clima fatto di bipolarismo, con
un'Italia in cui sinistra e destra hanno perso molta
dell'identità politica che avevano fino a pochi anni fa,
pensare a fascisti contro comunisti può far venire in
mente soltanto le vicende di don Camillo e Peppone così
come tratteggiate da Guareschi. Ma in quegli anni il
clima era completamente diverso, rovente e appassionato
come mai capiterà più. Ancora negli anni Cinquanta il
governo aveva capito che la stabilità politica del Paese
si sarebbe mantenuta esclusivamente con la forza: se
vuoi che una pianta cresca diritta, la devi sfrondare
dei rami più pericolosi. La Costituzione italiana
garantiva diritti e libertà fino a quei tempi insperate,
ma anche sconosciute: troppa libertà poteva portare a
pericolose derive di instabilità e – magari –
all'avvento di personaggi ambigui che detenessero il
potere in via esclusiva. Non dimentichiamo che Mussolini
era stato fucilato neanche quindici anni prima, che in
termini storici significa l'altro ieri. L'espressione di
questa necessità di controllo si incarnò in uno dei
ministri dell'interno più duraturi della storia: Mario
Scelba. Il fatto che ad un certo punto della sua
carriera politica Scelba abbia rivestito simultaneamente
il ruolo di capo del governo e di ministro dell'interno
la dice lunga sulle reali intenzioni della classe
politica dell'epoca. Del resto, il turn-over di
personaggi politici dalla dubbia moralità, collusi con
il fascismo, cacciati dalla porta per poi rientrare
dalla finestra aveva innalzato la febbre politica
nazionale, con gli ex partigiani che in alcune occasioni
imbracciarono nuovamente le armi dando l'assalto
addirittura al Viminale. Di contro, la politica di
Scelba fu quella di “tagliare le gambe” a tutti coloro
che erano anche minimamente sospettati di simpatie
sinistrorse: a questi fu negato l'accesso ai ruoli
civili e militari della Pubblica Amministrazione e per
chi già vi faceva parte era pronto un “trattamento” di
favore che oggi costituirebbe vero e proprio mobbing:
non te ne andavi? Bene, ecco pronti per te trasferimenti
d'ufficio in sedi disagiate, attribuzione di mansioni
umilianti, isolamento dagli altri colleghi, sfruttamento
in termini di lavoro straordinario non retribuito... E'
facile quindi immaginarsi il clima di sospetto e di
tensione che si sviluppò nei vari ambiti di lavoro: una
molla che fu caricata apposta dai governi centrali che
credevano di poterne conservare sempre e comunque il
controllo, ma che si rivelerà un boomerang con l'avvento
del Sessantotto e della Contestazione.
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La situazione dell'ordine
pubblico in Italia negli anni Cinquanta
vedeva un'aspra contrapposizione ideologica
non solo sul piano politico ma anche su
quello sociale: gli scontri di piazza
iniziarono a farsi sempre più violenti in
una escalation che si pose progressivamente
fuori controllo |
Questo era il panorama sociale e politico dell'Italia
alla fine degli anni Cinquanta. E la Polizia? Per
comprendere esattamente la situazione dell'epoca, va
premesso che la Polizia di quegli anni non aveva niente
in comune con la Polizia di oggi. La stessa gestione
dell'ordine pubblico era diametralmente opposta a quella
attuale, sia per metodo di intervento, sia per mezzi e
armamento impiegati.
