I due poli del futuro
siciliano:
portaerei e hub
energetico
di Agostino Spataro
Sommario
l’Isola diventa portaerei della Nato; la Sicilia,
l’Italia e la guerra in Libia; due ministri siciliani
che fecero l’impresa…libica; un pericoloso conflitto a
trecento miglia dalla Sicilia; l’Isola sede di
trattative fra le parti; gli incerti scenari del post
conflitto; ritorna il fantasma della guerra; portaerei e
Hub energetico: i due poli del futuro siciliano; un Hub
al servizio dell’economia del centro-nord; treni-lumaca
e tecnologie militari avanzate; ai siciliani bisogna
dare una nuova chance. |
L’Isola diventa portaerei della Nato
Quello che si temeva sta accadendo o è già accaduto:
il mutamento del ruolo militare e della prospettiva
generale della Sicilia nei suoi rapporti con l’area
mediterranea.
Da ponte di cooperazione pacifica e vantaggiosa con i
paesi rivieraschi a “ portaerei della Nato nel
Mediterraneo” come l’ha ribattezzata l’eclettico
ministro della difesa, il siciliano Ignazio
La Russa, che, già agli inizi dei bombardamenti sulla
Libia, l’ha messa a disposizione della triade
interventista: Sarkozy, Cameron e Obama
.
Si può obiettare che quelle del ministro sono parole
al vento, di circostanza. Tuttavia, è pur sempre il
titolare di un dicastero delicato e nessuno le ha
smentite o contestate. Parole che meritano, pertanto,di
essere valutate attentamente poiché acquistano un
significato sinistro, pericoloso, specie dopo la
decisione d’inviare gli aerei italiani a bombardare
la Libia.
D’altra parte, la svolta era nell’aria, anche se non
percepita come imminente. La partecipazione italiana
alla guerra in Libia l’ha solo accentuata, accelerata.
La strategia Nato di “difesa avanzata” aveva assegnato
all’Isola la funzione di “piattaforma” militare
attrezzata per respingere improbabili aggressioni al
fianco sud.
Oggi, il salto: il suo ruolo cambia da difensivo a
offensivo. L’Isola diventa portaerei.
Un’idea che, per quanto metaforica, produce, anche
psicologicamente, l’effetto di un sensibile mutamento
esistenziale poiché
la Sicilia viene proiettata in una dimensione mobile
della guerra, liquida o aerea, comunque fuori dei
confini nazionali e della Nato.
La Sicilia, L’Italia e la guerra in Libia
Sicilia portaerei, dunque, col bollo di
La Russa e con l’avallo silente di quasi tutte le forze
politiche nazionali e senza alcuna protesta pacifista.
Ma che strano unanimismo, oggi in Italia! Ci si divide
su tutto. Solo le guerre, i bombardamenti, le costose
missioni militari all’estero e i rigonfi bilanci della
difesa riescono a unire quasi tutti i partiti, governo e
alte autorità dello Stato.
Anche nella vicenda libica il copione si è ripetuto.
Con l’eccezione di IDV e della Lega nord che non si sono
accodati.. Sorprendono le forze d’opposizione del
centro-sinistra che, invece d’invocare una soluzione
negoziata del conflitto di potere interno alla Libia
(poiché di questo si tratta), hanno pressato Berlusconi
per fargli abbandonare la sua iniziale ritrosia e
allineare l’Italia alla gloriosa “triade”. Seppure a
denti stretti, dobbiamo rilevare la calcolata prudenza
della Lega di Bossi che anche stavolta (dopo i Balcani)
ha frenato gli ardori, distinguendosi dall’unanimismo
guerresco del ceto politico italiano.
Comunque sia, il Cavaliere è intervenuto pesantemente,
a “gioco in corso”, schierando l’Italia su una posizione
avventurosa, unilaterale che la collocano fuori degli
ambigui limiti della risoluzione dell’Onu.
Insomma, l’Italia si è cacciata in un brutto pasticcio
che potrebbe degenerare in un lungo e sanguinoso
conflitto, a un tiro di schioppo dalle coste siciliane.
