Il termine
Philotimos, nella sua accezione aulica, indica colui che
mira alla gloria con massima cura delle virtù e con generosità verso
gli altri. Egli coltiva nobilissimi sentimenti che conducono alla
condivisione del bene in una visione prospettica di fratellanza e
concordia fra gli uomini.
Euripide
avverte, però, che ci può essere una philotimia negativa, che
esalta l’amor proprio tendendo esclusivamente agli interessi
personali e a un codardo antieroismo, ed una positiva che svolge un
ruolo edificante e che può avere come fine ultimo anche il
sacrificio personale per il bene della patria.
La
philotimia, nel suo ambito più spiritualmente elevato, è
quindi l’esaltazione della philia.
Un’importante
riflessione sulla natura della philotimia la fa Ricky K.
Green nel suo libro “Democratic Virtue in
the Trial and Death of Socrates: Resistance to Imperialism in
Classical Athens”
(New
York, Peter Lang, 2001).
Nel suo excursus, l’autore rigetta la tesi comune che il
grande filosofo fu messo sotto processo per empietà e per la sua
pericolosa amicizia con Alcibiades e sostiene, invece, che egli fu
oggetto di aspre accuse perché era ritenuto una minaccia verso i
reggitori di Atene che erano interessati alla ricostruzione di una
politica imperiale simile a quella della seconda metà del quinto
secolo. I suoi accusatori avevano timore che la gioventù ateniese
adeguasse le sue argomentazioni morali ad una percorribile corrente
d’opinione critica o, peggio, si costituisse in un vero e proprio
movimento politico contro i detentori del potere. La giusta chiave
per capire bene la relazione di Socrate con Atene è di interpretare
i riferimenti di Socrate alla virtù e alla verità come contrastivi
nei confronti dell’ethos dell’agon (la lotta) e la
philotimia (l’amore per gli onori ed il prestigio), che, secondo
Green erano comunque entrambi necessari componenti ideologici per la
ricostituzione dell’impero. Sia l’agon, sia la philotimia
hanno le loro radici nella phusis (la natura) come diversi
interlocutori di Socrate hanno esposto nei loro confronti
dialettici. Socrate fu, quindi, processato e giustiziato perché egli
minacciava la politica espansionistica di Atene. In un capitolo in
cui si approfondisce l’importanza dell’agon e della
philotimia per la società ateniese del tempo, Green spiega che i
principi socratici si conformavano bene con le virtù pre-imperiali,
con quei valori etici degli opliti per i quali l’agonismo, come
leale confronto della forza e destrezza fisica, e l’amore per la
dignità, l’onore e la gloria, ottenuti con generoso sforzo di
sacrificio, erano stimati come i più eccelsi traguardi da
perseguire.
La
distinzione fra la cultura della vergogna e la cultura
della colpa, viste dallo studioso E. R. Dodds nella sua opera “The
Greek and the irrational”
(Berkeley
1951)
e tra i valori competitivi e cooperativi
addotti da A. W. H. Adkin sono tra i temi più influenti nella
trattazione dell’ethos classico riferito alle attività umane
in rapporto alle diverse manifestazioni civili, militari e sportive.
Adkin nel suo libro “Merit and responsibility. A study in Greek
values”
(Oxford
1960)
non riconosce nell’epopea omerica i valori strettamente cooperativi
adducendo che gli eroi non tenevano conto della philotimia in
senso aulico, tranne nel raggiungimento della loro gloria e
prestigio personali. La mancanza di philia nella competizione
guerresca faceva di essi degli esseri non portati alla
collaborazione, né alla condivisione degli sforzi, bensì ad un
esclusivo ed egoistico desiderio di grandezza.
