Note e Versi Meridiani

 

 

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Torna a Surriento

Saggio sulla canzone di Renato Gargiulo

 

Torna a Surriento rappresenta uno strepitoso ed intramontabile successo internazionale firmato dai fratelli De Curtis: Giambattista (per i versi) ed Ernesto (per la musica). Il brano svetta tra i picchi commerciali della canzone napoletana e può essere assunto come uno degli esempi ante litteram della globalizzazione della cultura musicale. Per notorietà ed apprezzamento non è da meno di ’O sole mio e può essere insieme a questo tranquillamente inserito tra i primi vagiti del «music-business» internazionale. Eccone il testo.

                   I

Vide ’o mare quant’è bello !

Spira tantu sentimento,

Comme tu a chi tiene mente,

Ca scetato ’o faie sunnà.

Guarda, gua’ chistu ciardino;

Siente, sie’ sti sciure arance.

Nu prufumo accussì fino

Dinto ’o core se ne va...

E tu dice: «I’ parto, addio!»

T’alluntane da sto core...

Da la terra de l’ammore...

Tiene ’o core ’e nun turnà

Ma nun me lassà,

Nun darme stu turmiento!

Torna a Surriento,

Famme campà!

                   II

Vide ’o mare de Surriento,

Che tesoro tene nfunno:

Chi ha girato tutto ’o munno

Nun l’ha visto comm’a ccà.

Guarda attuorno sti Sserene,

Ca te guardano ’ncantate

E te vonno tantu bene...

Te vulessero vasà.

E tu dice: «I’ parto, addio!»

T’alluntane da sto core...

Da la terra de l’ammore...

Tiene ’o core ’e nun turnà

Ma nun me lassà,

Nun darme stu turmiento!

Torna a Surriento,

Famme campà!

Questo brano sembra in parte smentire la regola, stabilita peraltro dallo scrivente, che vuole che le canzoni napoletane di più grande successo vengano composte da modesti artigiani. Qui la regola viene confermata solo per i versi perché la musica è scritta da un fior di compositore, così bravo da essere eletto da Francesco Paolo Tosti come suo successore nel campo della “romanza italiana”.

Ernesto De Curtis non è solo un musicista colto ma anche bravo ed ispirato. Dopo essersi diplomato in pianoforte al conservatorio di San Pietro a Maiella, inizia una quarantennale attività di concertista-accompagnatore e di compositore di canzoni e di romanze ricca solo di successi e di trionfi internazionali. Collabora come compositore, oltre che del fratello Giambattista, con i più grandi poeti suoi contemporanei, musicando i versi di Nicolardi, Bovio, Ferdinando Russo, Rocco e Michele Galdieri, Ernesto Murolo, Di Giacomo, Bracco, e poi anche di Vincenzo Russo, Fusco, Barbieri, Genise, Gatti, De Lutio, Letico, Furnò ... Nel 1922 conosce Beniamino Gigli, già interprete di diverse sue canzoni e romanze. Inizia così una amicizia ed un sodalizio artistico che porterà i due in giro per il mondo (New York, Parigi, Londra, Buenos Aires, ...) in una serie di concerti trionfali nei quali il nostro musicista accompagna al piano il celebre tenore.

Ernesto De Curtis si presenta al grande pubblico nel 1897 nella rassegna di Piedigrotta con la canzone ’A primma vota su versi del fratello. Dopo altre canzoni scritte in collaborazione con Genise (I’ penso sempe a te) e con Giambattista (Canzona sincera, Tiemme cu te), compone nel 1902, sempre con il fratello, Amalia dedicata ad Amalia Russo, la donna che sposerà. La canzone è di discreto successo ma oggi completamente dimenticata. Bisognerà aspettare il 1904 perché venga assunto nel gotha dei grandi autori di canzoni grazie a due brani memorabili, di grande potenziale emotivo, due vertici nella storia della canzone napoletana: Torna a Surriento e Voce ’e notte. A questo exploit seguirà una serie ininterrotta di successi tra i quali Canta pe’ me (1909), ’A canzone ’e Napule (1912), Sona, chitarra! (1913), Autunno (1914) e Tu, ca nun chiagne! (1915) tutte su versi di Bovio, Sora mia (1910) su versi di R. Galdieri, Ah! L’ammore che ffa fa?! (1911) e ’O balcone ’e Napule... (1934) entrambe su versi di E. Murolo ed inoltre I’ m’arricordo ’e te (1911) su versi di Giambattista.

