Libia: la NATO può
vincere la guerra, ma perdere il dopoguerra
di Agostino Spataro
Decennale 9/11: invece del processo si celebrerà una
vedetta di Stato
Gheddafi farà la stessa fine di Osama Bin Laden?
Probabilmente, sì. Alcuni lo auspicano, taluni lo
minacciano, apertamente.
Se ciò dovesse accadere non sarà certo per “spirito di
vendetta degli “insorti”. Quali ragioni avrebbero di
vendicarsi quei suoi sodali che fino all’altro ieri, per
42 anni, hanno comandato e condiviso col dittatore
potere e ricchezza?
Sarebbe ucciso per tappargli la bocca, per evitare che
in un processo equo e pubblico potesse chiamare in
correità i suoi ex amici, libici e internazionali. Del
resto, la soluzione sarebbe in linea con la sorprendente
decisione assunta dalla presidenza Usa di fare assassinare
Osama Bin Laden, facendone addirittura sparire il corpo.
Per tale decisione molti hanno esultato. La gran parte
dei cittadini Usa e del mondo intero, invece, hanno
visto in questo atto fin troppo sbrigativo la negazione
di un loro diritto fondamentale: quello di poter
processare un capo terrorista che- secondo la versione
ufficiale- è stato l’autore del più tremendo attentato
della storia che provocò circa tremila vittime innocenti
statunitensi.
Insomma, il diritto alla verità, alla giustizia vera, non sommaria.
Quale migliore celebrazione del
Decennale se il prossimo 11 Settembre si fosse aperto,
a New York, il processo a Osama Bin Laden per
l’accertamento pieno delle responsabilità e della
verità?
Invece, sarà celebrata soltanto un’oscura vendetta di
Stato.
Con Gheddafi bisognava chiudere qualche anno fa, invece…
Con Gheddafi il copione potrebbe ripetersi, per
evitare che, parlando in un processo, possa creare molti
imbarazzi e bloccare fulminanti carriere politiche in
Libia e all’estero.
Soprattutto, di tanti capi di Stato occidentali i
quali, nonostante il dittatore libico avesse ammesso la
tremenda responsabilità per gli attentati ai due aerei
civili nei quali perirono circa 600 persone innocenti,
lo hanno premiato accogliendolo nel club esclusivo dei
loro amici e protetti..
Con Gheddafi, bisognava chiudere allora, isolandolo e
invocando il principio di giustizia. Invece, non se ne
fece nulla
. Nemmeno al Tribunale dell’Aja
hanno aperto un fascicolo di atti relativi. È bastato
che il colonnello pagasse un indennizzo alle famiglie
delle vittime (ch’era la conferma agghiacciante della
sua responsabilità) per fare esattamente il contrario
di quanto andava fatto.
Si è avviata, infatti, fra i capi di Stato e di
governo dell’Occidente una sorta di gara a chi per prima
riusciva a “sdoganare” un terrorista reo confesso, a
riceverlo presso le più prestigiose cancellerie,
baciandogli persino la mano. Tutti, non solo Berlusconi
che si é spinto a baciargli la mano.
Compresi, cioè, i signori Sarkoszy, Obama e i premier inglesi
che, come “cadeau”, gli hanno consegnato libero
l’unico imputato libico detenuto in Gran Bretagna per la
strage di Loockerbie.
Il problema che poniamo non é riferito ai due citati
casi, ma é una questione generale, di principio, di
coerenza politica e morale e di rispetto della legalità
internazionale e della nostra civiltà giuridica che
condannano le ingerenze esterne e la barbarie delle
esecuzioni sommarie e i processi-farsa..
Oggi, in Libia si corre questo rischio. Il popolo
libico, nell’ambito della propria legislazione, ha il
diritto di processare Gheddafi per le colpe e i reati
attribuitigli ed anche tutti coloro che hanno cooperato
col dittatore.
Un processo equo sarebbe una vittoria della giustizia
e una condizione basilare per avviare, con idee e uomini
veramente nuovi, una riforma in senso democratico dello
Stato e dell’economia libici.
Interventi “umanitari”: più disastrosi delle malefatte
dei dittatori
Andiamo ora a questo ennesimo intervento militare
“umanitario” che in realtà si sta dimostrando essere una
guerra della Nato con gli “insorti” al seguito, i quali
- come ha detto efficacemente Edward Luttwak: “sparano
per i cameraman delle televisioni”.
