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Tricarico (Mt)

 

L'eternità a Tricarico

Nelle opere del poeta lucano Rocco Scotellaro la "schiavitù contadina" diventa paradigma del gioco della Storia e il simbolo di un'universale fratellanza.

Spunta da un famoso quadro di Carlo Levi il volto di Rocco Scotellaro che la morte precoce ha fissato per sempre nella gioventù. È un volto piccolo, da ragazzo del Sud: solo gli occhi sono grandi, penetranti, spalancati, il mento è sfuggente, il sorriso incrinato da una smorfia breve che da a tutto il volto un'aria di timidezza, di esitazione. Il poeta di Tricarico si affaccia, quasi si sporge dalla tela, come i volti dei ritratti del Fayum, dipinti in Egitto duemila anni fa. In un'altra immagine, una fotografia, lo si vede posare con in testa il cappello di carta di giornale con cui i muratori, quando l'Italia era il Paese delle gru e delle scavatrici, si riparavano dal sole. È un po' di sbieco, la faccia sembra ancora più piccola, il sorriso è sempre spezzato. Guardare quella faccia sparuta è un po' come rileggere i suoi versi più famosi, quelli di È fatto giorno, una poesia del 1952 che da il titolo all'omonima raccolta pubblicata postuma da Carlo Levi:

È fatto giorno, siamo entrati in gioco anche noi

con i panni, le scarpe e le facce che avevamo

Il gioco di cui parla Scotellaro è la Storia e gli uomini di fatica del Sud contadino l'hanno sempre e soltanto subito. Ora quel noi fatto di esclusi, di contadini illetterati e schiavizzati dalla terra che lavorano, ma non possiedono, si è deciso a entrare nel famoso gioco per cambiarne le regole ineguali. E soprattutto - poiché il gioco è anche lingua, letteratura, coscienza - si è deciso a parlare.

Tricarico, un paese di 6.000 anime in provincia di Matera, è la sua voce. Quanto ai panni, alle scarpe, alle facce, in un'altra poesia, Scotellaro, si dice convinto che tra duemila anni saranno ancora gli stessi. La storia si muove, ma il mondo contadino resta, come inchiodato nell'eternità dei suoi paesaggi popolosi di voci: il paesetto lucano nell'ombra delle nubi sperdute è una ferita che nel cuore di Rocco Scotellaro, esiliato nella città dove sa che non potrà più farsi un bicchiere contento, non si rimarginerà mai più. Nell'arco dei due versi di È fatto giorno, Scotellaro ha iscritto il suo programma e la sua biografia, la sua poetica e la sua sociologia. Rendendo un inscindibile tutto unico, come poi dirà Carlo Levi, la sua opera incompiuta e la sua breve vita. Ciascuno dei suoi libri postumi, ricuciti dalla devozione degli amici, dal romanzo biografico de L'uva puttanella al racconto sociale di Contadini del Sud, risponde a quel dittico esigente - entrare nel gioco, ma con la propria faccia - e ne sopporta, stoicamente, la contraddizione. Perché, alla fine, la storia cambia anche la faccia degli uomini.

Di Tricarico, dove è nato nell'aprile del 1923, Rocco è il figlio di un calzolaio intrattabile che lo fa studiare per orgoglio: dai frati di Cava de' Tirreni e di Sicignano, poi a Trento che da Tricarico è alla stessa distanza di Marte. Dai frati studia i classici e impara il rispetto che deve a ogni uomo come a un fratello, con la sua faccia e il suo peccato, o con la sua bellezza. Chissà, in altri tempi sarebbe stato un buon predicatore, Rocco Scotellaro: visionario e un po' eretico come i santi del Sud che tanto piacevano a Ignazio Silone. Ma, negli anni Quaranta, la religione dei poveri a cui per istinto aderisce si chiama socialismo e nel 1940 lui si fa espellere dal liceo di Trento per aver partecipato a una manifestazione clandestina antifascista. Nel 1946, il ventitreenne che nel 43' ha riorganizzato le fila del partito socialista a Tricarico, diviene, contro ogni previsione, sindaco del paese. Il sindaco più giovane dell'Italia liberata è portato sugli scudi da un mondo millenario che nell'entusiasmo e nel furore dell'occupazione delle terre vive la sua prima gioventù. I braccianti che passano sotto le finestre del Comune gridano "Viva il sindaco!". Sono increduli, sorpresi, lui è il più sorpreso di tutti.