Il musicologo Marcello Piras considera Ernesto De Curtis il più grande compositore di canzoni napoletane di una qualità tale da avvicinare addirittura a volte Schubert. Questo straordinario elogio ci restituisce la grandezza di un artista sincero e profondo dotato di una vena melodica straordinaria, ricca di quella passione propria di chi compone con il cuore, un autore capace di creare melodie soggioganti, piene di magia che pur in forme e proporzioni nuove si muovono nel solco della tradizione, innestandosi in essa ed arricchendola.

De Curtis è un eccellente compositore in quanto sa infondere poesia nelle sue melodie perché, come insegna il De Sanctis «non basta l’artista, quando manchi il poeta». La sua fortunata vena creativa si estrinseca in un’espansione melodica di intenso e profondo lirismo con frequenti slanci che mettono a dura prova le corde vocali degli interpreti, espansione che è, in ultima analisi, la caratteristica saliente delle sue canzoni. La sua musica, profondamente sentita, inclina a volte ad una malinconica dolcezza capace di scavare la pena psicologica e di avvolgerla in quell’alone poetico di cui si è detto ma la sua vena, ricca e varia, si esprime anche felicemente su toni leggeri e sentimentali o, più spesso, su toni potentemente drammatici. Ma in De Curtis è insito, forse anche per l’influenza del melodramma, un deciso istinto teatrale e drammaturgico per cui, anche se egli si pone come il musicista quasi tutte le canzoni del fratello, trova un collaboratore artistico ideale in Libero Bovio, un poeta dalla rilevante potenza drammatica, densa di riverberi sanguigni e di cupe suggestioni psicologiche, il creatore ed il maestro indiscusso della canzone “di giacca” [1].

Quando, con il Novecento si è completata la separazione netta e completa tra la lirica da camera in lingua e la canzone napoletana, De Curtis si mostra capace di passare da un genere all’altro conservando una sostanziale uniformità stilistica animata da toni intimi e personali: una linea vocale con picchi di forte intensità sonora, notevole potenziale emotivo, accenti a volte carezzevoli ma più spesso drammatici.

In ultima analisi, questo artista-poeta esprime un temperamento tanto geniale quanto intimo e pur accogliendo nella sua musica stilemi popolareschi si mantiene sostanzialmente genuino ed originale in un percorso che non trascura mai di riprodurre l’essenza più profonda del cuore umano.

La felicissima vena creativa di De Curtis, come per miracolo, non si esaurisce nel tempo, circa quarant’anni d’attività, né per i tanti cambiamenti avvenuti nella musica e nel mondo ma continua cristallina e feconda fino alla morte avvenuta nel 1937.

Torna a Surriento è una canzone pubblicata nel 1904 (secondo altri studiosi nel 1905) dall'editore Bideri e presentata alla Piedigrotta dello stesso anno. Sullo spartito, però, troviamo indicata la data del 1894 per un motivo che vedremo più avanti.

La canzone tratta del tema della fine dell’amore: c’è una partenza, un abbandono e l’io-protagonista eleva il suo grido di dolore: «non lasciarmi, ritorna a Sorrento!». In realtà, nella stesura con la quale la conosciamo adesso, la canzone più che apparire incentrata su un addio sembra essere una promozione turistica per la città di Sorrento della quale decanta le bellezze.

Ma chi è che parte? Si tratta di un uomo o di una donna? Che a parlare sia un uomo lo si ricava da un piccolo ma significativo, indizio: al verso 4 c’è l’espressione, Ca scetato ’o faie sunnà. Se a parlare fosse stata una donna avremmo trovato Ca scetataa faie sunnà.

