«Ce steve 'na vota 'nu viecchie,
e 'na vecchia areto a 'nu
specchio,
areto a 'nu monte...
Una vecchia filastrocca napoletana
Era il tempo di fine guerra ed abitavo con
la famiglia a Puccianiello, un paese della periferia a nord di
Caserta, proprio in prossimità del limite del parco della nota
Reggia di questa città. Qui il parco è particolarmente avvincente,
quasi fuori dal tempo, perché vi è dislocato il famoso «Giardino
Inglese» pieno di piante esotiche e più a monte, dal punto dove
poi viene giù una caratteristica cascata, si estende sul retro il
cosiddetto bosco di San Silvestro. Chi si addentra in questi luoghi
è come se fosse trasportato in un mondo surreale legato al mito, a
meravigliose favole. Un fantastico mondo in cui strani esseri pare
che si sentano girare qua e là.
Ecco una certa surrealtà che attraverso
questo scritto mi preme far profilare per presentare dei risvolti
personali, forse attinenti, che credo abbiano influito
considerevolmente sul decorso della mia vita.
|
Caserta. Giardino Inglese del parco della Reggia.
Fontana del Pastorello |
|
A quel tempo ero meno che un ragazzino ed
insieme a tre fratelli, più piccoli di me, ci piaceva
ascoltare
le storielle, di maghi, di fate e di orchi, che raccontava con
dolcezza 'a zi' Maria, un’anziana persona paralitica che, insieme
alla sorella, donna Felicetta e suo marito, don Rafel', anziani
anche loro, erano i proprietari della casa in cui si viveva.
Di quelle favole mi è rimasto impresso
nella mente una curiosa filastrocca, detta in napoletano, che spesso
le precedeva. Chissà perché, mi sono chiesto in seguito da grande,
ogni volta che mi ritornava in mente. Ma era talmente radicata in me
da provare gusto nel ripeterla mentalmente, ma a volte anche a bassa
voce. Perché?
Forse doveva costituire, per mano del
fato, un’amorevole azione protettiva o qualcosa del genere. Forse
anche perché potessi ora raccontare, a chi potesse recepirla, la
filastrocca in questione per trarre illuminazioni mentali. Quasi che
fosse il famoso bacio del principe per disincantare la bella
principessa addormentata ed il suo reame della nota favola. Viene da
sorridere? |
Eppure quanti “reami” sepolti nella mente,
ad un tratto, riemergono per semplici ed inspiegabili stimoli.
Dunque sentite la filastrocca napoletana:
«Ce steve 'na vota 'nu
viecchie,
e 'na vecchia areto a 'nu
specchio,
areto a 'nu monte...
Statte zitte che mò tu conte.
E tu conte dint' 'a tiana,
mammeta e patete i ruffiani».
Tradotta fa così:
«C'era una volta un vecchio, /
ed una vecchia dietro uno specchio, / dietro un monte... / Stai
zitto che or te lo racconto. / E te lo dico dentro un tegame, /
mamma e papà i ruffiani».
Come sembra ravvisarvi, c'è l’essenziale
del minimo della vita se non di più, che io intravedo nel modo
seguente. Il passato, che è anche punto di termine della vita in
quei due «viecchi» quando facciamo riflessioni davanti allo
specchio, vuol indicare al limite la nostra coscienza, ma è anche la
normale attività di pensiero. Il presente è il superamento del monte
delle asperità della vita riconducibile anche alla prospettiva del
mistero riposto nella fine di ogni cosa, la morte. Nel presente
l’emblema dei due «ruffiani» in noi che sono sempre i due
«viecchi», ci aiuta a svincolarci dalla superbia causa dello
svanire dell'amore per dar luogo ad un incerto e periglioso «fai da
te» che si ravvisa nella raccomandazione di «statte zitte»,
ossia rifletti prima di svincolarti dai due in questione, ovvero
prima di costituirti artefice di te stesso, se non vuoi sperimentare
la mortale solitudine del vuoto dell'anima.
E poi si tocca terra raccomandabile con la
«tiana», col vaso delle cose che sembrano amabili, ma anche
delle cattive sorprese frammischiate sapientemente (se si sta
“zitti”, però). Può servire il “digiuno” per evitare l’amarezza che
potrebbe trapelarsi in questa o quella ciotola del nutrimento, che,
gira e rigira, non è possibile evitare? O forse altre «tiane»,
più in là, ci sembrano migliori come amori che riteniamo ci
spettino, risolvano ogni cosa non più gradevole dei vecchi orcioli?
Ma se ciò fosse, come sembra che avvenga oggi, non restano che lo
specchio ed il monte, come voler dire attenzione a non corrompere
anche questi “due”, della casa della nostra memoria, dalle apparenze
poco o nulla incisive, ma che costituiscono le sostanziali “radici”
delle nostre origini divine.