E poi, conti alla mano, si è dimostrato che questi
interventi hanno provocato più morti e distruzioni di
quelle provocate dai carnefici che si vorrebbero
bloccare e punire. Basta guardare l’abisso in cui sono
stati trascinati
la Somalia, l’Afghanistan e ora la Libia.
Il caso dell’Iraq è davvero emblematico: Saddam
Hussein è stato impiccato perché accusato di avere
ordinato la strage di alcune migliaia di poveri sciiti,
mentre la guerra di Bush junior, fino ad oggi, ha
provocato diverse centinaia di migliaia di innocenti
vittime irachene. C’è chi parla di circa 600.000!
Anche la soppressione ingiusta di una sola persona
dovrebbe far inorridire la coscienza di ognuno di noi.
Tuttavia, se i numeri e la vita degli uomini hanno
ancora un senso, tremila o cinquemila vittime di Saddam
non sono la stessa cosa delle trecento o cinquecentomila
provocate dall’invasione militare di Bush e della
coalizione internazionale che- com’è comprovato- hanno
deliberatamente falsato le prove per invadere l’Iraq.
Se Saddam ha pagato i suoi crimini con l’impiccagione,
perché non devono pagare coloro che hanno provocato
questo più grande sterminio? Perché l’ineffabile
tribunale dell’Aja non ha aperto un fascicolo,
un’inchiesta?
L’ineluttabilità della guerra come risposta alla crisi
globale?
A queste e ad altre drammatiche domande nessuno dei
responsabili risponde. Forse, i capi delle grandi
potenze occidentali pensano di cavarsela sempre a buon
mercato, impunemente, cospargendo l’umanità di vecchi e
nuovi terrori, in gran parte inesistenti, per meglio imporre il
loro dominio e militarizzare il sistema delle relazioni
internazionali.
Come se di fronte alla crisi globale, epocale, questo nostro Occidente, in decadenza e in
mano a poteri forti e invisibili, eletti solo dai
consigli di amministrazione di banche e società
d’affari, non riuscisse più ad elaborare risposte diverse dall'opzione
militare. Siamo all’inelut-tabilità della guerra?
Speriamo, sinceramente, di sbagliare l’analisi, ma in
giro si avvertono strani sentori.
C’è una crisi anche del pensiero politico occidentale?
Sicuramente, pesano l’infiacchimento della democrazia
rappresentativa, l’umiliazione della politica oramai
asservita ai disegni della finanza e delle consorterie
economiche internazionali, il dilagare dei poteri
criminali.
Sopra tutto, pesa la crisi del ruolo economico
dell’Occidente che non riesce più a produrre la
ricchezza (tanta) che consuma, che importa e spreca
risorse energetiche, inquinando il Pianeta e
devastandolo con guerre micidiali e infinite per
procurarsele. Come sta facendo in Libia, in Iraq e
altrove.
Sappiamo che le crisi ci sono sempre state e, bene o
male, sono state superate. Questa volta, però
all’orizzonte del nostro futuro prossimo non s’intravede
una soluzione degna e condivisa, a garanzia del
benessere e della convivenza pacifica mondiali. Qui sta
il punto di novità ineludibile: con la globalizzazione,
l’Occidente non è più il principale protagonista della
storia.
Italia: finché c’è guerra non c’è speranza
L’Italia, da almeno un ventennio, sembra essersi
avviata su questa china. Siamo un Paese bellissimo, ma
pieno di debiti e di storture che si da arie da grande
potenza.
Partecipiamo a tutte le missioni militari all’estero,
a tutte le guerre in giro per il mondo, acquistiamo
sistemi d’arma costosissimi come se dovessimo entrare in
guerra con
la Cina o con gli Usa.
Insomma, una spesa militare enorme (insopportabile per
un paese come l’Italia che sta tagliando scuole,
ospedali e assistenza ai più deboli) per partecipare
alla folle corsa al riarmo ripresa su scala planetaria.
Un solo esempio: l’Italia ha impegnato ben 15 miliardi
di euro (mezza manovra di Tremonti) per l’acquisto di un
centinaio di bombardieri F35. Domanda: oggi che la crisi
incalza, perché non si annulla, non si rinvia o almeno
non si sospende questa colossale commessa?
Insomma, finché c’è guerra c’è speranza. Di questo
passo, quante altre guerre ci vorranno? Oggi è il turno
della Libia. Domani, chissà, forse quello del Venezuela, di Cuba,
ecc. L’Italia, per la sua tradizione, per la sua
Costituzione pacifista e antifascista, per i suoi
interessi nazionali, non può accodarsi supinamente
all’interventismo di altri.
