’E spingole
frangese,
è una canzone della Piedigrotta 1888 con testo di Salvatore Di
Giacomo e musica di Enrico De Leva. Di Giacomo ha solo 28 anni ma è
già celebre, ha scritto canzoni di grande successo quali Nannì,
Si’ ’a capa femmena, La frangetta, Napulitanata,
Era de maggio, Marechiare, Oilì, oilà, Oi
marenà, Oje Carulì, ’A retirata, Luna nova,
Mena, me’! e tante altre ancora, collaborando con i migliori
musicisti del momento: Costa, Tosti e Vincenzo Valente. Per il poeta
il 1888 è l’anno, oltre che di ’E spingole frangese, di altre
due grandi successi: ’E ccerase!... (un’altra canzone della
Piedigrotta) e Lariulà. De Leva, invece, ha 21 anni, ha
studiato al conservatorio di S. Pietro a Maiella di Napoli senza
conseguire alcun diploma, ha già composto, la leggenda vuole all’età
di 12 anni, la canzone Nun me guardà (versi di Pellinis,
pseudonimo del giornalista e direttore del San Carlino, Leopoldo
Spinelli) canzone che, inviata alla casa editrice Ricordi, nel 1884,
procura al diciassettenne musicista un contratto che lo impegna a
musicare cinque canzoni all’anno.
De Leva
comincia così a scrivere canzoni napoletane, alcune delle quali
hanno un discreto successo ma tutte finiscono ben presto nel
dimenticatoio. Nel 1886 musica la poesia Rosa Rusè di
Salvatore Di Giacomo (Rosa Rusè, si è lecito, / vurrìa sapè na
cosa, / pecché t’ha fatto mammeta, / pecché accussì cianciosa?)
e l’anno successivo i versi di Ferdinando Russo, Nanninè. Ma
il primo successo non effimero arriva solo nel 1887 con un testo di
S. Di Giacomo ’A nuvena, un brano di tipo natalizio che
richiama il motivo pastorale degli zampognari. È, però, solo con la
canzone ’E spingole frangese, scritta per la Piedigrotta
1888, che riesce a produrre un autentico capolavoro, inserito
rapidamente nel repertorio dei posteggiatori, di tutti i divi del
café-chantant e di un numero incalcolabile di cantanti; un successo
davvero internazionale!
I
Nu juorno me ne jette da la
casa,
Jenno vennenno spingole
frangese;
Me chiamma na figliola:
“Trase, trase!
Quanta spingole daje pe’ nu
turnese?”
E io che songo nu poco
viziuso,
Subbeto me ’mmuccaje dint’a
sta casa.
Ah! Chi vo’ belle spingole
frangese!
Ah! Chi vo’ belle spingole,
ah, chi vo’!...
II
Dico io: “Si tu mme daje tre
o quatte vase,
Te donco tutte ’e spingole
frangese,
Pizzeche e vase nun fanno pertose[1],
E puo’ jenghere ‘e spingole
‘o paese!
Sentite a me, ca pure
’mparaviso
’E vase vanno a cinco nu
turnese.
Ah! Chi vo’ belle spingole
frangese!
Ah! Chi vo’ belle spingole,
ah, chi vo’!...
III
Dicette: “Bello mio, chisto
è ’o paese
Ca si te prore ’o naso muore
acciso”.
E io rispunnette: “Aggi
pacienza, scusa,
’A tengo ’a ’nnammurata e
sta ’o paese!
E tene ’a faccia comme ’e
ffronne ’e rose,
E tene ’a vocca comme a na
cerasa!
Ah! Chi vo’ belle spingole
frangese!
Ah! Chi vo’ belle spingole,
ah, chi vo’!...
Enrico De Leva
non riuscirà più ad esprimersi sul livello qualitativo di questo
brano: altre sue canzoni del 1888, Lacreme amare e Bonnì!