‘A tiana dei racconti di zi’ Maria
Dunque «'A tiana» dei racconti di
«zi' Maria» sembra che alluda al nostro cranio in cui è
alloggiato il cervello, sede appunto della memoria. «'A tiana»,
intesa come emblema, ci potrebbe ricondurre al Sacro Calice del
sangue di Cristo e poi al mitico Graal dei cavalieri del Medio Evo,
considerando che questo termine dialettale, «tiana», è
relativo ad un tegame molto somigliante con un altro a forma di
bacile in uso nel Medio Evo.
Dai primi racconti sul Graal questo calice in principio era
–
ed è ancor oggi, in parecchi dialetti tra la Catalogna e le Fiandre
–
un bacile largo e basso, di materiale prezioso e pregevole fattura,
destinato a piatti di pesce e al loro elaborato intingolo, detto
anche «gradalis» o «gradale», «caro e gradito a chi
vi mangia». Il resto della storia a ritroso su questa incerta
coppa senza tanta apparente nobiltà, ci viene così tramandato dal
passato, ma anche tutt’ora sono in molti a cesellarla con contorni
persino fantasiosi.
Che dire del Graal? Meglio: cosa conta come emblema, al di là delle
fantastiche concezioni ingigantite oggi dai media della carta
stampata e dai cineasti? L'opinione che raccolgo dai diversi
scrittori a riguardo si impernia sullo slancio umano alla ricerca
della verità su se stessi e sugli altri; il simbolo del dono di sé,
dell’imitazione di Cristo nell’Incarnazione e nella Passione, della
Creazione stessa intesa come dono; perché il Graal è la figura
medievale dell’eterno mito di Ulisse, archetipo dei moderni ideali
di pace tra tutti i popoli, nel progresso e nella libertà. Insomma
tutte egregie memorie da ricordare e non oltraggiare con un vivere
da sconsiderati.
Quando la storia ci sfiora: un piatto per un imperatore
Ho raccontato della “Tiana di zi’ Maria”, vaghi
ricordi di quand’ero ragazzino a Caserta. Ora me sovviene un altro,
ancora di un piatto, ma vero e non fiabesco e anche piuttosto
importante per i suoi risvolti storici. Ero tredicenne e con la
famiglia ci si era trasferiti tre anni prima, il
1948, a
Trento. Io e la mia famiglia ci ambientammo presto, nonostante il
cambiamento, e non mi fu tanto difficile avere buoni amici trentini.
Trento mi piaceva, ma la permanenza in questa città durò poco,
perché l’anno successivo si rientrò a Caserta. Mio padre, che era
disegnatore del Catasto, ottenne il trasferimento nella città in cui
era nato e vissuto. Ricordo molto bene la via dove abitavo, si
chiamava Via Brigata Acqui, posta in prossimità di Piazza Venezia,
non tanto distante dal Castello del Buon Consiglio.
Ma ecco la storia del piatto.
Accanto alla mia abitazione, c’era lo studio di un
valente scultore di opere in legno. Ed io che avevo molta
disposizione per questo genere d’arte ero spesso in questo
laboratorio, il cui titolare mi prese a benvolere insegnandomi la
sua arte. Di lui non ricordo più il nome, ma ho impresso nella
memoria ancora oggi un lavoro che stava facendo con molta cura, un
piatto tutto intarsiato. Mi attraeva il procedimento che seguiva
l’artista nel ricavare dal grezzo quel piatto, ma era anche così per
le altre opere che lui eseguiva.
Però questa scultura era speciale perché fu
commissionata per essere destinata come regalo simbolico, nientemeno
che per il matrimonio dell’Imperatore Austriaco e Re d’Ungheria,
ovviamente non regnante, ma in carica a tutti gli effetti.
Si era nel 1951 e l’imperatore appena menzionato è
Franz Josef Otto Robert Maria Anton Karl Max Heinrich Sixtus Xaver
Felix Renatus Ludwig Gaetan Pius Ignatius von Habsburg-Lothringen,
noto semplicemente come Otto d’Asburgo... e con un bel respiro per
riprendere fiato.
Il piatto, a scultura finita, aveva delle belle
incisioni allegoriche sul fondo, completate sul bordo con i nomi
delle tre città del Trentino e Alto Adige, scritti in tedesco: Ala,
Trient und Bozen. La pregevole scultura venne poi colmata con la
terra di questi tre luoghi e, come già accennato, venne offerta a
Otto D’Asburgo che convolava a nozze con Nancy la Principessa
Regina di Sassonia-Meiningen.
