In Sicilia il tempo di Natale è tradizionalmente connotato da una serie di cerimonie religiose, pratiche devozionali, usi alimentari e manifestazioni ludiche. Tra le tradizioni natalizie non si può fare a meno di ricordare le tradizioni canore e musicali e le rappresentazioni drammatico-musicali che ad esso si accompagnano. La tradizione canora musicale più avvertita, almeno dal punto di vista della religiosità certamente era, e forse è ancora, la novena che forniva anche un'occasione di aggregazione in cui parenti e amici e vicini di casa si riunivano a far festa.
Le novene di natale consistevano in lunghi canti che in novi iurnati, precedenti la notte di Natale, narravano le vicende della natività: l'Annunciazione, la Fuga in Egitto e la Nascita. Era tradizione che in prossimità del Natale si preparassero accanto all'uscio di casa degli altarini riccamente addobbati con fiori, frutta (aranci, fichi secchi, noci ...) e verzura, segno tangibile dell'intensità della devozione. Le novene erano soprattutto recitate dai cantastorie ciechi (gli orbi) a richiesta dei clienti (i parrucciani) sia nelle case ma soprattutto per le strade davanti agli altari. Il gruppo dei cantori era solitamente costituito da due persone: un violinista-cantore cieco e un chitarrista che serviva da accompagnamento. Dall'ottocento in poi le novene, come riporta Pitrè, furono eseguite anche dai ciaramiddari (zampognari) e da altri suonatori (chitarra, cerchietto) non ciechi. I testi erano tramandati oralmente e spesso si rifacevano ai vangeli apocrifi, quelli che erano stati banditi dalla chiesa fin dal medioevo. Fu solo alla fine del XVIII secolo che cominciarono ad essere messi per iscritto e sono arrivati fino a noi. Alla fine della "cantata" il parrucciano offriva ai suonatori pane, frutta secca, vino e qualche soldo (chi negli anni cinquanta era bambino forse ricorda ancora il passaggio per le strade di tali personaggi vestiti da pastore che si fermavano davanti alle case a cantare la novena). La richiesta della ricompensa spesso faceva parte della canzone che terminava con un verso del tipo:
È nasciutu lu bammineddu
Datimi lu carrineddu (carlino, moneta dell'epoca), oppure
È finuta la sunata
Li dinara e li cucciddata
Qui di seguito infine riportiamo il testo di una delle cantate registrata dall' ultimo cantore cieco di Palermo, Zu Rusulinu, morto nel 1975. (Riportata da E. Guggino, 1980)
Sennu ddà la stidda iunta
Tutta a picu si furmau
Ribassannu la so punta
Chidda grutta cummigghiau.
Poi cumanna a tanta genti
Cui di supra e cui di sutta
Pi vidimi chiaramenti
Cui ci abita nna dda grutta
A lu trasiri ri dda genti
Riturnaru spaventati
A li tre re di l'orienti
E cci rissiru: "ammirati!"
Trasi Gaspari e dicìa:
"O me Diu riccu trisoruti
purtavu da parti mia
stu vasettu chinu d'oru
Badassari cu dicoru:
"Ome Diu t'aiu purtatu io
l'incensu pi ristoruchi sarà sacramentatu
Miccioni umili egratu:
"O me Diu di tanta altizza
iu la mirra l'aiu purtatu
servirà pi tua amarezza
la so matri cu pristizza
cci sfasciò lu figghiu raru
li tre re cu cuntintizza mani e peri
cci vasaru gloria gloria
ca nasciu
lu veru uomu e veru Diu
I cantastorie ciechi di Palermo
La memoria dei cantastorie ciechi ha radici lontane nel tempo derivando da quella dei mitici Vati cantori. Ciechi erano Omero e Demodoco, veri cantastorie, così come ciechi erano Fineo e Tiresia, indovini. La cecità degli aedi e degli indovini è rappresentata in una serie di miti greci come un dono divino o, comunque, di natura sacrale : l'ispirazione e la veggenza. Il poeta come l'oracolo ha gli occhi chiusi per le cose terrene ma aperti ad una realtà diversa. Con il passare dei secoli, il cantastorie cieco ha perso queste nobili qualificazioni. Il suo mestiere cominciò ad essere dettato dalla necessità, vista la limitata capacità lavorativa, di procurarsi da vivere in maniera decorosa. In periodo classico gli aedi erano rispettati e onorati, pensiamo a Demodoco alla corte dei Feaci o a Femio alla corte di Itaca o ad Omero che li rappresenta tutti. Il loro repertorio era costituito sia da miti e gesta d'eroi che da canti e musiche profane. Queste caratteristiche non sono cambiate nel corso dei secoli è variata invece la collocazione sociale di questi cantori. I ciechi erano suonatori ambulanti e mendichi e dal medioevo in poi questo è stato lo stereotipo del cantastorie cieco sebbene la loro presenza sia stata documentata anche nelle corti e nei palazzi signorili. La professionalità e la bravura di questi suonatori, avviati fin da piccoli al mestiere sotto la guida di un maestro , li rendeva ambiti per le feste dei signori. La maggior parte di loro viveva tuttavia come suonatore ambulante, accompagnato da un cane o da un ragazzo vedente ma ancor più povero di lui.