Gli studi
contemporanei su Timē e Aretē tendono generalmente ad identificarle
con i due valori positivi che erano centrali anche per Omero. La
pratica di queste virtù: la sana competitività per il prestigio
personale e la bontà e generosità nel perseguirlo portano
indubbiamente alla gloria imperitura.
|
Agonistés o competitore che lotta nelle gare in
squadra o in signolar tenzone.
|
Secondo la
ricercatrice Margalit Finkelberg, come evidenziato nel suo saggio
contenuto nella rivista culturale “The Classical Quaterly, New
Series, Vol. 48, 1998, Cambridge Univerity Press, per Adkin, in
ogni società, ci sono attività per le quali il successo è di
primaria importanza e l’elogio o il biasimo sono riservati per
coloro che, infatti, hanno successo o falliscono. La stessa autrice
sostiene che una tale affermazione non tiene conto delle
fondamentali caratteristiche dei nobili valori competitivi,
condivisi ampiamente dagli antichi greci, prima della corruzione di
tali termini. In nessun ambito, quelle peculiarità sono state
portate alla luce più chiaramente se non in quello più competitivo
delle istituzioni elleniche ed in particolar modo in quello atletico
e sportivo. Soprattutto, l’assunzione di base che rende la
competizione possibile consiste nel fatto che essa è una mutua
emulazione fra individui uguali, e che qualsiasi di essi, secondo la
tradizione greca, può raggiungere la soglia della più grande
perfezione che sia dovuta ai mortali, attraverso l’áκρον άρετής,
il massimo grado della virtù.
Nell’Iliade,
la
competizione nei giochi è un microcosmo di attività agonistiche che
si disputano per ricompense onorifiche. I motivi e le passioni che
governano e distolgono la condotta di Achille e Agamennone sono
quelli che governano e distolgono i competitori nelle gare. In un
contesto più ampio, gli esseri umani lottano per vincere premi, che
essi considerano come prove di riconoscimento del loro valore da
parte degli altri. Essi sono motivati dal desiderio di onori, che si
traduce in una nozione che in Greco è espressa dal termine
philotimia. Strettamente correlate a quella nozione è il
desiderio di vittoria, in Greco, philonikia. Un uomo che,
alimentato dalla philotimia or philonikia, compete con
gli altri per vincere premi deve necessariamente desiderare di
raggiungere i traguardi per cui egli lotta. Egli non ha bisogno di
desiderare di vincerli ad ogni costo; può solo ricevere
soddisfazione dalla vittoria, se è consapevole che, da solo o
insieme alla sua squadra, ha battuto i suoi avversari con
fair-play e che i premi che gli sono assegnati riflettono i suoi
veri meriti. Quello stesso uomo o collettivo, se è superato con la
stessa nobiltà nella gara, riconoscerà i meriti del vincitore e sarà
leale nel pensare che il premio sia andato a colui o coloro che lo
hanno onestamente meritato. Ciò non significa che egli non provi
sconforto e delusione nel perdere anche se non consente, comunque,
che tali emozioni influenzino la rettitudine del suo giudizio. In
modo contrario a questo modello comportamentale, si pone colui che
manifesta un preponderante desiderio di vittoria, da soddisfare con
tutti i mezzi. Che cosa motivi un competitore ad ottenere
indegnamente la vittoria è un mistero. Non è, inoltre, chiaro che
cosa significhi per lui la sconfitta, subita con onore o con
inganno. La maggior parte degli antichi pensatori greci considerava
che colui che competeva per vincere con ogni mezzo non era solamente
motivato dal solo desiderio di vittoria, ma anche da gratificazioni
materiali. Egli era, quindi, destinato a rendere la vittoria
immeritevole. I saggi dell’Ellade avrebbero detto che egli era
condizionato da phthonos, un termine usato per indicare
quello stato di mente che invidia il buono di un altro. Il
phthoneros, colui che è affetto da rancore, non può sopportare
di vedere un suo rivale godere delle proprie qualità; egli si sente
frustrato in tale occasione e portato a desiderare il suo
insuccesso.