Bonnì! (entrambe con versi di S. Di Giacomo) e Vocca ’e rosa
(testo di G. Turco) non lasciano alcuna traccia nella storia della
canzone napoletana. Il compositore ritenta più volte il metro
allegro di ’E spingole frangese senza ritrovare più la felice
ispirazione. Ma bisogna anche dire che sua attenzione è rivolta
maggiormente alla composizione più eletta, la preferita dal suo fine
temperamento di elegante musicista, la romanza da camera e, accanto
a questa, ai brani per pianoforte nonché alla musica operistica.
Colto e
raffinato, De Leva è uno dei musicisti preferiti da Salvatore Di
Giacomo. Il poeta, nel suo articolo sulla canzone di Piedigrotta, lo
include tra i musicisti più dotati e tecnicamente meglio preparati.
Non sono molte, comunque, le canzoni che i due realizzano insieme:
oltre a quelle già citate ci sono Voce luntana e la splendida
A Capemonte (1890).
’E spingole
frangese
è una composizione che ha per protagonista un «tipo» napoletano,
cioè uno di quei personaggi caratteristici che compongono la
popolazione locale. In particolare, in questa canzone troviamo un
venditore ambulante di spille da balia. La tematica dei «tipi» non è
una novità nella canzone partenopea (così come non lo è nel presepe
napoletano). Non c’è da meravigliarsi quindi che anche Salvatore Di
Giacomo non resti indifferente al loro fascino assumendo a
protagonisti di alcune sue canzoni personaggi come la friggitrice,
la cantenera, la purpaiola, la zingara, il venditore
di ciliegie, il pizzaiolo ambulante, il tammorraro, il
capillò, il marinaio, l’acquaiolo, il guappo, il militare, ecc.
Questa canzone, però, è un po’ diversa dalle altre composizioni del
nostro autore incentrate sui «tipi» ed ora ne vediamo il perché. Le
canzoni digiacomiane sui «tipi» presentano regolarmente un carattere
erotico-sentimentale: troviamo che il poeta o amoreggia con i «tipi»
femminili oppure, identificandosi con i «tipi» maschili, esprime le
loro pulsioni amorose. Ma, nell’identificarsi di volta in volta in
personaggi diversi, finisce per non esprimere una sua esperienza
personale, un sentimento reale, veramente vissuto. Di Giacomo, in
realtà, ritiene di potersi
rendere interprete del sentimento popolare – secondo
una presunzione tipica del suo
tempo – con la conseguenza di esprimere
la pulsione amorosa come un sentimento
astratto dalla dimensione esistenziale, non quale passione vera.
Perciò, nel modo in cui viene espresso, l’amore e il desiderio con
cui il poeta guarda le belle venditrici e bottegaie appaiono
stereotipati, convenzionali, col risultato che tutti i personaggi
femminili risultano sfocati, privi di una loro consistenza, di una
specifica realtà al di fuori della mente che li ha concepiti.
Il corteggiamento perciò appare fine a sé stesso, il poeta più che
cantare l’oggetto desiderato sembra cantare l’amore.
Queste prevalenza dell’alone
sentimentale presente nelle altre canzoni
dei “tipi” fortunatamente manca in ’E spingole frangese e ciò
in virtù del fatto che la canzone costituisce la rielaborazione di
un canto popolare. Tale canto è stato variamente riportato. Così nel
suo libro Canti e tradizioni popolari in Campania Roberto De
Simone trascrive una tammurriata popolare, la Tammurriata
di Pimonte, nella quale si ritrova il testo di ’E spingole
frangese. Si tratta di un canto di difficile decifrazione che
vede il protagonista recarsi un paese chiamato Matto per vendere
spille da balia (“spille francesi”). Qui trova una donna ad un
balcone che, alla sua proposta di barattare baci con il cesto delle
spille, gli risponde spiegandogli che con questa richiesta egli
rischia di finire ammazzato. Dopo ciò il personaggio narrante
(quale? ancora lo spillaio? ma si tratta ancora della stessa
storia?) si costruisce un coltello e quando Lei (chi? la donna al
balcone?) va per baciarlo la pugnala ripetutamente al cuore
(perché?). Dopo il delitto, la mamma della donna afferma che la
figlia è morta per amore (?!).
