Pensiero Meridiano

In treno con il tricolore

In viaggio verso Torino: dialogo con i passeggeri sull'unità d'Italia e l'attuale disgregazione del Paese

di Paolo Rumiz

La notte a Besozzo ho avuto tempo di leggere e capire, mentre le stelle si spegnevano una a una. Esiste un Garibaldi sconfitto, di cui non si parla, e solo capendo quella sconfitta e quell'umiliazione, è possibile intendere l'Italia suddita di oggi. Sul treno che mi porta a Torino, la Grande Madre d'Italia, decido che d'ora in avanti non mi basteranno più gli assalti di Bixio, le cronache trionfanti di Cesare Abba, Alberto Mario e Cesare Bandi. Non più, ora che ho divorato in una notte i ricordi di Giuseppe Bennici, garibaldino condannato ai lavori forzati per aver partecipato alle spedizione del 1862, quella finita col ferimento di Garibaldi sull'Aspromonte.

Attenti, non troverete questa storia in nessun manuale, in nessuna celebrazione. Nel 1860 Bennici è camicia rossa, poi passa all'esercito. Ma quando rischia di essere mandato a combattere contro il suo ex generale che risale il Sud al grido di "Roma o morte", diserta e si ricongiunge a lui. C'è lo scontro in Calabria, ed è la fine. Viene messo ai ferri e scrive: "ora è la prima volta che sofferenze ci sono impartite da italiani". Lo condannano a morte "come un traditore della patria", e intanto vede "trattati con indulgenza i nemici d'Italia, i partigiani dei Borboni, fautori del brigantaggio". Su intervento di Garibaldi gli commutano la pena con i lavori forzati a vita e lo degradano con infamia con altri 53 reduci di Aspromonte. È rasato brutalmente al punto da sanguinare, incatenato e spedito a Portolongone. In galera all'inizio non ci sono nemmeno i pagliericci. È trasferito a Nisida, dove una notte rischia di essere ucciso dai camorristi; poi nel Cuneese, dove il direttore del carcere è un ex borbonico che gli infligge altre pene: poco cibo, freddo, sporcizia, lettere ai genitori buttate via. Una sera vede "un bravo soldato di Palestro piangere per la fame". Racconta: un giorno, "transitando ammanettati per Saluzzo, davanti al monumento a Pellico, ci fu d'ineffabile rammarico pensare che, nella terra nativa, avevamo trovato aguzzini pari se non peggiori di quelli dello Spielberg".

L'unità fu anche questo. Tragedia, scontro tra italiani. Punizione di patrioti e promozione di generali inetti. Trasformismo, furbizia dei voltagabbana e dei raccomandati. Quello di Bennici è l'urlo di uno sconfitto: "La reazione in Italia cominciò ad Aspromonte e finirà in Vaticano, quel giorno in cui un legato di Vittorio Emanuele sottoscriverà un concordato col cardinale Antonelli". Finirà più o meno a quel modo, solo che al posto di re Vittorio ci sarà "l'uomo della provvidenza", Benito Mussolini. E ancora oggi in Italia, caso unico in Europa, lo stato laico resta un processo incompiuto.

Ho una coccarda tricolore sulla giacca. Serve a dichiarare la mia identità in assenza di camicia rossa, rimasta sporca in valigia. In compenso la camicia bianca che indosso è diventata rosa, perché l'ho lavata assieme all'altra. E in lavatrice il rosso è come la scarlattina. "Come mai ha il trico?" mi chiede un quarantenne con accento milanese seduto di fronte a me, mentre il treno passa le risaie del Vercellese. Dice "trico" come se dicesse "rinco". Rispondo un po' piccato che sono garibaldino, e sto facendo un viaggio italiano. A quel punto un altro passeggero stacca gli occhi dal giornale e mi dice con un sorriso: "Faccia presto a fare questo suo viaggio, fin che l'Italia esiste". Resto senza parole, e mi torna in mente che a Trieste, giorni fa, anche un serbo mi ha detto la stessa cosa, pensando al suo "mondo ex". Gli chiedo cosa intende dire. Lui: "No, guardi non penso alla secessione. Penso alla disgregazione. Tutte le regioni contro il Centro. C'è rabbia sorda in giro, gli enti locali non hanno più un soldo, le aziende chiudono, e il peggio deve arrivare. Ma non se ne parla". È un industriale del mobile di Pordenone e ha in corpo l'energia di chi si è fatto da sé. Partecipa appassionatamente alle cose della politica. Talvolta scrive sui giornali. L'uomo giusto per capire. Il vituperato "trico" è stato un'esca perfetta. L'industriale dilaga: "Una volta uno diceva "territorio" e tutti pensavano "Italia". Oggi dici "territorio" e pensi al locale, anzi peggio, al localismo. Nessuno pensa più a rifondare la Repubblica perché ormai tutti ragionano in piccolo, anche a sinistra. Anche Chiamparino vede al massimo una federazione di conurbazioni metropolitane. E intanto il territorio tanto mitizzato è lasciato a secco. Per pagare gli impiegati, i sindaci sono obbligati a svendere le loro acque, persino il loro paesaggio, ai privati. E a 150 anni dall'unità anche i potentissimi governatori sono rimasti al verde. Così si torna alle parrocchie, alla microsolidarietà delle casse rurali... O si finisce come la Grecia".

La giornata è magnifica, serena di un blu cobalto, e sullo sfondo delle risaie compare il Monte Rosa. "Questa - sottolinea il mio incontenibile compagno di viaggio - è la quiete prima della tempesta. Abbiamo creato una generazione che è pronta a rubare per avere un'automobile nuova. La saggezza sparagnina e ambientalista dei nostri vecchi è dimenticata. Guardi l'America, ha talmente tanti debiti che ha già impegnato il Pil dei prossimi quattro anni. È un decennio che dico "ce la caveremo". Ora per la prima volta dico: "forse non ce la caveremo". Ci vorrebbe uno come il suo Garibaldi per tirarci fuori dalla merda".

Ma lei, chiedo, che ne pensa di Garibaldi? "Dà fastidio perché ricorda un'unità possibile. Ma anche perché ci ricorda la libertà in un momento in cui l'abbiamo persa". Il pordenonese racconta che un nuovo rumore ha invaso il Nord, quello dove la Lega trionfa. È il ticchettio che si sente la sera, in tanti negozi, a serrande abbassate. Il registratore di cassa che emette scontrini su merce inesistente per riciclare denaro. Ripenso a quanto mi ha detto un industriale qualche giorno fa a Perugia, quando ho incontrato i primi garibaldini del viaggio. Disse che c'era uno scontro in atto tra evasori e onesti, una resa dei conti. Oggi guardo in fondo alla pianura le Alpi che scintillano e mi dico che non è possibile, l'Italia è una meraviglia e la guerra non può finire col trionfo dei primi.


Paolo Rumiz, La Repubblica 13 agosto 2010

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