Un’eccessiva
philotimia e una smodata philonikia furono da essi
considerate figlie di phthonos. Nonostante si riconoscesse
che ci fosse un’ampia parte di phthonos nella maggior parte
degli uomini, erano ciò nonostante propensi a condannare una simile
condotta.
|
Vessillifero che dava inizio alla disputa agonistica
nei tornei antichi.
|
In un libro
del 1992, “Olimpia e i suoi sponsor”, K.W.Weeber, attraverso
una precisa e documentata analisi storica, assesta, invece, un colpo
mortale al mito di Olimpia. Si smentisce la convinzione secondo cui
la motivazione degli atleti greci era il mero piacere di gareggiare,
di misurare se stessi per amore della vittoria, già dall’etimologia
del nome applicato al protagonista delle attività sportive. Atleta
deriva da athlon, che vuol significare premio per la gara,
ricompensa. Alla philotimia, cioè il desiderio di ottenere la
gloria degnamente, si affianca e si sostituisce il desiderio di
vincere premi concreti e preziosi, anche in denaro.
Nel VI sec.
a.C., Solone stabilì una ricompensa di 500 dracme per ogni ateniese
che avesse riportato una vittoria olimpica; somma considerevole, che
all’epoca corrispondeva al valore di 100 buoi o 500 pecore. Dato che
la partecipazione ad Olimpia presupponeva una preparazione di circa
10 mesi e che le competizioni erano retribuite, si può a ragion
veduta parlare di vero e proprio professionismo e definire
professionista colui che trae il proprio reddito dallo sport.
|
Il
guerriero, dopo il rito sacro, è pronto a dimostrare
il suo valore in difesa della patria (retrocopertina
de "I Leoni di Messapia II - Il Cerchio di Fuoco")
|
Nel momento
in cui la scienza economica ha iniziato ad interessarsi in maniera
concreta allo sport si può introdurre la distinzione fra
dilettantismo e professionismo, cioè il passaggio dalla fase eroica,
caratterizzata dalla passione, dal sacrificio e dalla vittoria quale
ricompensa morale del competere, alla fase in cui le attività
sportive vengono considerate alla stregua di normali attività
produttive, in cui gli atleti diventano i fattori della produzione,
la competizione costituisce il bene offerto sul mercato, gli
spettatori rappresentano i consumatori, le società di appartenenza
svolgono il ruolo del datore di lavoro.
Si può quindi
cercare, in prima istanza, di considerare lo sport professionistico,
quello di squadra e il calcio in particolare, nell’ottica di
un’impresa produttiva che fa parte di un mercato con concetti di
prodotto, costi e ricavi, profitti e perdite.
Gli sport
professionistici di squadra sono analizzati secondo la teoria
economica dell’impresa nella produzione di beni (partite), mediante
un uso appropriato e congiunto di fattori (giocatori) razionalmente
organizzati in squadre. Tali beni sono ceduti di volta in volta ai
consumatori (spettatori) direttamente o tramite strumenti
audiovisivi.
Il calcio, in
particolare, si è concretizzato in esercizio di attività economica
in pratica dal 1870, quando le società inglesi e scozzesi iniziarono
a recintare il terreno di gioco, a far pagare il biglietto per
assistere allo spettacolo e soprattutto a corrispondere un salario
ai propri giocatori.
Secondo la
tesi dell’insigne economista Jones del 1969, il fine ultimo di ogni
impresa è appunto quello del profitto e siccome le partite sono
confezionate necessariamente con il contributo di due squadre ne
consegue la necessità della massimizzazione dei profitti congiunti.
Questo rende indispensabile la nascita e la sopravvivenza
dell’organizzazione che raggruppa e disciplina l’attività delle
società, cioè la Lega.
Le attività
sportive e agonistiche in genere, nonché ogni competitività nei vari
ambiti della vita sociale, devono, in ogni modo, essere nobilitate
con sani principi che partono dall’amor proprio, inteso come cura e
valorizzazione della propria persona, al rispetto degli altri e alla
fattiva collaborazione di squadra. Solo in questo caso, la cultura
dell’infamia, marchiata dalla vergogna e dalla colpa non potrà
prosperare.
Timē e Aretē
rimarranno per sempre i modelli da seguire per tutti coloro che
fanno del loro stile di vita un esempio di onestà intellettuale,
morale e materiale nel difficile cammino della fedeltà e lealtà,
imprescindibili valori di una degna realtà umana.
Pubblicazione on-line del gennaio 2009
Visita il sito de “I Leoni di Messapia”
http://www.ileonidimessapia.it/ |