Come si vede
si tratta di una storia emblematica il cui tragico epilogo è
preceduto, sorretto e collegato a elementi propri del gioco
erotico-sessuale. Sesso e morte, quasi l’uno l’altra faccia
dell’altro, un tema
che domina tutto il canto.
Le allusioni sessuali, esplicite o sottointese, sono numerose: un
io-narrante al quale volle nganna una donna [cioè lo
fa smaniare di desiderio],
un eventuale rifiuto della mamma di lei a “concedere” la figlia
equiparato a un “metterla” a ‘nfraceta’ [si intende la
vagina] e poi espressioni come spingi-spingi e
infila-infila o come il campanaro[2]
che scampana. A questi contenuti si accompagnano, come già detto,
immagini di morte: c’è donna Teresa[3]
e c’è anche il coltello che da una parte è simbolo sessuale e
dall’altra di violenza e morte.
Questo canto,
nel quale si possono riconoscere le tematiche tipiche del canto
popolare quali la donna, il sesso, la morte e la madre, secondo De
Simone, farebbe riferimento ad un linguaggio magico-rituale basato
su metafore ed espressioni consolidate relative a un certo codice
culturale e ad un carattere simbolico “aperto” che assumerebbe
significati diversi secondo il cantatore, il clima dell’esecuzione e
il tipo di comunicazione collettiva in quel momento istaurata.
La canzone del
Di Giacomo però non solo ignora tutte queste implicazioni simboliche
e culturali ma non sembra nemmeno seguire completamente il testo
della tammurriata: infatti il venditore di spille
digiacomiano dopo aver fatto le avances verso la giovane
cliente fa un rapido dietrofront appena edotto sul fatto che sta
giocando col fuoco tanto da mettere a rischio la sua stessa vita.
Nella
tammurriata, invece, manca la ritirata del venditore e non si
narra dell’esito dell’approccio. Bisogna, però, tener presente, come
spiega De Simone, che in questi canti popolari c’è una notevole
componente di improvvisazione. Non si tratta, però, di una
improvvisazione assoluta: il cantatore utilizza un ampio repertorio
di versi tradizionali che estemporaneamente mescola, frattura e ne
modifica la struttura
all’interno di una personale codificazione e significanza degli
stessi mentre modula il canto con una creatività immaginativa
spontanea ma vincolata a strutture melodiche esemplari, presupposte
e precomposte. Questo
fatto potrebbe essere la spiegazione del perché nella stessa
Tammurriata di Pimonte troviamo sia i versi di Fenesta ca
lucive che quelli di ’E spingole frangese e potrebbe
anche essere un significativo indizio circa l’ipotesi che i versi
relativi al coltello e all’uccisione della donna potrebbero
appartenere a un materiale tradizionale di diversa estrazione.
Oltre che
nella Tammurriata di Pimonte, il testo di ’E spingole
frangese si ritrova in varie versioni nei canti popolari di
tutte le provincie meridionali. Questa è la versione di Pomigliano
d’Arco:
Nu jornu mme
ne vavo casa casa
vavo vennenno
spingole francese.
Esce na nenna
da dinte na casa:
Quanta
spingole daje pe’ no tornese?
– Io non le
benco a grano e manco a tornese,
le benco a chi
mme dona duje vasi.
– Bello
figliuolo, nun parlà de vasi,
tengo ninno
mio ch’è no ’mbiso.
– Nenna, si
mme li duone duje vase,
io te dongo le
spingole e pure ’a spasa.
– Te l’aggio
ditto, no’ parlà de vase,
ca ’mbocca a
la porta mia tu ce si’ acciso.
mentre a
Frasso Telesino (Benevento) C. Calandra ha raccolto questa variante:
No giorno me
partietti da la casa,
jetti vennenno
spingole francese;
Me dicette na
donna: – Trasi, trasi!
Quante
spingole dai pe’ no tornese? –
– Donna, si te
fai dare quatto vasi,
te dongo la
sportella e li tornisi. –
– Bello
figliuolo, non parlà de vasi,
ca a sto paese
tu ce muori acciso! –
– Zitto,
nennella mia, aggio pazziato:
la nnammorata
mia sta a lo paese.