C’è chi parla o minaccia un nuovo Vietnam. Difficile
fare previsioni così impegnative. Tuttavia, ricordo che
in Vietnam l’avventura degli Usa iniziò con i
bombardamenti di supporto alle truppe del Sud e con
l’invio di consiglieri militari che poi diventarono un
esercito di mezzo milione di soldati.
Quella guerra durò quindici anni e la persero gli
Stati Uniti e loro alleati fantocci. Da quella
memorabile sconfitta taluni fanno iniziare l’attuale
declino della potenza Usa.
Vietnam o meno, un conflitto internazionalizzato a
circa trecento miglia dalle coste siciliane ( a 200 da
Lampedusa) non è, certo, per
la Sicilia e per l’Italia di buon auspicio.
Armare gli insorti, inviare i nostri bombardieri vuol
dire schierarsi con una parte contro l’altra in questo
conflitto fratricida per il controllo del potere interno
libico.
Due ministri siciliani che fecero l’impresa…libica
Tutto ciò è immorale oltre che controproducente.
Specie per l’Italia che non può, davvero, tornare a
bombardare il suolo di un’ex colonia che ancora si lecca
le terribili ferite degli eccidi perpetrati, anche l’uso
dei gasi letali, dalle truppe italiane d’occupazione.
Una nuova guerra alla Libia, a cento anni esatti dalla
prima (1911), in cui si riscontra una curiosa
coincidenza, tutta siciliana, che vede cioè due
catanesi, entrambi di originari di Paternò, a capo di
ministeri-chiave.
Come dire: due paternesi che fecero l’impresa…libica.
Si tratta del sen. Antonio Paterno Castello, marchese di
San Giuliano, nato a Catania (nel 1852) ma discendente
da una nobile famiglia originaria, come il cognome
suggerisce, di Paternò.
Egli, da ministro degli esteri del governo Giolitti,
inviò, in data
27 settembre 1911, al governo dell’impero ottomano una
sorta di dichiarazione di guerra, pretestuosa e
immotivata, che faceva dipendere l’occupazione militare
italiana, praticamente, da motivi di ordine pubblico
interno alla Libia
.
Oggi, un altro prode paternese, l’on. Ignazio
La Russa, ministro della guerra, pardon della difesa, ha
proclamato la Sicilia portaerei mettendola a
disposizione dell’attacco contro la Libia.
Solo una singolare coincidenza o c’è qualcosa che ci
sfugge?
A ben pensarci, tanta solerzia, forse, si potrebbe
spiegare come rivendicazione di un legame antico, mitico
fra
la Sicilia e
la Libia,
risalente addirittura alla fondazione di Tripoli che-
secondo Sallustio- sarebbe dovuta “ a coloni
siciliani (evidentemente fenici) insieme ad africani”.
Un pericoloso conflitto a trecento miglia dalla Sicilia
Per come si son messe le cose, appare sempre più
insostenibile la bufala dell’intervento “umanitario”. In
Libia le forze dei Paesi interventisti della Nato sono
andate oltre i limiti della “no zone fly” imposti dalla
risoluzione Onu.
Lo confermano i bombardamenti quotidiani “fuori zona”,
in primis sulla città di Tripoli che stanno provocando
vittime innocenti e la distruzione di strutture
sanitarie e industriali civili. A proposito: quanto
devono ancora durare questi bombardamenti?
La domanda l’ha posta a Berlusconi non un
rappresentante dell’opposizione, ma il ministro
dell’interno del suo governo, il leghista Maroni
. Anche noi, che leghisti non
siamo, aspettiamo risposta.
Domanda più che legittima, poiché non si può
continuare ad assistere, muti, a un conflitto, anomalo e
asimmetrico, che sempre più assomiglia a una guerra di
rapina.
Anche perché- a quanto pare- ci sarebbe molto da
prendere dai forzieri libici: dai tanti giacimenti in
produzione alle grandi riserve accertate d’idrocarburi,
alle enormi riserve di acqua (sì, avete letto bene
“acqua”!) che per uno scatolone di sabbia qual è
la Libia è una risorsa più preziosa del petrolio.
Nelle regioni meridionali del Fezzan sono stati
scoperti veri e propri laghi sotterranei che alimentano
una rete di gigantesche condotte (lunghe anche
4.000 km) che riforniscono le città della costa per gli
usi civili, agricoli e industriali.
