Il nome di una strada può essere triste,
algido o solo rievocativo di fatti storici lontani (Via
XX Settembre; Via Martiri d’Otranto) … ma può esser nome
che resta familiare ed accetto per secoli. Via del
Tritone a Roma; Via Maqueda a Palermo. Il nome di una
strada può essere anche proposizione ad uno “stato
d’animo”.
Andiamo a Toledo! Incontriamoci a Toledo!
A Napoli per un appuntamento; per la ricerca di un
oggetto da comprare; per un caffé si va, per antica
consuetudine, “a Toledo”.
Altre strade; altri luoghi d’incontro
esistono, certo, e sono normalmente utilizzati dai
napoletani, ma sono un surrogato; sono frutto della
necessità e della fretta. Quando si può, si va a
Toledo! Più che un luogo, ordunque, Toledo è, per
tanti napoletani, una predisposizione mentale, Si va a
Toledo per rilassarsi, immersi in un caleidoscopio di
volti e di immagini; di negozi alla moda e di botteghe
della tradizione; di saltimbanchi improvvisati e di “vu
cumprà”, con postazione fissa; di eleganti borghesi
e di umili popolane; di impomatati garzoni e di
volgarissimi bulletti.
La strada di Toledo che da Piazza San
Ferdinando arriva sino a Piazza Dante fu realizzata
intorno a 1535, allo scopo di ricoprire la fogna ad
alveo aperto che da Montesanto, raccogliendo le acque
meteoriche ed i liquami della collina del Vomero,
proseguiva verso il mare. Venne, così, finalmente
nascosto alla vista il famigerato “Chiavicone”
che, dopo i lavori stradali di ricopertura, divenne un
vero e proprio tunnel di acque di scarico ed alle cui
vicende restano legati tanti episodi, tragici e
singolari, connessi alla precarietà sanitaria della
città.
La
strada che nacque costituì un vero successo,
assolutamente imprevisto da colui che ne aveva promosso
la realizzazione. La strada, non solo fu ben accolta
dalla cittadinanza ma, dal giorno della apertura, si
determinò la modifica dell’intero sviluppo urbanistico,
in rapporto alla “calle major” che il Vicerè don
Pedro Alvarez de Toledo aveva voluto nel centro urbano.
Il Vicerè don Pedro
de Toledo
Dei 53 Vicerè che si avvicendarono nei
due secoli e più di sudditanza diretta di Napoli alla
Spagna, la figura preminente, per vari aspetti, è certo
quella del Toledo.
Le grandi fortificazioni portuali,
restaurate e ampliate con l’uso del tufo cavato dal
Monte Echia; la realizzazione dei Quartieri per
l’alloggiamento delle guarnigioni spagnole; la
ricostruzione di Pozzuoli dopo il cataclisma determinato
dall’eruzione del Monte Nuovo; il trasferimento della
sede Principesca dal Castello di Capuana alla Nuova
Reggia e l’insediamento dei Tribunali alla Vicaria; la
costruzione del Castello di Baia e di varie Torri
costiere; la costruzione della Chiesa di S. Giacomo;
quella dell’Ospedale degli Spagnoli prospiciente
l’odierna Via S. Giacomo; il restauro delle Carceri e
del Monastero della Consolazione sull’odierna Via
Imbriani, tutti corpi di fabbrica dell’attuale complesso
edilizio Banco di Napoli - S. Giacomo; il potenziamento
delle fortificazioni costiere, da Sorrento a Gaeta, da
Salerno a Sapri, a difesa del territorio contro le
periodiche scorribande dei corsari. Si tratta di opere
imponenti, e per entità e per complessità, pensate,
progettate e realizzate in soli venti anni (dal 1532 al
1553), tale fu il tempo che durò il Viceregno del
Toledo.
Per la realizzazione di tali opere che,
ancor oggi, con il mezzi moderni, sarebbe difficile
portare a termine in tempi brevi, specie in un
territorio complesso come quello meridionale, ci voleva
un’inflessibile e determinata personalità che, superate
le mollezze di Corte della atmosfera “aragonese”, appena
trascorsa e non ancora dimenticata, riportasse, con
pugno di ferro, il potere nelle mani dei rappresentanti
del Re di Spagna. E questo accadde, con la repressione
delle autonomie baronali, ove fioccarono condanne
esemplari, anche capitali, per fatti di insubordinazione
o di malgoverno periferico. Ma altrettanto ferrea fu
l’azione di lotta contro la delinquenza ordinaria e
contro i gruppi sediziosi, con l’irrogazione di pene
severe e con numerosissime condanne alla decapitazione
per delitti comuni. L’atmosfera di “sospetto” che
gravava intorno alla Corte e nell’intero territorio del
Viceregno; la somministrazione di tasse, spesso
sproporzionate, - anche per far fronte all’enorme spesa
edilizia innanzi indicata, - non resero “popolare” la
figura del Toledo che, a quanto risulta, i contemporanei
dei vari ceti sociali, non amarono affatto. Ed è
presumibile che la sua forte personalità, alla fine,
dovesse “fare ombra” anche al Re di Spagna al quale
erano giunte le lamentele di tanti nobili mortificati, i
Principi Sanseverino in testa.
A settanta anni, con un fisico provato ed
un inverno gelido, l’incarico di comando delle milizie
spagnole, schierate fuori Siena, fu fatale ed a nulla
valsero le cure premurose che la figlia del Toledo,
moglie di Cosimo il Vecchio, approntò nelle stanze del
Palazzo Medici a Firenze. Don Pedro de Toledo morì il 22
febbraio del 1553 e fu sepolto nel Duomo di Firenze dove
tuttora riposa. Il monumentale sacello predisposto, su
richiesta dello stesso Vicerè, nella Chiesa di S.
Giacomo restò vuoto.
Sospese le spoglie mortali tra Napoli e
Firenze, tra una sepoltura ed un cenotafio, altrettanto
sospeso il giudizio politico e storico sulla figura e
l’opera dell’uomo che, non amato dai contemporanei ha,
tuttavia, realizzato opere ed azioni di governo che si
sono riverberate, non certo “in danno”, sulle
generazioni successive. Le opere monumentali e di difesa
sono rimaste in essere ed, a tutt’oggi, molte di esse
risultano pienamente efficienti. L’azione di difesa dei
Vassalli dagli abusi dei Baroni; l’azione amministrativa
destinata al riordino dei diritti demaniali ed al
consolidamento del potere della corona di Spagna, vanno
considerate come aspetti di “governo” che hanno influito
positivamente nel tempo, nell’avvicendamento al potere
dei Vicerè che seguirono il Toledo e che, per conto
della Corona di Spagna, amministrarono fino al 1707 e
cioè per altri 144 anni, senza significative scosse –
tranne che per l’episodio di Masaniello - un vasto
Territorio di per sé turbolento e difficile da gestire.
Tutto questo forse non interessa a chi
passeggiando per “Toledo”, assaporando una
sfogliatella di Pintauro innanzi a vetrine
luccicanti, ritiene che “la Storia è perdita di tempo”
e che l’era delle Comunicazioni non ha bisogno della “riflessione
sul passato”.
Ma se pensiamo a quelle opere di difesa
che, appena scalfite, consentono anche all’occhio meno
esercitato, di percepire la imponenza delle strutture e
la capacità di sfidare il tempo, allora ci sembra,
davvero, di sentirci eredi di tante figure, grandi e
piccole, che hanno testimoniato, con il loro impegno,
una tradizione di laboriosità e di ingegno che, a buon
diritto, può trarre origine da uno starter d’eccezione
quale fu il Toledo.
Gherardo Mengoni
settembre 2007 |