La Polizia di quel periodo, chiamata Corpo delle Guardie
di Pubblica Sicurezza, era una struttura militare
strettamente incardinata a livello gerarchico nelle
Forze Armate: ai suoi dipendenti era richiesto uno
spirito di sacrificio fuori del comune fatto di vita di
caserma, permanenza non retribuita, vincoli strettissimi
alla vita personale, trattamento economico al minimo
salariale. Ad essi non era concesso alcun potere
discrezionale, tantomeno la possibilità di produrre
lamentele o organizzarsi sindacalmente. I poliziotti più
anziani molto spesso provenivano direttamente dai ruoli
dell'esercito dai quali erano stati fatti transitare in
assenza di appositi concorsi specifici come personale
“ausiliario” o – come si diceva allora - “aggiunto”. Gli
stessi Ufficiali, mancando ancora un'accademia di
Polizia, erano ufficiali dell'esercito formati secondo
quel tipo di mentalità che anche a livello
tecnico-operativo si discostava completamente dalle
prerogative richieste alla Polizia soprattutto in tema
di ordine pubblico. Nelle manifestazioni di piazza
mancava oltretutto un collegamento tra i manifestanti e
i funzionari di Polizia come avviene oggi: per i primi
esisteva solo l'obbligo di comunicare al Questore
l'intenzione di effettuare un corteo o uno sciopero,
sottoposti a una valutazione discrezionale da parte di
quest'ultima Autorità. Ogni altra forma di dialogo non
solo non era prevista, ma non era nemmeno cercata. I
Reparti “Celere” impiegati molto spesso non scendevano
nemmeno in piazza ma facevano sosta in questura o
all'interno dello stesso reparto, pronti a intervenire
solo se c'era da reprimere con la forza ogni esuberanza
dei manifestanti. In questa ottica, ben si comprende
come il margine di rischio per cui una manifestazione
inizialmente tranquilla poteva scaturire in cruenti
scontri con l'impiego addirittura delle armi da fuoco.
Un esempio pratico: solo dopo i fatti di Reggio Emilia
si comprese l'inutilità di dotare ogni singola guardia
anche dell'arma lunga, vale a dire del mitra.
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Lo spiccato inquadramento
militare del Corpo delle Guardie di P.S.
imponeva ai suoi appartenenti il dovere di
assoluta subordinazione gerarchica |
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La
gestione dell'ordine pubblico privilegiava
metodi di pura repressione: i singoli
militari venivano dotati anche dell'arma
lunga |
Per analizzare correttamente i fatti di Reggio Emilia
dobbiamo necessariamente partire da ciò che accadde a
Genova il 30 giugno 1960. Il clima di tensione che
caratterizzava l'ordine pubblico fino a quel giorno
aveva subìto un crescendo di acrimonia tra le Forze di
Polizia e i manifestanti. La Celere aveva già avuto
feroci scontri in prevalenza in ambito rurale; alcuni di
questi erano sfociati anche in scontri a fuoco. Ora,
perché ricorrere all'uso indiscriminato delle armi? Oggi
un simile comportamento significherebbe quanto di più
illogico, barbaro e terzomondista per uno Stato
democratico: in una parola, sarebbe il fallimento
dell'ordine pubblico. Ma in quegli anni a livello
operativo mancavano protocolli di intervento
predefiniti. E soprattutto, mancava uno specifico
addestramento. Le cariche avvenivano esclusivamente a
bordo delle jeep scoperte e dei gipponi Dodge: erano i
famosi “caroselli” con i quali la Polizia intendeva
innanzitutto impressionare e spaventare i rivoltosi
costringendoli a disperdersi: un sistema già collaudato
in Gran Bretagna e importato in Italia da un colonnello
del Governo Militare Alleato. Tutto questo andava bene
fintantoché i manifestanti si disperdevano senza opporre
più di tanto resistenza. Ma cosa succedeva quando questi
ultimi iniziarono a reagire violentemente con lanci di
pietre, uso di bastoni, impiego delle prime bombe
incendiarie? Fu qui che mancarono disposizioni
specifiche che prevedessero l'uso di sistemi alternativi
alle armi, quali l'idrante, i lacrimogeni, i sistemi di
protezione passiva dei poliziotti come gli scudi e i
giubbotti antiproiettile: il militare che scendeva in
strada era infagottato in pesanti cappotti che
arrivavano sotto al ginocchio (il c.d. trench, usato
anche in piena estate...); disponeva di uno sfollagente
di tipo corto che lo portava troppo a contatto col
manifestante; aveva come unico riparo un antiquato
elmetto metallico privo di visiera e copri-nuca (il
modello 33 di inizio secolo...). E naturalmente aveva
con sé le sue armi: mitra e pistola d'ordinanza. Quando
capitò che alcuni reparti si trovarono con le spalle al
muro, accerchiati dai manifestanti inferociti, qualcuno
perse la testa e sparò.