Chi erano i committenti di questo significativo
regalo, non so dirlo con precisione, la questione relativa allora
non sfiorò il ragazzino in me. Ma non è difficile intuirlo sapendo
che ci sono nel Trentino e Alto Adige non poche persone affezionate
ad un passato rimasto impresso in loro, allorché gli avi di Otto
D’Asburgo facevano la storia in Europa.
Adesso ne parlo con dovizia di particolari a me noti,
ma allora questo episodio passò quasi inosservato persino in seno
alla mia famiglia che sapeva della mia frequentazione assidua del
laboratorio di scultura dove fu realizzato il misterioso piatto. Ma
ero io a non aver mai detto del fatto ai miei, chissà perché.
Ma oggi, sì proprio oggi, per strane e inspiegabili
trame del destino: giusto in relazione all’aver conosciuto
casualmente l’amico, Schützen Heil, Enzo Cestari, attraverso il suo
sito
Die Schützenwelt. Colgo l’occasione ringraziandolo per aver
ospitato nel sito due miei scritti che riguardano il patriota
Andreas Hofer e l’Imperatore Massimiliano I in relazione al famoso
artista di Norimberga, Albrecht Dürer. Si tratta di memorie da
ricordare, come quella di ieri,
19 aprile 2009, a Sant Romedio per Andreas Hofer. Forse è da qui che
si è innescato un ignoto travaso di forze che mi hanno indotto a
scrivere questo breve saggio.
Il titolo di questo scritto allude alla memoria del
nostro passato, della nostra terra natale, una certa “Regina”, e per
questo scopo mi sono valso della filastrocca napoletana. Ma
l’approfondimento del disegno allegorico presentato all’inizio, che
mi era sembrato ben chiaro con l’interpretazione relativa in
relazione alla filastrocca, invece ha mostrato qualcosa di più.
Nulla di accertato sulla valenza scientifica del suddetto mio
disegno, ma resta pur sempre un filo conduttore tra il fisico e
metafisico, l’unico capace di sondare i meandri dell’animo umano ove
soggiornano memorie vitali perché sopravvivano.
Maria Sofia di Borbone, la regina che non si arrese mai
Del mio disegno allegorico di copertina risulta
comprensibile la rappresentazione del tegame a mo’ di insalatiera
posta a rovescio sotto il poggio sul quale siedono, uno compenetrato
all’altro, il giovinetto (l’apprendista) e l’anziano che dà l’idea
di un mago. Ma è anche l’uomo che fa riflessioni sulla sua vita
trascorsa. Più da vicino il tegame cela una rappresentazione
geometrica (un ellisse con un triangolo) con accanto una sorta di
occhio. Si tratta di allusioni a miei studi matematici per i quali
ho nutrito nel tempo grande interesse e che mi hanno permesso di
portare a termine un libro pubblicato di recente in formato E-book,
"I Due Leoni cibernetici".
|
La regina delle due Sicilie, Maria Sofia di Borbone |
|
L’occhio si riferisce a quello egizio di Ra poiché la
geometria si rifà alla stessa che tutti gli studiosi di egittologia
hanno presunto sul conto della piramide di Cheope. Lo stesso occhio
è posto giusto in corrispondenza della mia casa paterna che affaccia
proprio di fronte al palazzo della Reggia vanvitelliana a mo’ di
scanno dei due assorti nella meditazione.
Resta però poco chiaro ciò che si può celare dietro il
bel volto della giovane donna tanto mesta e triste. Ma oggi, come
sopra detto, è un giorno particolare poiché mi è sorta nella mente
la possibile spiegazione. Naturalmente sono cose da racconti
fantastici che solo ai bambini sembrano veri. Ma chi,li fa
sopravvivere in età avanzata, sente in sé che è possibile. Al
limite, se non altro, il lato positivo è che serve a far riaffiorare
antiche memorie degne di essere ravvivate, allo stesso modo com’è
per esempio con Andreas Hofer tutti gli anni il 20 febbraio.
|
Certo non si può negare l’attaccamento speciale che
mostrò l’eroica regina delle Due Sicilie, Maria Sofia di Borbone,
che fece di tutto per salvare il suo regno.
«Femme hèroique qui, reine soldat, avait fait elle
meme son coup de feu sur les remparts de Gaete.»
Così Marcel Proust ne La prisonnière, canta
della regina soldato, la diciannovenne Maria Sofia di Borbone, che
sugli spalti di Gaeta non esitò a sostituire un artigliere ferito a
morte, continuando il fuoco contro gli assedianti piemontesi. Il
mito dell’eroina di Gaeta non è stato mai offuscato dal passare del
tempo, anche se i testi di storia hanno ignorato o addirittura
vituperato la figura, la personalità e il comportamento eroico
dell’ultima regina delle Due Sicilie. Gabriele D’Annunzio definì
Maria Sofia “l’aquiletta bavara che rampogna”, intendendo con queste
parole disprezzare la regina che si oppose con tutto il suo coraggio
all’usurpazione sabauda del Regno delle Due Sicilie. Maria Sofia,
infatti, tentò di riconquistare sino all’ultimo della sua vita
quella patria meridionale che lei, tedesca di nascita, aveva fatto
sua e profondamente amata.