Stabilito che l’io-narrante è un uomo ci possiamo chiedere se egli si rivolga ad una donna oppure ad un altro uomo. La domanda non è così maliziosa come potrebbe sembrare: un padre potrebbe benissimo dire a un figlio maschio «non partire, non abbandonarmi, resta nella tua città!». Ad escludere questa possibilità, però, c’è sempre lo stesso verso: se si sogna ad occhi aperti davanti a qualcuno questi non può essere altro che il partner di un rapporto amoroso. Allora, escludendo da queste deduzioni ogni tipo di situazione equivoca, l’io-protagonista non può che parlare ad una donna. Comunque, vedremo tra poco che la canzone è stata, in una delle sue stesure, dedicata ad un uomo, un ministro del Regno, il primo ministro d’Italia! Ma non cominciamo subito a correre di fantasia, si tratta solo di una dedica, il ministro Zanardelli non rientra affatto nella vicenda narrata dai versi.

Il testo della canzone ha la tipica struttura strofa-ritornello articolata in due stanze di 4 quartine ciascuna. In ogni stanza le prime tre quartine sono formate da ottonari che tra il secondo ed il terzo verso hanno rima baciata (rima che però non è sempre presente). In tutte le quartine l’ultimo verso è tronco. La lunghezza dei versi nell’ultima quartina è varia. Entrambe le strofe si aprono con la stessa espressione, Vide ’o mare, un incipit che introduce un testo pieno di imperativi: vide, guarda, siente, torna, famme. Manca la rituale terza strofa probabilmente perché il buon Giambattista è a corto di argomenti. Sia la strofa che il ritornello hanno carattere di sfogo lirico.

Non possiamo non notare l’estrema insipienza del testo: un uomo vuole convincere la sua amata a non lasciarlo, a non andare via da Sorrento e cosa fa? Le parla della bellezza del mare e del profumo dell’aria! Le dice che occorre un cuore duro per lasciare un posto simile, la "terra dell’amore"! Incredibile, stupefacente! È evidente inoltre l’incongruenza di parlare solo della bellezza dell'ambiente e non anche di quella della donna senza la quale il protagonista non può vivere (...famme campà). In conclusione ci troviamo con un testo che come spot pubblicitario e turistico funziona benissimo, e Sorrento non ringrazierà mai abbastanza i fratelli De Curtis per l’enorme favore reso alla città, ma che da un punto di vista poetico è abbastanza infelice.

La prima strofa, con molta generosità, potrebbe anche considerarsi appena mediocre ma il guaio è che c’è anche una seconda strofa. Qui il nostro Giambattista ha esaurito le sue cartucce: avendo già accennato alla bellezza del mare e al profumo dei fiori d’arancio di cosa altro trattare ancora? Ma certo, del tesoro che è possibile vedere – come tutti ben sanno – in fondo al mare! Vide ’o mare de Surriento, / Che tesoro tene nfunno (anticipa così di poco più di un ottantennio La Sirenetta disneyana).

Per poter poi sviluppare una ulteriore quartina l’autore è costretto a ricorrere alle sirene, una logica conseguenza di quando si tratta di profondità marine. Questo tema tradizionalmente è un formidabile biglietto da visita turistico-vacanziero per la città di Sorrento: le sirene, che da sempre seducono l’immaginario collettivo, diventano in questi messaggi promozionali icone di bellezza, di natura primitiva e incontaminata e, con la notevole forza di penetrazione del loro fascino misterioso ed intrigante, contribuiscono al successo del paesaggio marino. In tale veste, queste dee tramontate queste donne-pesce fatali, decadute ed innocue, assorgono al ruolo di testimonial del messaggio pubblicitario, si pongono come personaggi non pericolosi ma decorativi.

Quindi, non ci sarebbe alcunché di stravagante per Giambattista nel far ricorso al tema delle sirene, ma è il modo puerile con cui lo fa che lascia perplessi. Pur volendo concedergli le attenuanti generiche (licenze poetiche, recupero favolistico, iperboli liriche) bisogna sinceramente ammettere che l’autore qui dà segni di vaneggiamento: un innamorato in procinto di essere lasciato dalla sua donna per cercare di dissuaderla la esorta ad abbandonarsi al fascino conturbante delle sirene – che stavolta, perciò, dovrebbe esercitarsi non su un uomo ma su una donna –. Sic! L’amata viene, infatti, invitata a prestare attenzione alle le sirene[2] che l’attorniano e la fissano incantate (Guarda attuorno sti Sserene, / Ca te guardano ’ncantate). Come in un gioco di scambio di ruoli, le sirene sostituiscono l’io-protagonista e restano incantate dalla donna come accade normalmente a chi è innamorato! Questo ipotetico amore fa una fugace apparizione tra i versi (E te vonno tantu bene) insieme al desiderio di baciarla (Te vulessero vasà) – baci casti, naturalmente, come quelli che si danno ai bambini, non baci lesbici! –. Si noti come le sirene, abbiano qui solo il già accennato ruolo decorativo: non intonano alcun canto e appaiono del tutto impotenti di fronte alle scelte della donna.