Torniamo a Genova, giugno 1960: siamo in pieno governo
Tambroni, un monocolore DC che si manteneva in carica
grazie all'appoggio esterno del M.S.I. e dei monarchici:
l'ultima spiaggia per non affidare il Paese ai
socialisti di Pietro Nenni, ma quel tanto che bastava
per accecare dalla rabbia le centinaia di migliaia di
antifascisti in giro per le città italiane. Genova, poi,
vantava da sempre una tradizione antifascista ben
radicata: quando il capoluogo ligure venne molto
“sapientemente” scelto dal Movimento Sociale Italiano
come sede di un convegno nazionale, la cittadinanza
insorse. Genova era medaglia d'oro alla Resistenza e
vedere un ex prefetto repubblichino, Emanuele Basile
(responsabile della deportazione nei campi di
concentramento di tanti concittadini) parlare dal palco
di quella città era un oltraggio insostenibile. Gli ex
partigiani, appoggiati dalla popolazione e dalla nutrita
comunità dei portuali, iniziarono a picchettare ogni
angolo del capoluogo ligure; i sindacati di categoria
forse per la prima volta fecero la voce grossa con il
governo, sostenendo che quella manifestazione a Genova
non si sarebbe tenuta. E questo a qualunque costo. A
Roma il governo andò in fibrillazione: mai nessuno aveva
osato trattarlo con tale protervia e arroganza.
L'equazione ribellione = rivolta = minaccia all'ordine
democratico scattò con la rapidità di un lampo e si
concretizzo nell'invio a Genova di migliaia di uomini,
soprattutto dei reparti “Celere”. Ai Carabinieri e ai
militari dell'esercito fu imposta la consegna nelle
caserme in un clima da autentico colpo di stato: mai a
memoria d'uomo si era visto un simile dispiegamento di
forze per una semplice manifestazione. I muscoli
mostrati dallo Stato non fecero altro che innalzare
ulteriormente la tensione, soprattutto tra i “camalli”
genovesi che da sempre avevano mal digerito le
imposizioni statali. Nessuno capì che un passo indietro,
la ricerca di una soluzione alternativa, non sarebbero
stati interpretati come segnali di debolezza, ma di
lungimiranza. Soprattutto, non si capì – o non si volle
capire – che le conseguenze di quella battaglia
avrebbero vincolato tutte le manifestazioni di piazza
per gli anni a seguire.
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Si noti
come anche in piena estate i militari
indossassero ancora gli ingombranti trench
invernali. L'elmetto mod. 33 (qui ancora
dotato della fascia cremisi che identificava
i reparti "Celere") era privo di protezioni
al volto e alla nuca |
Il 30 giugno 1960 Genova è una città sotto assedio:
Polizia ovunque con jeep, idranti, autoblindo,
camionette e mezzi pesanti. Dall'altra parte, un
assembramento di manifestanti iniziato alle prime luci
dell'alba e che alle 10, orario di inizio del corteo
antifascista, aveva superato le centomila unità. Ma
quale fu l'elemento che costituì il vero spartiacque
nella gestione dell'ordine pubblico? Questa è una storia
che pochi conoscono: una storia mai ufficialmente
confermata dal Ministero dell'Interno ma sussurrata a
mezza voce dai poliziotti che quel 30 giugno erano lì.
Il governo, già bersagliato da numerose interrogazioni
parlamentari che avevano avuto ad oggetto proprio l'uso
delle armi da parte della Polizia, dette disposizione
che agli uomini della Celere fossero tolte le cartucce
dai caricatori delle pistole e che i proiettili
venissero loro consegnati ben sigillati in involucri di
cartone che per nessun motivo dovevano essere aperti: al
termine della missione, quegli involucri sarebbero
dovuti essere restituiti intonsi. Le armi cariche furono
lasciate solo agli Ufficiali comandanti dei contingenti.
Una decisione quantomeno scellerata, per non dire
suicida, ma che all'epoca venne voluta come segnale di
improbabile distensione: non dimentichiamo questo
particolare che riprenderemo più avanti.