Ieri a quello disastroso di Bush, oggi a quello
avventuroso del presidente francese che tanto preoccupa
l’opinione pubblica mondiale e europea ed allarma molti
governi legittimi, in Africa e in Medio Oriente, che lo
percepiscono come una seria minaccia d’ingerenza e
d’instabilità internazionale. Insomma, nessuno si sente
più sicuro in casa propria!
La guerra a debito delle Grandi Potenze
Tutto ciò è inaccettabile, immorale per una società
libera e democratica. Si stanno devastando i bilanci
degli Stati, contraendo debiti sopra debiti per
finanziare guerre, nient’affatto umanitarie. Perché deve
essere chiaro che queste “grandi potenze” fanno le
guerre a debito ossia con i soldi prestati dalla Cina e
dai piccoli risparmiatori locali. Questa notazione vale
in particolare per gli Usa, meno per l’Italia il cui
debito pubblico (sproporzionato) è prevalentemente
finanziato dal risparmio interno ed europeo.
Inoltre, ribadisco che l’Italia partecipando alla
guerra in Libia ha solo da perdere sul piano
dell’immagine politica e su quello delle sue relazioni
economiche e commerciali. Può sembrare assurdo, ma, per certi aspetti, questa
guerra è anche contro l’Italia.
Ovviamente, il nostro discorso è prima tutto politico,
umanitario coerente con il pacifismo insito
nell’articolo 11 della nostra Costituzione che non può
essere oscurato da quel vergognoso codicillo introdotto
per vanificarlo.
Oggi, anche i grandi giornali italiani che hanno
incitato alla guerra scrivono, allarmati, di come si
potrà spartire il “bottino” ossia il tesoro del popolo
libico: i grandi giacimenti d’idrocarburi e- a quanto si
dice- le cospicue riserve finanziarie, anche in oro, e
in titoli azionari, ecc.
Tutto sarà deciso a Parigi, su iniziativa di Sarkozky,
il principale promotore del progetto “insurrezionale”,
che vorrà fare la parte del leone, in accordo con gli
altri due paesi della triade bellicista (GB e USA).
Si può vincere la guerra, ma perdere il dopoguerra
Non sappiamo che cosa sia stato promesso alle più alte
Autorità italiane per indurle a far entrare il Paese in
questa avventura, mettendo a disposizione navi, aerei e
diverse basi italiane.
A quanto si vede, gli “insorti” preferiscono trattare
con la triade e trascurano il governo italiano. Se la
tendenza venisse confermata, si aprirebbero scenari
molto problematici per l’Italia.
Il governo e il ceto politico italiano (di destra e di
centro-sinistra), stranamente unito in questa scelta
improvvida, sapevano a quali conseguenze si andava
incontro e avrebbero dovuto chiarirlo al Paese, al
Parlamento. Non è stato fatto. Perciò, crescono le
inquietudini nell’opinione pubblica. E’ tempo che i
nostri responsabili rispondano ai tanti quesiti che la
gente si pone e fra questi alcuni davvero pregnanti e
prioritari:
1) quale sarà il futuro dei nostri rifornimenti
d’idrocarburi derivati dalla Libia (circa il 25% del
fabbisogno totale italiano)?
2) quali squilibri si potranno determinare nella
bilancia commerciale italo-libica, unica in equilibrio
con un paese petrolifero?
3) che fine faranno gli ambiziosi programmi
d’investimento (in ricerca e produzione) di Eni e il
ruolo stesso di questo colosso dell’energia (al 70%
privatizzato) che fa ombra a molti all’estero e
purtroppo anche in Italia?
4) cosa ne sarà dell’accordo d' indennizzo e di
cooperazione firmato da Berlusconi e Gheddafi con un
costo per l’Italia di cinque miliardi di euro in 20
anni?
5) come spiegano, infine, il rifiuto della Germania,
paese membro della Nato e locomotiva dell’Unione
Europea, di partecipare all’avventura libica.
Insensibilità o preveggenza della signora Merkel?
Le risposte, probabilmente, non verranno poiché questi
signori si sentono invincibili con… i deboli.
Attenzione, però, che si può vincere la guerra, ma
perdere il dopoguerra.
Agostino Spataro
31 agosto 2011
Note