Le incongruenze evidenziate sono tali che, sullo spartito di Bideri, dove tradizionalmente compare anche la traduzione ritmica italiana del testo, il traduttore, in questo punto della canzone, non se l’è sentita di rendere in italiano il senso esatto delle parole preferendo ripiegare su questo adattamento: Vedi come le sirene / or ti guardano incantate, / par che vogliono a te sola / dolci cose mormorar ... (quindi niente "ti vogliono bene" e "ti vorrebbero baciare").

Certo questa seconda strofa potrebbe apparire un po’ meno raffazzonata se il destinatario dei versi fosse non la donna amata ma un qualunque turista (maschio naturalmente per la questione dell'amore e dei baci delle sirene!). Ma anche in questo caso il risultato non sarebbe esattamente esaltante.

A parziale giustifica per tanta insufficienza creativa si possono addurre i due rifacimenti apportati al testo originariamente stilato. Infatti, i fratelli De Curtis avevano scritto e depositato la canzone in una versione diversa da quella ogni conosciuta molto prima del lancio ufficiale avvenuto nel 1904. Era il 1894 ed Ernesto non aveva ancora compiuto i 19 anni. Il fratello Giambattista per ingraziarsi il proprietario dell’Hotel Tramontano suo mecenate aveva deciso di dedicargli una canzone: nasceva così la prima versione di Torna a Surriento[3] . Il cliché di questa stesura, secondo Federico De Curtis nipote dei due autori, esisterebbe ancora e potrebbe trovarsi in qualche biblioteca.

Nel 1902 accade un fatto che cambierà i destini di questa, fino ad ora, sconosciuta composizione. Si ferma di passaggio a Sorrento il ministro Giuseppe Zanardelli, presidente del consiglio e per l'occasione Guglielmo Tramontano, che è pure sindaco della città, chiede ai fratelli De Curtis di scrivere subito una canzone per l’illustre ospite. I due pensano bene di recuperare il vecchio brano composto otto anni prima, l’ampliano, ne cambiano parte dei versi e l’adattano, all’evento riempendolo di elogi per Zanardelli in modo sfacciatamente ruffiano. Questa seconda stesura secondo quanto ci informa Federico De Curtis, si conserva ancora nei bar dell’Hotel Tramontano e presenta a suo giudizio una strofa “ingenua”, “stucchevole” e “banale” contro un ritornello invece “geniale”.

L’invito “torna a Surriento” cantato a Zanardelli non passa inosservato e l’editore Bideri decide di ripubblicare la canzone imponendo, però, delle modifiche e dei tagli oppure forse riproponendo il teso del 1894. Nel 1904 (o forse nel 1905) nella nuova veste la lancia nella Piedigrotta. Sullo spartito indica però la data della prima stesura. Da questo momento comincia la leggenda di un brano che porterà il nome della città di Sorrento in giro per il mondo.

Nel 1982 il Comune di Sorrento, per esprimere la gratitudine dell’intera cittadina all’autore della canzone, erige un busto in bronzo di Giambattista De Curtis nella piazzetta antistante la stazione della Circumvesuviana. Per questa iniziativa, però, sono stati rimproverati al Comune due errori: l’aver dimenticato di Ernesto, l’artefice principale delle fortune del brano e inoltre e l’aver raffigurato, forse, nel busto non Giambattista, ma Valente un altro musicista che gli somigliava! [4]

Chiaramente su un brano così celebre non può mancare il gossip. Opinione diffusa è che attraverso la canzone Tramontano si proponesse di ricordare a Zanardelli la promessa di dotare Sorrento di un ufficio postale. Altri commentatori parlano invece della rete fognaria, altri ancora pensano che entrambe le ipotesi siano storielle campate in aria. Federico De Curtis afferma che l’inizio del ritornello dove si canta la frase Ma nun me lassà sia stato ricavato dall’autore ascoltando il verso di un usignolo.