La battaglia esplose violenta quasi subito: da un lato
una popolazione scesa in strada col sangue agli occhi,
dall'altro la Polizia alla quale erano stati impartiti
ordini estremamente precisi in termini di repressione.
Il bilancio fu di più di cinquanta militari ricoverati
in ospedale con lesioni anche gravi; centinaia di
arresti; una città messa a ferro e fuoco. In piazza De
Ferraris un contingente del Reparto Celere di Padova
agli ordini del capitano Ludei fu disarmato e isolato
da centinaia di manifestanti, molti dei quali con quelle
magliette a righe bianche e blu che divennero il simbolo
della rivolta. L'ufficiale venne quasi annegato nella
fontana della piazza mentre i suoi uomini furono
percossi e feriti anche con l'uso delle famigerate “refie”,
quei grossi uncini metallici usati per scaricare le
stive delle navi. Le foto ci mostrano la jeep della
polizia incendiata, i militari che cercano
un'improbabile salvezza sotto di essa e il
provvidenziale intervento di una quindicina di mezzi che
riuscì a fatica a disperdere la folla. Una frase su
tutte resta da ricordare, me la disse un anziano
maresciallo:
“Fummo fortunati a portare a casa la pelle...”
La città, dopo la sua restituzione ad una calma
apparente, venne presidiata per settimane nel timore di
ulteriori rigurgiti di violenza. Tuttavia la miccia era
stata accesa e le manifestazioni non autorizzate che
sfociarono in disordini si propagarono in tutta Italia
come un incendio.
Licata, 5 luglio 1960.
Nuova manifestazione, nuovi disordini. Stavolta la
Polizia scende in strada armata: il governo Tambroni, il
cui motto continuava a essere “Legge e ordine”, non
poteva tollerare di perdere la faccia con l'opinione
pubblica e con l'opposizione che stava rinfocolando
pericolose polemiche che avrebbero potuto causarne
perfino la caduta. Una Polizia in netta minoranza
numerica, impaurita dalla violenza dei manifestanti e
nuovamente armata apre il fuoco sulla folla uccidendo il
venticinquenne Vincenzo Napoli e ferendo altre 24
persone. In sede parlamentare esplodono violentissime le
proteste, subito zittite dalla maggioranza e dai
missini. A gran voce si chiedono le dimissioni di
Tambroni ma costui continua a tirare dritto per la sua
strada, forte per la mancanza dei numeri necessari alla
mozione di sfiducia, non comprendendo di essere in
realtà ormai giunto al capolinea.
Roma, 6 luglio 1960.
Viene negata l'autorizzazione a una manifestazione di
protesta per i fatti di Genova e di Licata che vedeva
scendere in piazza studenti e lavoratori. La
manifestazione si tenne ugualmente, con decine di
migliaia di persone che scesero per le strade sfidando
apertamente il divieto. La Polizia arrivò anche qui
nuovamente disarmata, stavolta senza nemmeno le pistole
nelle fondine: in questo continuo tira e molla il
governo puntò tutto sulle cariche di alleggerimento e
schierò in campo perfino i reparti a cavallo. I
disordini esplosero violenti e immediati: le cariche
servirono a poco perchè i manifestanti avevano imparato
a disperdersi e a riorganizzarsi, fiaccando fisico e
morale delle Forze dell'Ordine. Gli idranti impiegati
ebbero buon gioco finchè si trovarono su spazi aperti,
ma nulla poterono nelle strette vie alle spalle di Porta
San Paolo. Qui riuscirono a entrare solo i Poliziotti, a
piedi, neanche in auto. E fu proprio qui che accadde il
dramma: una squadra del 1^ Reparto Celere di Roma venne
attaccata su due fronti dai manifestanti che, così
facendo, la isolarono dal resto del contingente. I
militari tentarono di difendersi arretrando verso la
piazza poco distante ma uno di loro, la guardia Antonio
Sarappa, fu letteralmente linciato a calci, pugni e
bastonate: il suo corpo ridotto in fin di vita fu
recuperato grazie all'intervento di altre squadre del
reparto. Il poliziotto morirà due mesi dopo all'ospedale
militare del Celio.