A Palermo tra il 1660 ed il 1665 avvenne però un cambiamento: per iniziativa e sotto la guida dei padri gesuiti e grazie alle donazioni di alcune famiglie, i ciechi poterono unirsi in una congregazione intitolata all'Immacolata Concezione con sede presso la Casa Professa di Palermo. Numerose erano le congregazioni sorte attorno ai Gesuiti con sede alla Casa Professa tra le quali quella dei nobili, dei sacerdoti, degli artefici, degli operai e parecchie altre. La loro vita fu assai tormentata in quanto subirono sempre le alterne fortune dei Gesuiti. Due date importanti e ben documentate nella storia della congregazione dei ciechi sono il 14 agosto 1755 quando essa si diede o rielaborò uno statuto ed il 30 novembre 1767 giorno in cui fu eseguita l'espulsione dei Gesuiti. Due mesi prima, infatti, la giunta straordinaria degli abusi aveva emesso un giudizio inequivocabile sull'operato della Compagnia di Gesù, definendo il suo scopo come "il più mondano, il più avaro, il più torbido, il più inumano, il più fellone" e che "aveva corrotto la gioventù, guastati i costumi, alterata la fede, sovvertito i popoli" (F. Scaduto, Stato e chiesa nelle due Sicilie, 1969; F. Renda, Bernardo Tanucci ed i beni dei gesuiti in Sicilia, 1974) Le congregazioni ad essa legate, tra cui quella dei ciechi, pur mantenendo i loro beni, furono definitivamente allontanate dalla Casa Professa nel 1773, quando, il 21 luglio di quell'anno papa Clemente XIV dichiarò sciolta la compagnia di Gesù. Tuttavia la nostra congregazione riuscì a riprendere possesso di alcuni locali dopo il 1805, quando i gesuiti rientrarono nelle loro sedi essendo stato ripristinato l'ordine (1804), ma è nel 1828 che il loro nuovo statuto, viene approvato da Francesco I. In questo statuto vengono stabilite le regole per l'ingresso nella congregazione: la cecità, i santi costumi, l'uso di uno strumento musicale (in genere violino, chitarra e violoncello o citarruni). Dopo l'accoglienza erano necessari sei mesi di noviziato. Coloro che sapevano soltanto suonare (ma non cantare o comporre versi) dovevano pagare una tassa d'iscrizione di 4 tarì e 2 grani a settimana. I confratelli, una volta ammessi e superato il noviziato potevano guadagnarsi da vivere cantando e suonando per le strade orazioni e storie sacre. Vengono stabilite anche le modalità d'elezione dei superiori e di tutta una serie di figure secondarie e dei loro rispettivi obblighi che rendono l'idea di una società ferreamente costituita e fortemente gerarchizzata. Venivano stabiliti inoltre i benefici di cui godevano i confrati, quali il diritto alla sepoltura, il diritto di assistenza in caso di malattia ed in caso di malattia mortale diagnosticata, il poveretto avrebbe avuto diritto ad "un rinfresco" (per compera di dolci tarì 6). Ma soprattutto, con questo statuto, lo stato limitava l'ingerenza dei gesuiti nelle questioni temporali e liberalizzava la professione di suonatore, abolendo il privilegio vescovile che obbligava i ciechi ad iscriversi alla congregazione per esercitare il mestiere di suonatore ambulante. La congregazione si autofinanziava con i danari guadagnati dai confratelli e versati sotto forma di "contributo volontario" ma in realtà obbligatorio e rigorosamente regolato. Con questo statuto i ciechi raggiungono lo scopo di governarsi autonomamente pur continuando ad usufruire dei locali della Casa Professa con scarsa soddisfazione dei gesuiti che avrebbero voluto che si assoggettassero alle Regole delle Congregazioni di spirito, limitando enormemente le libertà individuali. Da allora gli orbi e i gesuiti furono sempre in guerra.