Scrive, già all'epoca, ma ignora tutto di sé. Le scelte nette lo fanno recalcitrare, ostinato nella vita, come gli asini che raschiano nei sottoscala delle case del suo paese, Rocco è uno che ai bivi si distrae. Il poeta, che poi piacerà a Montale, a Fortini, a Cucchi, scrive le sue poesie strappandole alle pause della lotta e fissandole su ogni foglio volante che gli capita a tiro, sui margini del giornale, sul retro dei volantini, sui pacchetti di sigarette.

Contadina nella fibra profonda, la poesia di Scotellaro, non ha nulla di retorico o di populistico: il suo neo-realismo è solo un equivoco d'epoca. Anche quando parla di scioperi non chiama alla lotta, trascrive le voci paniche di un mondo dove uomo e natura si separano a stento e la fraternità non è un principio astratto, ma uno stato di fatto, spesso scomodo. Di certo, i sogni non durano a lungo, le delusioni sono il sale della coscienza. Nel 1950 è Tricarico a scacciare il suo sognatore disobbediente: i suoi nemici politici gli hanno montato contro un'accusa infamante – “concussione”, il reato dei posteriori milanesotti tangentopolisti, non quello dei rivoluzionari - che poi, naturalmente, si rivela infondata. Persino il giudice istruttore, nella sentenza di proscioglimento, parla apertamente di vendetta politica. Ma, nel frattempo, Scotellaro si fa quarantacinque giorni di carcere, i più lunghi di una vita brevissima. La frattura è consumata, le maiuscole sono cadute, come scriverà nell'Uva puttanella. Il sindaco delle grandi speranze lascia Tricarico da uomo tradito, passando per la seconda porta di casa che mena alla parte a monte del paese. Tra le braccia stringe una borsa che, ai pochi che lo incontrano, lo fa apparire stravagante: è tutto quel che porta nel suo futuro, le sue carte, una nuova identità di scrittore. Passa per il cimitero, poi per la vigna del padre, è un lungo saluto al suo regno perduto, ma carico di un offeso mutismo.

A Roma, città del lungo esilio, dove è costretto a contare il suo tempo con le corse dei tram, scrive: Ho perduto la schiavitù contadina (...) ho perduto la mia libertà. A Portici, dove si trasferisce, lavora con Manlio Rossi Doria, uno degli amici-maestri della prima ora, all'Osservatorio di Economia agraria. Sempre al servizio del Meridione rurale e della sua Basilicata, ma questa volta da intellettuale, da ricercatore. Concepisce il progetto di Contadini del Sud, che è il proposito di sempre: far entrare i cafoni nel gioco, non più oggetti, ma soggetti di storia. Di più: autori di un unico libro in cui si raccontano. Pensa a una polifonia di storie di vita, raccolte dalla voce viva dei protagonisti, poi trascritte su carta, ma rispettando il loro modo di esprimersi, perché quella lingua è la misura di tutto il paesaggio, degli uomini e delle cose di quella regione. Realizza cinque interviste, ma la morte arriva prima del libro.


Articolo tratto da Ulisse, rivista di bordo dell’Alitalia, di Attilio Scarpellini, giornalista e saggista, Speciale Basilicata Cultura, 2004, trasmessoci dalla sig.ra Giulia Libutti cui vanno i ringraziamenti del sito

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