La Polizia si sentì a quel punto abbandonata a se
stessa: siamo ancora lontani da aperte forme di protesta
e insubordinazione che caratterizzeranno il Corpo negli
anni Settanta (diciamo, a partire dall'omicidio della
guardia Antonio Annarumma
[1a] nel 1969), tuttavia all'interno delle caserme
il malumore era palpabile. I poliziotti chiedevano di
sapere in anticipo la tipologia della manifestazione che
sarebbero andati ad affrontare: le loro richieste
cadranno per l'ennesima volta nel vuoto. Si dice che
all'interno dei reparti “Celere” fu ottenuta invece
un'ulteriore esasperazione delle paure dei militari,
prefigurando loro violenze e tensioni ingiustificate ma
che nell'ottica assurda della catena di comando doveva
incattivirli. Anche questo – assieme al disarmo dei
poliziotti – è un elemento da non dimenticare.
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Roma, 6
luglio 1960: una delle pochissime immagini
degli scontri di Porta San Paolo. Gli
idranti disperdono la folla |
Arriviamo a Reggio Emilia, 7 luglio 1960.
E' una pagina triste per tutti. E' un fallimento
dell'ordine pubblico a cui il Corpo di Polizia non può
sottrarsi: lo scrivo sia come cittadino, sia come
poliziotto. Posso solo cercare di offrire una
spiegazione, una delle tante, come tale condivisibile o
meno.
Quel giorno a Reggio Emilia viene indetta una
manifestazione sindacale del Partito Comunista Italiano:
la base sono i fatti di Genova e di Roma, ma sul piatto
della bilancia c'è anche altro: rivendicazioni
salariali, statuto dei lavoratori, tutela della
sicurezza. Di contro esiste il divieto governativo a
qualsiasi tipo di assembramento: è lo stesso sindacato a
percorrere le strade di Reggio con gli altoparlanti
sulle auto, invitando la gente a ottemperare alle
disposizioni. Li hanno visti tutti, i poliziotti giunti
a Reggio Emilia da Padova, Bologna e Milano: sono tanti,
sono imbruttiti; ma quel che è peggio è che sono armati.
A bordo delle jeep, oltre ai manganelli, compaiono
sinistre le canne dei M.A.B.. Il prefetto, con una
decisione personale, concede ai manifestanti come luogo
di riunione la “Sala Verdi”: del resto, pensa, sono
vietati gli assembramenti in luogo pubblico, non le
riunioni in luogo aperto al pubblico. Una sottigliezza
squisitamente giuridica che permette una tardiva valvola
di sfogo della tensione. Tuttavia quella sala aveva una
capienza di circa trecento posti: i manifestanti
previsti erano più di ventimila.... Una “costola” di
loro, circa trecento persone, raggiunge allora il
monumento ai Caduti di piazza della Libertà effettuando
un sit-in pacifico, con canti popolari della Resistenza.
Ma gli assembramenti sono vietati, pacifici o meno essi
siano. Immagino la richiesta pressante di disposizioni
del dirigente dell'ordine pubblico, il vice questore
Giulio Cafari Panico; immagino la frenesia di quei
momenti, nella consapevolezza che una decisione
avventata sarebbe stata deleteria per la stessa
stabilità del Paese. Non sapremo mai cosa accadde ai
vertici della catena di comando; non sapremo mai quali
ordini furono impartiti da Roma. Sta di fatto che alle
16:45 il vice questore Cafari Panico ordina alla Celere
di disperdere la folla. Partono prima gli idranti, poi
le camionette. La gente, incredula, fugge dalla piazza
ma all'incredulità subentrò subito la rabbia: raggiunto
un cantiere edile nell'isolato San Rocco, i manifestanti
si impossessarono di tutto ciò che trovarono: assi di
legno, bastoni, tubi metallici, pietre... E reagirono.