Ritornando al punto dal quale siamo partiti, possiamo pensare che sia stata proprio l’origine occasionale della composizione (prima per ingraziarsi Tramontano, poi Zanardelli) unita alle ripetute manipolazioni apportate al testo verbale a determinarne l’insufficienza: manca, infatti, in esso la serietà di un contenuto profondamente meditato e sentito. Bisogna comunque riconoscere che i versi sono scorrevoli, funzionali alla melodia e non privi di qualche abbozzo suggestivo sviluppato poi magicamente dalla musica.

Di ben altro spessore qualitativo è la scrittura musicale del brano. Pur trattandosi di un lavoro giovanile dell’autore (non ancora diciannovenne) e, pur mancando di sviluppi armonici speciali, esso si presenta originale nella struttura e rivela quel fascino particolare connesso a una pregevole tecnica compositiva, una tecnica al servizio di una felice ispirazione e perciò capace di produrre un risultato così straordinario da coinvolgere emotivamente in tutto il mondo quasi quattro generazioni di ascoltatori e di rendere, nel contempo, poco evidenti le incongruenze del testo verbale. Così il binomio Sorrento-sirene che nei versi appare un espediente mal gestito, nella melodia si rivela una lettura squisitamente poetica-pittorica, ma non pittoresca dell’ambiente: l’intera composizione sembra anzi attingere al fascino irresistibile delle sirene, la presenza di questi esseri mitici si avverte costante in una melodia che, con la sua forza evocativa, non può che testimoniare una sincera adesione "poetica" e "pittorica" alla realtà mitica descritta.

Torna a Surriento è una mazurka in 3/4 sull’agogica di andantino. È organizzata con una introduzione strumentale di 9 battute in Mi maggiore. La melodia è semplice, fluida e mai banale, e molto, molto regolare: ogni nuovo verso coincide sempre con l’inizio di una battura, tutti i versi occupano due battute, quelli ottonari si articolano su 6 crome sistemate su un profilo ondulato per la prima misura più su 2 note ribattute, una semiminima e una minima, nella seconda misura. I versi tronchi finali delle prime due quartine si discostano dallo schema appena esposto per le 2 note ribattute che stavolta sono una minima ed una croma legate tra loro. Le coppie di note ribattute in chiusura di ogni quartina (tranne l’ultima) determinano sempre un salto di terza o di quinta discendente e precedono un salto ascendente che apre la quartina successiva. Tutte queste regolarità, la semplicità della struttura, l’andamento ondulante come una malinconica cantilena o come il dondolio del mare o della culla conferiscono alla melodia delle strofe quasi le caratteristiche di una ninna nanna, senza però provocare mai stanchezza o noia. Il ritornello, pur nella solarità del modo maggiore è privo di gioia, è una grido disperato ed energico che vorrebbe fermare il corso degli eventi.

L’introduzione strumentale ricalca il ritornello, Ma nun me lassà... ecc., ovvero il motivetto che l’autore avrebbe ripreso dall’usignolo. La parte vocale inizia in modalità minore (Mi minore) ma ritorna dopo 8 battute in maggiore e rimane tale per la restante parte della canzone. La modalità minore accompagna solo la prima quartina della canzone e, avendo questa un carattere descrittivo, viene sviluppata intorno alla cadenza plagale (La- 6 " Mi- , La- " Mi-). La vaghezza di questa cadenza (manca la sensibile e perciò non può essere definita esattamente la tonalità) la rende particolarmente adatta ad evocare atmosfere incantate, sogni sfuggenti. La melodia ha un andamento, che alterna movimenti melodici discendenti a movimenti melodici ascendenti che partono dalla tonica oppure si arrestano sulla tonica. Questo andamento ondulato appare perfettamente aderente ai versi in quando produce un effetto all’ascolto come di una carezza sonora, come se i movimenti melodici volessero riprodurre il dondolio del mare e con essi cullare l’ascoltatore.