Forse Di
Giacomo ha utilizzato proprio questa versione per la sua canzone. Si
è già detto, infatti, parlando di Marechiaro, che il poeta
conosce bene i canti popolari non solo della sua regione ma anche di
altre regioni d’Italia. Questi canti gli offrono molto materiale sul
quale lavorare: la serenata, la ninna-nanna, i gridi dei venditori,
il giardino, ecc. ‘E spingole frangese, però, più che uno
spunto dal quale trarre ispirazione costituisce una vera e propria
traduzione-rielaborazione senza troppi adattamenti. Roberto De
Simone, che ha recuperato, a riprova dell’attività digiacomiana di
ricercatore della creatività popolare, brani della corrispondenza
tra il poeta e Lamberto Loria, nell’album della Nuova Compagnia di
Canto Popolare del 1974, Li sarracini adorano lu sole, ha
proposto una versione della canzone in forma di tammurriata, che
differisce di poco a quella di Pomigliano:
‘Nu juorno me
ne vavo casa casa
vavo vennenno
spingule frangese.
Jesce ‘na
nenna da dint’ a ‘na casa:
Quanta
spingole daje pe’ nu turnese?
Io non li
benco a grano,manco a turnese,
li benco a chi
me da ‘na duje vasi.
Bellu
figliuolo, nun parla’ de vasi,
ca ‘‘mmocca la
porta mia, ca ‘nfaccia la porta mia,
ca ‘mmocca la
porta mia ce muor’’acciso..
Te l’aggio
ditto, nun parla’ de vase,
ca tengo ninnu
mio, ca ce sta ‘o ninnu mio,
ca teng’’o
ninnu mio ca è no ‘mbiso...
Nenna, si me
li duone duje vase,
io te dongo li
spingole,te dongo li spingole,
te dongo
tutt’’e spingole e pure ‘a spasa.
Te l’aggio
ditto, nun parla’ de vase,
ca a ‘stu
paese tu ce rieste acciso....
Zitta nennella
mia aggio pazziato,
l’annammurata
mia sta ‘a lu paese.....
A Di Giacomo
riesce particolarmente bene la rielaborazione e l’ampliamento dei
versi del vecchio canto popolare. La rivisitazione digiacomiana
mantiene l’impostazione di racconto in prima persona ma presenta ora
una veste elegante, giocosa e galante. Il poeta dà alla storia una
scansione di carattere teatrale articolandola in tre momenti:
– uscita di
casa per lavoro e incontro con la donna
– le avances
sessuali
– il diniego
della donna, l’avvertimento del pericolo e le scuse del
protagonista.
La perfezione
tecnica raggiunta dal poeta risolve in naturalezza ciò che invece è
frutto di studi. L’ «avventura» del venditore di spille viene
raccontata in tre strofe ciascuna delle quali composta da due
quartine. La prima quartina di ogni strofa accoglie il materiale
popolare così sapientemente riproposto. La seconda, invece, può
essere suddivisa in due distici: il primo
costituisce un malizioso
commento del poeta mentre il secondo forma il ritornello.
Ogni strofa viene arricchita da
ritornello, un
distico con l’ultimo verso tronco, che riproduce il grido del
venditore ambulante, ovvero il canto con cui lo spillaio avverte
della sua presenza e cerca di vendere la sua merce. In questo modo
’E spingole frangese assume la tradizionale forma della
canzone napoletana: tre strofe con ritornello. Il tutto è
magistralmente rilavorato, con raffinatezza di linguaggio e
genialità di concezione formale, con variazioni continue e giochi
sottili di rispecchiamenti, bilanciamento di simmetrie e asimmetrie,
tali da trasformare il tema e la situazione in una raffinata forma
d’arte capace tuttavia di conservare evidenti tracce di viva e
sonora popolarità. Ma per meglio comprendere tutto ciò esaminiamo
gli aspetti di unità di ’E spingole frangese, cioè la sua
compattezza di linguaggio, di tono e di struttura.