E qui, di fronte all'evidenza delle prove, la Polizia
non può che calare il capo. Sì, perchè di quei fatti è
stato inciso un disco: uno di quei vecchi 33 giri in
vinile in cui fu trasposto fronte-retro il sonoro di
quelle cariche. L'ho sentito personalmente: fa venire la
pelle d'oca anche a me che di manifestazioni di piazza
brutte e cattive me ne sono sciroppate tante. Si odono
le sirene delle camionette della Celere: arrivano rapide
in piazza e subito aprono il fuoco con i lacrimogeni. Un
sordo “pum.. pum..” evidenzia l'uso del moschetto TS per
il lancio dei candelotti. Urla, urla di gente che dice
di smetterla, un “assassini” gridato più per paura che
per offendere. Ma fino a qui normale amministrazione. Il
peggio arriva dopo neanche due minuti dall'inizio delle
cariche: e sono le raffiche di mitra. E' un
inconfondibile gracidio di brevi raffiche, tre-quattro
colpi, subito accompagnato dal “tleng – tleng” dei
proiettili che sbattono ovunque: sui cornicioni, sulle
finestre, sulle colonne
[2]. Ancora urla, stavolta disperate: “Basta,
basta!” grida qualcuno. A terra c'è un uomo, un ragazzo
di 35 anni: Afro Tondelli, un operaio delle Officine
Meccaniche Reggiane. Un testimone, sentito agli atti
processuali, dichiarò di avere visto un poliziotto
scendere da uno degli idranti, accucciarsi, prendere la
mira e sparare con la pistola
[3]. Il disco prosegue con l'acuto sibilo della
sirena dell'ambulanza, molto più lacerante di quello
delle camionette, mentre tutto attorno si continua a
sparare. Poco distante testimoni videro un ragazzino di
22 anni, Lauro Farioli, staccarsi dal gruppo e muovere
pochi passi con le braccia alzate verso un cordone di
Polizia: parte una raffica che lo abbatte
[4]. Marino Serri, 41 anni, grida la sua
disperazione con un “Assassini!” immortalato nell'audio:
viene immortalata anche la raffica di tre colpi che lo
uccide.
Ancora un morto in piazza Cavour: Ovidio Franchi, 19
anni, la vittima più giovane di quella giornata di
follia. Colpito all'addome, cerca di rifugiarsi in un
portone aiutato da un amico. Si narra di un “individuo
in divisa” che li raggiunse sparando a entrambi
[5].
Il disco prosegue con l'altoparlante che invitava la
gente ad abbandonare la piazza, che la manifestazione
era finita. Ma soprattutto i più giovani non ne vollero
sapere. Solo allora la Polizia venne ritirata dalle
strade. E solo allora ci si accorse di un altro ferito
grave: Emilio Reverberi, che morirà in ospedale poche
ore dopo.
In tre quarti d'ora di follia furono esplosi più di 500
proiettili calibro 9 lungo: erano i proiettili dei MAB.
Dall'ospedale cittadino arrivò una delle testimonianze
più orribili da parte di un medico:
"In sala operatoria c'eravamo io, il professor Pampari e
il collega Parisoli. Ricordo nitidamente quelle
terribili ore, ne passammo dodici di fila in sala
operatoria, arrivava gente in condizioni disperate.
Sembrava una situazione di guerra: non c'era tempo per
parlare, mentre cercavamo di fare il possibile
avvertivamo, pesantissimi, l'apprensione e il dolore dei
parenti".
[6]
|
Le rare immagini di Reggio
Emilia. A partire dall'alto, le prime
cariche in piazza della Libertà, il
massiccio uso di lacrimogeni e il tragico
epilogo: si cerca di prestare soccorso a
Afro Tondelli |
Ma quel giorno non si sparò solo a Reggio Emilia. In
altre manifestazioni a Napoli, Modena, Parma, Catania e
Palermo vi furono altri caduti tra i civili. Non serve
altro per capire la situazione: per restare in sella al
governo, Tambroni paventò trame occulte internazionali
legate a un misterioso viaggio di Togliatti in Unione
Sovietica. I patetici tentativi di addossare ad altri la
responsabilità per la fallimentare gestione dell'ordine
pubblico in Italia prolungarono di qualche giorno
l'agonia del governo. Tambroni rassegnò le sue
dimissioni nelle mani del presidente della Repubblica
Gronchi il 19 luglio 1960. Il 22 dello stesso mese venne
affidato ad Amintore Fanfani il compito di formare il
nuovo governo, il primo di centro sinistra che impresse
una svolta in senso evolutivo sia all'ordine pubblico,
sia al Corpo delle Guardie di P.S.