La seconda quartina viene preceduta dal passaggio alla modalità maggiore volendo il musicista dare maggior slancio lirico a dei versi che hanno ancora il carattere narrativo-descrittivo. Molto significativamente questa quartina viene introdotta con un salto di ottava ascendente da Mi3 a Mi4 pur senza spostarsi in modo deciso sui toni alti, mentre il gesto melodico passa alla formula della cadenza perfetta che ne aumenta l’impatto emotivo. L’indicazione agonica data dall’autore sul rigo del canto è con passione. La modalità maggiore riveste il testo di un’atmosfera solare e mentre aleggia un’accorata malinconia sullo splendore abbacinante del mare sorrentino, la melodia continua a cullare e a pungolare l’animo dell’ascoltatore con quel suo andamento altalenante.

Un nuovo salto ascendente da Sol♯3 a Mi4 apre la terza quartina del testo verbale, E tu dice: «I’ parto, addio!». È il punto in cui nello schema metrico di Giambattista si dovrebbe dare inizio al ritornello. In realtà, da un punto di vista musicale, ciò non accade: non si ha infatti l’inizio di un nuovo tema nettamente distinto dalla sezione musicale precedente anzi le prime due battute per ciò che riguarda la melodia riproducono esattamente le due corrispondenti della quartina precedente (Guarda, gua’ chistu ciardino) e le successive due si differenziano dalle relative corrispondenti per il solo fatto di articolarsi di tre semitoni più in alto. Ciò che cambia in queste quattro battute è parte dell’armonia e, in particolare, il fatto che essa non trova più la giusta conclusione in Mi+ come fatto precedentemente ma ricorre a una cadenza d’inganno: c’è una sesta diminuita, un Do+ che funge da elemento di tensione, una dissonanza adatta a creare un momento struggente e a focalizzare l’interesse verso la composizione.

Si sta sviluppando la carica adatta per raggiungere l’acme espressivo, per lanciare il ritornello: la dinamica passa a forte, l’agogica indica uno stentato, la curva melodica va ad articolarsi sui toni alti mentre nell’armonia l’episodio del Do+ va a risoluzione su un altro accordo dissonante, un Do7, acuendo ulteriormente il senso di tormento. L’accordo di settima, occorre ricordarlo, ha, infatti, un "carattere" eminentemente drammatico, di "gemito in musica". Lo spostare, poi, in avanti l’attesa risoluzione sulla tonica ha lo scopo di preparare l’ascoltatore all’ulteriore sviluppo della situazione dolorosa con l’intenzione ben precisa di caratterizzarla musicalmente basandosi essenzialmente sull’armonia. Il Do7 "risolve" infine su un malinconico Mi-. Questo momentaneo passaggio al modo minore avviene proprio in corrispondenza della parola ammore, per evidenziare la contraddizione di perdere l’amore proprio in un luogo che è invece tradizionalmente la "terra dell’amore". Si ha allora, dopo la tensione accumulata per le decisioni della donna (E tu dice: «I’ parto, addio!» / T’alluntane da sto core... / Da la terra de l’ammore...), il crollo delle speranze espresso dall’amara constatazione contenuta in Tiene ’o core ’e nun turnà che la melodia rende con una curva discendente fino alla tonica (Mi3) che prepara l’ingresso del ritornello. Insomma, il sentimento di amarezza e rassegnazione viene espresso sia con le parole che, ad un livello più profondo, con la musica attraverso una melodia che scende di altezza in corrispondenza proprio del precipitare delle illusioni, trasmettendo così una sensazione di desolante sconforto.

Il ritornello viene lanciato con un salto di ottava (da Mi3 a Mi4). Ora la melodia spicca il volo assestandosi nel registro acuto dell’ambito (dal La3 al Sol4) e toccando spesso il Fa♯4 , i versi diventano più brevi e il coinvolgimento emotivo raggiunge l’acme con il protagonista che, al culmine dello slancio lirico-drammatico, lancia il grido disperato alla sua "Lei" Ma nun me lassà, / Nun darme stu turmiento!

È a questo punto, nel ritornello, che finalmente fa capolino il titolo della canzone, quel Torna a Surriento che è poi il nucleo intorno al quale ruota l’intera composizione. A sottolineare il momento importante del brano c’è l’indicazione dinamica di forte, una progressione ascendente fino a raggiungere il Sol4 sulla parola Surriento e l’indugiare della musica sulle due ultime sillabe di questa parola. Oltre a ciò un altro elemento mette in risalto questo momento, la modulazione alla tonalità di Mi-.