Ciò che sappiamo sul modo di operare degli orbi a Palermo e sul loro repertorio nel settecento lo dobbiamo soprattutto al Villabianca: solevano cantare e recitare per le strade orazioni sacre ma anche profane e soprattutto improvvisare versi nelle feste per i santi (triunfi) e "canzoni ridicolose" per le feste profane quali lu curnutu contentu, la storia del meschino, il demonio tentatore, ecc. I ciechi inoltre venivano chiamati per qualche sonu, cioè in occasione di feste da ballo. In questi casi esibivano un repertorio notevolissimo che comprendeva balli come la napulitana, la diavulichiu, la 'ngrisina, la lannisi, la salariata, lu trasi e nesci, lu mainettu ecc. Gli orbi aprivano anche lo spettacolo dell'opera dei pupi. Tra le cantate infine che gli orbi diffondevano, alcune narravano fatti recentemente accaduti. Questi cantastorie fungevano quindi anche da "informatori" e "portatori di cultura popolare". Interessanti in tal senso sono le testimonianze e le canzoni composte e diffuse all'indomani del 1860, raccolte da Salvatore Salomone Marino. In esse si cantava il saccheggio di Palermo, quello di Carini, i morti di Milazzo, la battaglia di Calatafimi ecc. I cantori erano in questo caso dei veri e propri rapsodi, come quelli dell'antica Grecia. Mentre nel resto d'Italia, dal medioevo ad oggi la figura del cantore cieco non risulta mai ben configurata tra il gruppo dei cantastorie, frammista com'è a quelle dei giullari, cantori di gesta, buffoni, saltimbanchi , in Sicilia e in particolare a Palermo, al cantore cieco è rimasta affidata una peculiare tradizione sicché tale figura, nonostante le frequenti prestazioni profane, rimane fortemente legata ad occasioni di carattere religioso: orazioni, novene e triunfi e mantiene come strumento privilegiato il violino. Le storie dei paladini infatti erano tematica esclusiva dei contastorie e le storie di cronaca, di cantastorie che le descrivevano con l'aiuto di cartelloni vivacemente dipinti, si accompagnavano con la chitarra muovendosi di paese in paese in occasione di fiere e feste e si guadagnavano da vivere vendendo i foglietti con le storie dipinte. Non dobbiamo dimenticare poi che l'esistenza di una congregazione saldamente strutturata faceva si, che per statuto, ogni nuova composizione, religiosa o profana, veniva sottoposta al giudizio dei superiori dei consultori e di tutti i confratelli e spesso le nuove composizioni erano frutto dell'elaborazione in chiave popolare di un patrimonio di conoscenze letterarie (alla faccia del luogo comune dell'ingenuità e della spontaneità!). L'abilità nell'uso di uno strumento musicale non era mai spontanea, ma, anche se appresa da piccoli "ad orecchio" era poi frutto di uno studio assiduo sotto la guida di un maestro. Nella congregazione, tuttavia non vi fu mai vi fu una vera e propria scuola. Probabilmente la preparazione era affidata alla Casa degli spersi, fondata nel 1617 ed intitolata al Buon Pastore. Questo era sorto come ricovero (coatto) di ragazzi poveri, tra cui i ciechi, che venivano sottratti al vagabondaggio per essere rieducati ed istruiti. Non era in realtà una casa Pia, perché in questa casa si perpetravano violenze e sfruttamenti. Gli allievi imparavano a suonare vari strumenti e a cantare (allo scopo evirati, senza anestesia...non esisteva e soprattutto senza consenso). Nel 1917 il Colleggio del Buon (?) Pastore venne chiuso e dalle sue ceneri nacque l'attuale conservatorio. Per i ciechi invece, nell'ottocento, fu esplicitamente fondata una scuola ad opera del sacerdote Giovanni Crollo. Parecchi poveri ragazzi ciechi, frequentando la scuola per qualche anno, acquistavano una cultura ed una maestria sufficienti a metterli in condizione di guadagnarsi il pane con il proprio lavoro. Questa scuola, nel 1892, grazie al patrocinio di Ignazio Florio, divenne l'Istituto dei ciechi, una scuola vera e propria in cui, tutt'oggi viene impartita una educazione letteraria, musicale e tecnica.
Fara Misuraca |