Dal Welfare alla
carità
di Nadia Urbinati
A partire da quella
francese di fine Settecento, le rivoluzioni hanno dimostrato di poter avere
sia lo sguardo rivolto al futuro sia lo sguardo rivolto al passato; le prime
per cercare di realizzare l'utopia della società giusta, le seconde, che in
genere seguono al fallimento delle prime, per ripristinare o istituire
ordine e gerarchia. Quella che stiamo subendo in Italia oggi è del secondo
tipo. Per questo sarebbe opportuno chiamarla con il suo vero nome: non
rivoluzione ma contro-rivoluzione o meglio ancora restaurazione, visto che
questo governo ha dato alla sua politica l'aura della normalità, anzi
premunendosi di tradurre la politica dell'eccezione in uno stato di
normalità.
La questione non
riguarda soltanto l'uso dell'esercito per funzioni di ordine pubblico, o la
violazione dei diritti fondamentali per i non cittadini; essa riguarda anche
la politica economica. La manovra approvata in soli 9 minuti dal consiglio
dei Ministri ha lanciato un messaggio eloquente e forte: non esiste più uno
stato sociale; d'ora in poi esisteranno solo politiche di soccorso per i
bisognosi. Il che puó così essere tradotto: non ci sono più cittadini uguali
o che hanno un egual diritto ad accedere ai servizi con i quali soddisfare
quei bisogni che la Costituzione definisce come primari; ci sono invece
cittadini che possono fare da sé e cittadini che non potendo far da sé sono
aiutati dallo Stato.
Per la prima volta
dalla fine della Seconda guerra mondiale ci saranno italiani con la tessera
di povertà. Per la prima volta nella storia della democrazia italiana ci
saranno cittadini dichiarati per legge poveri che lo Stato tratta
diversamente dai non bisognosi o dagli abbienti. Per la prima volta
dall'entrata in vigore della Costituzione, l'eguaglianza democratica – che
gli articoli 2 e 3 sanciscono impegnando istituzioni e cittadini a
rispettare – è stravolta e gravemente compromessa proprio nel suo
fondamento, ovvero nel riconoscimento del principio di eguale dignità di
tutti i membri del corpo sovrano.
Con questo
stravolgimento gravissimo l'idea che ha accompagnato la rinascita politica
del dopoguerra – la cittadinanza come grappolo di diritti civili, politici e
sociali – viene a cadere. La restaurazione è a tutto tondo quindi,
un'organica politica che scientemente mira a cambiare fondamenti e principi
della democrazia italiana, decretando che non tutti i cittadini saranno
d'ora in poi eguali nelle opportunità sociali.
A voler essere
corretti, l'attacco alla cittadinanza sociale era già cominciato, con
l'aiuto degli stessi governi di centro-sinistra. Per esempio, il diritto
all'educazione è da diversi anni ormai sotto sistematico e diretto attacco
nel nome della libertà dell'offerta educativa, ma in realtà con l'intento
nemmeno troppo velato di dirottare soldi pubblici alle scuole private e
religiose. E che dire del diritto costituzionale alla salute? Non è forse
stato manomesso gravemente con le politiche federalistiche e poi con quelle
delle convenzioni con le cliniche private (altro stratagemma per
sovvenzionare il privato) e della monetarizzazione delle prestazioni
mediche?
Ora, il governo si
appresta a mettere la classica ciliegina sulla torta: istituisce le tessere
di povertà, premunendosi di raccomandare che verrà garantito l'anonimato dei
possessori, quindi ammettendo che la conoscenza della condizione di povertà
può generare discriminazioni e ulteriori ingiustizie (proprio per evitare
questo rischio i costituenti avevano istituito i diritti sociali). L'Italia
ha da oggi cittadini di serie A e cittadini di serie B; e sopra tutti,
un'oligarchia che prospera a spese dell'intera società, facendo leggi
funzionali ai propri interessi e bisogni, e quindi estendendo
esponenzialmente i propri privilegi mediante l'uso strumentale non solo
delle procedure ma anche dei poteri dello stato, in primo luogo quello
giudiziario (ammoniva Montesquieu, che lo stravolgimento di questo potere è
il primo grave segno di degenerazione illiberale di un governo). La tessera
di povertà rientra per tanto in un'organica politica di diseguaglianza che
coinvolge tutti i livelli della vita sociale e civile.
Pensare che questa
discriminazione riguardi solo una minoranza e che quindi non debba destare
eccessiva preoccupazione è ovviamente quanto di più improvvido si possa
immaginare, visto che a tutti puó toccare la sfortuna di scivolare giù nella
scala sociale – un'immagine, quella dell'eguaglianza nel rischio di caduta,
invece che nell'opportunità di vivere con dignità, che sempre di più verrà a
far parte del nostro immaginario individuale e collettivo.
Del resto, come il
ministro Tremonti ci ricorda, la sfortuna è una condizione dalla quale
nessun essere umano può tutelarsi completamente, dovendo tutti noi pagare
per il peccato originale. E la tessera di povertà è lì a dirci che lo Stato
ha definitivamente abbandonato l'illusione che, se non proprio sconfitta, la
sfortuna potrebbe almeno essere neutralizzata. Ma era la democrazia sociale,
quella a suo modo rivoluzionaria che il grande T. H. Marshall aveva
teorizzato nel 1950, a coltivare quell'ispirazione, a voler costruire un
futuro nel quale tutti i cittadini potevano godere concretamente di eguale
dignità e libertà. Oggi, l'ideologia egemone della compassione per i poveri
e del privilegio per i potenti ci annuncia (e decreta) che quell'utopia è
sepolta. Come altre volte in passato, la restaurazione detta la sua legge: i
ranghi si riorganizzano, le diseguaglianze rinascono.
La Repubblica, 20 giugno 2008
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