Gli ultimi brevi versi continuano ad articolarsi nel registro alto della melodia in un’atmosfera di drammatico lirismo nel quale il Mi minore delinea la conclusione dell’invocazione alla donna, o forse solo al vento: «non farmi morire (di crepacuore)!».

Torna a Surriento ha una tessitura vocale generale nell'intervallo di decima Mi3-Sol4 e, quindi, di ampiezza tale da renderla particolarmente adatta ai tenori. E, infatti, è stata registrata per la prima volta dal tenore Mario Massa e poi dalle più grandi voci liriche del Novecento e del secolo successivo, da Beniamino Gigli a Francesco Albanese, Marcelo Alvarez, Gino Bechi, Carlo Bergonzi, Andrea Bocelli, José Carreras, Franco Corelli, Giuseppe Danise, Mario Del Monaco, Giuseppe Di Stefano, Placido Domingo, Pablo Gaeta, Mario Lanza, Giovanni Martinelli, Luciano Pavarotti, Aureliano Pèrtile, Titta Ruffo, Tito Schipa, Riccardo Stracciari, Ferruccio Tagliavini. È stata inoltre eseguita da innumerevoli cantanti italiani, tra cui Sergio Bruni, Fausto Cigliano, Peppino Di Capri, Giuseppe Di Francesco (’O Zingarello), Robertino Loretti, Antonello Rondi, Giacomo Rondinella, Giuni Russo, Lina Sastri, Bruno Venturini, Claudio Villa. Ma a registrarla sono stati anche numerosi cantanti stranieri.

Claude Aveling l’ha tradotta in inglese dandole il titolo di Come back to Sorrento. Tale versione è stata incisa dal tenore Josef Locke nel 1947, poi da Frank Sinatra nel 1951 e da Dean Martin nel 1952. Successivamente Doc Pomus e Mort Shuman elaborano una nuova traduzione ed un nuovo arrangiamento della canzone che con il titolo di Surrender viene incisa da Elvis Presley nel 1961 raggiungendo i vertici o le primissime posizioni nelle classifiche musicali del Regno Unito, Italia, Germania, Olanda e Norvegia. Successivamente viene registrata da molti altri artisti fino a ritrovarla nel brano Sexy People usato da Arianna Bergamaschi in coppia con Pitbull per uno spot pubblicitario.

Malgrado questi stravolgimenti melodici e ritmici, molto deprecati dal maestro De Simone, Torna a Surriento, grazie alla sua melodia, è riuscita a conservare la sua riconoscibilità e la sua appartenenza al repertorio della canzone napoletana.

Prima di concludere possiamo chiederci la ragione di un successo così vasto e duraturo. Certamente un ruolo importante lo ha la musica che è piaciuta e continua a piacere. Fondamentale è poi l’apporto dato dai tenori di fama internazionale che hanno pubblicizzato la canzone in tutto il mondo. Ma sicuramente da non trascurare è il ruolo svolto dagli emigranti per i quali le parole «torna a Surriento» hanno significato «torna a casa», quasi il richiamo struggente della patria lontana.

Renato Gargiulo


Note

[1] La canzone di giacca è un genere musicale di tematica altamente drammatica, ma più spesso malavitosa. Deve il nome al fatto che, per eseguire una tale canzone, l'interprete deve togliersi il frak con il quale ha cantato le altre canzoni e presentarsi al pubblico indossando una normale giacca e un fazzoletto annodato al collo secondo il tipico modo di vestire del popolo o del guappo.

[2] questa stramberia dell'invito a "guardare" le sirene, cosa evidentemente impossibile, è conseguenza del fatto che l'autore ha scelto di far iniziare ogni quartina della seconda stanza nello stesso modo della prima stanza. Così troviamo Vide ’o mare quant’è bello e Vide ’o mare de Surriento e successivamente Guarda, gua’ chistu ciardino e Guarda attuorno sti Sserene.

[3] non era la prima volta che Giambattista rendeva omaggio a Tramontano con una canzone, l’aveva già fatto l’anno prima menzionando il nome del suo benefattore nella terza strofa della canzone Carmela: ... pusaie a Surriento ’n Fata... / ncopp’’o scoglio addò sta Tramuntano / ’n Paraviso stu sito nun c’è.

[4] questa notizia è fornita da Federico De Curtis


Pubblicazione del Portale del Sud, giugno 2015

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