E torniamo a noi. Non è stato facile affrontare questo
tema: non siamo alla ricerca di giustificazioni di
fronte all'ingiustificabile. Abbiamo soltanto cercato di
offrire uno spaccato storico del nostro Paese talmente
diverso da quello attuale da rendere ancora più
inconcepibile il ricorso a tanta forza sulle piazze
italiane. L'unico movente che mi sento di ricavare da
tutto ciò è fatto di una miscela pericolosissima di
paura e impreparazione: due elementi che, se presi da
soli, non causano danni, ma che se messi assieme
diventano distruttivi. Un po' come la nitroglicerina.
La paura. Paura politica di perdere la conduzione del
Paese; paura di una rapida involuzione a sinistra, con
lo spettro dei “comunisti mangiabambini” a turbare i
sonni di ministri e parlamentari; paura di perdere il
controllo delle piazze, con rigurgiti anarchici e
rivoluzionari che – chissà – avrebbero potuto magari
disintegrare la neonata democrazia; paura a livello
operativo, con le Forze dell'Ordine da un lato ostaggio
di un regolamento obsoleto, dall'altro deliberatamente
tenute nell'ignoranza più assoluta; paura che i
poliziotti si potessero fare una loro idea personale
dell'ordine pubblico, se è vero che ad essi veniva
perfino vietata la lettura di particolari quotidiani
ritenuti troppo faziosi, magari arrivando pure a
schierarsi con quella parte d'Italia che si voleva a
tutti i costi reprimere.
L'impreparazione. Impreparazione politica nel saper
dialogare con le parti sociali, anche le più estreme;
impreparazione nel saper valutare i malumori della
gente, considerata improvvidamente come un branco di
pecore con le quali il pastore doveva usare i suoi cani;
impreparazione professionale nell'impiego della forza
pubblica, con la mancata adozione di protocolli
d'intervento e con la mancata impartizione di ordini
chiari e precisi tale da lasciare alla libera iniziativa
dei singoli funzionari e ufficiali decisioni che
esorbitavano dalle loro competenze.
Null'altro si può aggiungere a una simile storia. Si può
solo cercare di comprenderla, mai di dimenticarla.
Perché il bello della storia è che essa è sempre lì: tu
la puoi sottovalutare, trascurare, cacciare in un
angolo. Ma prima o poi tornerà a fare sentire la sua
voce. In un modo o in un altro.
Per la redazione Polizianellastoria: Gianmarco
Calore
Note
Tratto da
http://www.polizianellastoria.it/
[1a]
La guardia Annarumma, in forza
al Terzo Reparto Celere di Milano, venne brutalmente
assassinata il
19 novembre 1969
nel corso di violentissimi scontri scaturiti al termine
di una manifestazione nei pressi del Teatro Lirico di
Milano. Nel corso della famigerata “battaglia di via
Larga”, il militare (che si trovava alla guida di una
jeep) fu circondato e colpito alla testa con un tubo in
acciaio del tipo usato per le impalcature. I tentativi
di depistaggio che insinuarono che la morte del
poliziotto fosse stata causata in realtà dallo scontro
della propria jeep con un altro veicolo della Polizia
scatenarono le prime forme di aperta rivolta all'interno
delle caserme: Milano, Torino, Bologna... Gli atti di
palese insofferenza e insubordinazione si susseguirono
in un crescendo di insofferenza all'interno del Corpo
delle Guardie di P.S.: per la prima volta si iniziò a
parlare apertamente della smilitarizzazione della
Polizia.
[2]
Testimonianza di Giuliano
Rovacchi – atti processuali e stampa.
[3]
Per questo omicidio verrà
indagato la guardia Orlando Celani, successivamente
assolto per insufficienza di prove nel 1964. Fu
processato anche il vice questore Cafari Panico e
anch'egli fu assolto per non aver commesso il fatto.
[4]
Testimonianza di alcuni
manifestanti – atti processuali e stampa.
[5]
Ibidem.
[6]
Testimonianza del dott.
Riccardo Motta, chirurgo – atti processuali e stampa. |