Anzitutto,
osserviamo che anche il titolo rientra nel carattere di compattezza
della struttura: esso come sempre fa parte integrante del testo e
ricorre continuamente non solo nel ritornello ma anche nelle strofe.
Secondo una tendenza spiccata del Di Giacomo, le rime di ’E
spingole frangese sono insistentemente, e si può dire
completamente, armonizzate tra loro, con rispondenze sia all’interno
della stessa strofa che tra una strofa e l’altra. Nella prima strofa
le due rime (-asa, -ese) consuonano fra di loro e la
sequenza casa /
frangese si ripete tra l’ultimo verso e il primo del
ritornello; nella seconda strofa la prima rima riprende quella
iniziale e l’assonanza vase
/ pertose
la troviamo anche interna. Altre assonanze interne sono quatte
/ tutte e
naso /
acciso, quest’ultima poi unita alla rima interna
prore /
muore rende tutto il secondo verso della terza strofa
un susseguirsi di assonanze e rime. Tutte le strofe consuonano poi
per la prima rima. Jenno vennenno forma una rima interna
dentro lo stesso verso, mentre dicette
/ rispunnette
è una rima all’interno della strofa, la terza, che si collega a
jette della prima e tutte e tre le rime consonano con quatte
/ tutte.
Anche ammuccaje /
daje è una rima interna tra strofe diverse. In
apparenza ’mparaviso non presenta rima ma solo un’assonanza
con tornese e frangese, ma in realtà le cose vanno
diversamente: come la rima iniziale della prima strofa (-asa)
è ripresa nella terza (cerasa), così la rima –iso di
’mparaviso è ripresa anch’essa nella terza (acciso).
Analogamente accade tra pertose e rose. Dunque molti
versi hanno una loro eco.
Si possono
aggiungere le ricorrenze verticali
anaforiche[4]:
e tene ‘a della terza strofa e quella del ritornello ah! Chi
vo’ belle spingole ed ancora la ricorrenza epiforica[5]
paese che funge anche da rima nella terza strofa. Troviamo
così disseminate nel testo specularità, echi, dissolvenze, richiami
ipertestuali, che piegano e trasformano il tessuto popolare.
In definitiva, osservando il totale dei collegamenti non si può non
notare che ’E spingole frangese, del resto come molte altre
liriche digiacomiane, è un testo di straordinaria omogeneità
timbrica, e dunque atmosferica (che è qualcosa di più preciso di
quella che sarebbe una generica “musicalità”).
Poniamo ora la
nostra attenzione sullo sviluppo narrativo per quanto esso sia in
parte fissato a priori dal canto popolare originario. Le prime due
strofe si concludono sapientemente “al momento giusto” con una
tecnica quasi teatrale in modo da creare una situazione di curiosa
attesa. La prima strofa si chiude, infatti, con una di quelle pause
tipiche dell’azione scenica: lo spillaio dichiara di essere
“vizioso” (donnaiolo) e si mmocca (si introduce) in casa
della donna. Questa interruzione lascia sospesa un’avventura che
nelle intenzioni del protagonista vorrebbe essere galante se non
proprio erotica. La seconda strofa si conclude con l’offerta
dell’intero cesto di spille in cambio di qualche bacio non disgiunto
da palpeggiamento, cosa che evidentemente non lascerebbe tracce e
quindi non comprometterebbe la donna (pizzeche e vase nun fanno
pertose). L’azione viene qui interrotta prima della risposta
risolutiva dell’interlocutrice. È solo nella terza strofa che il
gioco delle le avances sessuali trova una risposta, che è
negativa.
L’influsso del
canto tradizionale opera qui meravigliosamente: sono le canzoni come
questa che Di Giacomo considera vere canzoni, perché scritte per il
popolo ed ispirate al canto del popolo. Con ’E spingole frangese
il poeta crea un canto brillante e articolatissimo, una raffinata e
perfetta fusione tra contenuto e forma.