Maria Sofia (chiamata affettuosamente “Spatz”,
cioè passerotto), nacque nel
1841 a Possenhofen (Baviera) da Massimo, duca di Baviera, e da
Ludovica di Wittelsbach. Era la quinta di nove figli. Tra le sue
sorelle la più nota sarà Elisabetta (“Sissi”), Sissi che si sposò
nel 1854 con il ventiquattrenne Francesco Giuseppe, Imperatore
d’Austria. Maria Sofia trascorse la giovinezza in Baviera; dal padre
aveva ereditato l’amore per la natura, per la caccia, per i cavalli,
i cani e i pappagalli. Era di carattere aperto, pronta a
familiarizzare con le persone più umili, indipendente e
anticonformista amava l'equitazione, il tabacco, la fotografia.
Nel
1858, a 17 anni, fu promessa a Francesco di Borbone, duca di
Calabria ed erede al trono delle Due Sicilie. Il matrimonio doveva
rafforzare i legami con l’impero austriaco. Maria Sofia non
conosceva Francesco di persona, aveva avuto solo l’opportunità di
vederlo raffigurato in una sua miniatura nella quale appariva
d’aspetto gradevole.
Dopo la cerimonia di fidanzamento,
avvenuta il
22 dicembre 1858,
venne celebrato il matrimonio per procura la sera dell’8 gennaio
1859. Dopo qualche giorno, accompagnata dalla sorella imperatrice,
si recò a Trieste, dove l’attendevano i rappresentanti della Casa
Reale delle Due Sicilie con le fregate Tancredi e Fulminante, su cui
il 1° febbraio s’imbarcò per Bari. Nella città, in cui erano stati
preparati grandiosi festeggiamenti, l’attendevano Ferdinando II,
ammalato e sofferente, e il suo sposo. La partenza per Napoli
avvenne per mare il 7 marzo, mentre le condizioni del Sovrano si
aggravavano sempre più. Lei era molto bella, il corpo alto e snello,
gli occhi ridenti, i lunghi capelli neri, l’espressione dolce. Il
suo anticonformismo contrastava con il clima tradizionalista della
corte borbonica.
Ma la sua bellezza e la sua personalità
conquistarono il popolo meridionale e Francesco, soggiogato dal suo
fascino, le lasciava ampia libertà. Maria Sofia sconvolgeva le
abitudini della corte: fumava, andava a cavallo, tirava di scherma,
si faceva fotografare, si bagnava nelle acque del porto militare,
portava i suoi cani in sala da pranzo. Era al centro delle cronache
mondane, mentre in Italia il clima politico si faceva più difficile:
il
27 aprile 1859 il granduca di toscana Leopoldo lI, zio di Francesco
II, era stato costretto ad allontanarsi da Firenze a causa dei moti
fomentati dai Savoia.
Da qui in poi è penoso fare la cronaca
delle vicende del bel Regno di Maria Sofia. Tutto scendeva per una
china come preordinata nel tempo, come sembra segnata sulla carta di
Caserta ed in particolare della località a me familiare, la
Puccianiello dei “racconti di zi’ Maria”. Tuttavia è proprio nel
clima della sventurata sorte del Regno delle due Sicilia che Maria
Sofia si è dimostrata agli occhi dell’Europa intera “la regina
che non si arrese mai”.
Durante la prima guerra mondiale trascorse
gli ultimi mesi di guerra nei campi di prigionia italiani, facendo
assistenza ai “suoi” sudditi, che ignoravano chi fosse quella
vecchia signora. Trascorse, solitaria, i suoi ultimi anni a Monaco,
dove si spense nella notte del 18 gennaio del 1925.
Dal
18 maggio 1984 Francesco II, Maria Sofia e la loro figlia Maria
Cristina riposano nella Chiesa di Santa Chiara in Napoli.
E la bella e misteriosa “Regina areto a
‘nu specchio” del mio disegno? La vedo come un busto marmoreo,
un degno emblema posto in onore su una tomba speciale. Sotto di lei
si vede sul disegno un riquadro bianco con tante crocette: è il
cimitero di Caserta e qui riposano i miei cari genitori, i miei
nonni, parenti e amici ora non più.
È questa la mia memoria, che
nessuno mai cancellerà.
Brescia,
20 aprile 2009
[1]
Sito Internet:
http://eleaml.org/
|