L’avventura
sessuale, sbrigativa e prosaica (una “sveltina”), possibile a chi
per lavoro è costretto a continui spostamenti, viene presentata qui
sulle note dello scherzo e dell’ironia e condotta secondo gli schemi
degli alterchi amorosi della migliore tradizione popolare,
riproducendo con ritmo raffinato l’erotico ammiccamento popolano.
L’esito ameno e incredibilmente piacevole è ottenuto grazie alla
finezza stilistica del poeta capace di trasformare una situazione
concreta, dotata di un peso specifico che riporta alla realtà
materiale e quotidiana, in un gioiello di eleganza, un quadretto
fresco e vivace, frizzante di grazia e di brio che non si
sottrae di certo al gioco
degli “ammiccamenti” che amabilmente affiora tra i versi e che
lascia trasparire qua e là qualche sorrisetto malizioso.
Malgrado la ben nota
difficoltà a musicare versi marcatamente musicali nondimeno De Leva
supera la prova creando, con scintillante arguzia, una melodia,
ispirata anch’essa come il testo poetico alla musica popolare, una
straordinaria composizione che Paliotti definisce «non
altro che un garbato scherzo, una satira a se stessa,
un ghirigoro fantasmagorico».
Caratteristica di questo componimento,
oltre la spontaneità dell’ispirazione, è l’eleganza e la
raffinatezza armonica: è un gioiello di leggiadria e di fertile
fantasia che si modula tra l’allegro brillante e il moderato con
qualche eco, nel ritornello, del canto a distesa tipico delle “voci”
degli ambulanti napoletani. La musica, vivace e capricciosa, scorre
frizzante sul filo del gioco, quasi un duetto a dispetto,
acquistando un carattere brioso e ironico, piacevole all’ascolto e
puntando con piglio e brillante disinvoltura ad una sottile vena di
umorismo. La melodia recupera cultura, tradizioni e forme popolari
in un felice incontro tra suono etnico e composizione d’autore, un
connubio dal quale trapela l’eccellente qualità di una scrittura
musicale caratterizzata da effetti coloristici, accenti insinuanti e
vivacità di impianto.
La forma della
composizione è quella classica: introduzione e alternanza
strofa/ritornello che si ripete per le tre strofe presenti. Qui la
differenza tra strofa e ritornello non si realizza sul parametro
della tonalità (abbiamo un La maggiore che non cambia) ma sul quello
del ritmo: si passa dal tempo 4/4 al 2/2 e da un andamento allegro
brillante ad un moderato per ritornare al ritmo iniziale nella coda.
Come detto, De Leva, in seguito non riuscirà più a ripetere la
grazia, la leggiadria, la felice vena creativa che trovano spazio in
questa canzone.
il termine
sta a significare propriamente “campanile” ma potrebbe
indicare anche chi suona le campane, pure se questa figura
viene espressa più correttamente dal lemma campanarìsta.
In tutti i casi si tratta di un simbolo sessuale. Il
campanile evoca un fallo eretto mentre più articolato è il
discorso per il suonatore di campane: per far suonare una
campana egli deve tirare a sé la corda... ma subito dopo ne
riceve un’attrazione...il campanaro “controlla” il ritorno
della
stessa... Lo
scampanare ha un movimento avanti-indietro che richiama i
movimenti dell’amplesso tenuto conto pure del fatto che il
batacchio della campana evoca il fallo mentre la campana che
ha la forma di un calice rovesciato rappresenta il ventre
femminile; il contatto dei due genera una vibrazione, un
suono, che si propaga da quel punto e investe tutto
l’ambiente circostante.
L’epifora è la figura retorica speculare all’anafora e
consiste nel ripetere la stessa parola o le stesse parole
alla fine di versi successivi, per rinforzare un concetto. È
quindi particolarmente enfatica, data la maggiore enfasi
naturalmente associata all’ultima parte del periodo. Un
celebre esempio di anafora è offerto da La pioggia nel
pineto di d’Annunzio: «Più sordo e più fioco /
s’allenta e si spegne. / Solo una nota /
ancor trema, si spegne, / risorge, trema,
si spegne».
Renato Gargiulo
Pubblicazione de Il Portale del Sud, febbraio 2016 |