Nessuno lo dice: in Libia il problema dell’acqua è
stato risolto con successo, mentre in tante città e
paesi siciliani l’acqua è un pio desiderio.
Si dice anche che
la Banca centrale di Libia (che è dello Stato non della
famiglia Gheddafi), oltre a controllare il sistema
finanziario e monetario interno, ad avere effettuato
importanti investimenti all’estero (in Italia ne
sappiamo qualcosa), conservi nei suoi caveaux circa 140
tonnellate di oro.
Non siamo in grado di verificare la veridicità
quest’ultima notizia, riportata da Ellen Brown
. Tuttavia, qualcosa di vero
potrebbe esserci, visto che i capi degli “insorti” (alti
gerarchi gheddafiani della prima ora e conoscitori della
realtà finanziaria del Paese) prima di formare il
governo provvisorio si sono preoccupati d’istituire una
Banca centrale.
Davvero, una stranezza per una rivoluzione!
L’Isola sede di trattative fra le Parti
Perciò, preoccupano l’evoluzione del conflitto e la
scelta di non voler favorire, nemmeno tentare, una
soluzione politica, negoziata. Come quella che, per
iniziativa dell’Unione africana, si sta cercando a Addis
Abeba fra rappresentanti degli insorti della Cirenaica
ed emissari del governo Gheddafi.
In assenza di una soluzione politica, si teme che il
conflitto possa degenerare, prolungarsi oltre misura.
La Sicilia, invece che a portaerei, doveva candidarsi a
sede per trattative fra le parti per assicurare alla
Libia una transizione unitaria e democratica, senza
Gheddafi.
Per altro, in questa crisi c’è, anche, un importante
risvolto economico e commerciale che riguarda
la Sicilia e l’Italia che, però, non sembra interessare
i nostri apprendisti stregoni.
La Libia costituisce, infatti, una realtà molto speciale
per l’economia italiana. Oltre a farsi carico dei
gravosi e discutibili impegni sull’immigrazione, ci
fornisce notevoli quantitativi d’idrocarburi, capitali
preziosi per le nostre imprese e banche e si offre come
fiorente mercato per le nostre aziende di servizi e
manifatture.
Solo di petrolio, di ottima qualità e di facile
trasporto, l’Italia ne importa circa il 23 % (in valore)
del suo fabbisogno e di gas otto miliardi di metri
cubi/annui tramite il metanodotto sottomarino che
approda a Gela.
Materie prime strategiche che sono trasformate
nell’Isola e da qui movimentate verso il mercato
nazionale.
L’Eni si sta giocando parte del suo futuro in questa
brutta guerra fratricida fomentata da potenze nostre
concorrenti in campo energetico. Che cosa potrebbe
succedere, in Italia e in Sicilia, se dovessero venir
meno questi contratti e forniture? Con i bombardamenti,
il governo tutela o danneggia gli interessi nazionali
dell’Italia?
Gli incerti scenari del post-conflitto
Domande legittime alle quali, però, nessuno risponde.
Non sappiamo se e quali garanzie la triade abbia
offerto a Berlusconi per smuoverlo dalla sua iniziale
inerzia. Con il governo e il ceto politico che ci
ritroviamo il dubbio è lecito. Anzi più d’uno. Perciò,
oltre gli aspetti politici e (im)morali della guerra,
bisognerebbe fare un po’ di conti anche dal lato della
convenienza nazionale, visto che l’Italia è il primo
partner commerciale della Libia.
Probabilmente, gli strateghi nostrani non avranno
considerato la mutevolezza degli uomini e degli
interessi in ballo, i possibili esiti del conflitto e
gli scenari che si potranno determinare in Libia e nello
scacchiere mediterraneo.
In particolare, due appaiono degni di nota: una
vittoria dei “ribelli” o un accordo unitario nazionale
fra le parti in conflitto.
Se dovessero vincere i “ribelli”difficilmente
dimenticheranno i baciamano a Gheddafi e l’Eni dovrà
andare a Parigi o a Washington per ri-contrattare gli
importanti accordi sottoscritti con
la Noc libica. E pagare dazio agli arroganti cartelli
del petrolio.
Se, invece, dovesse vincere Gheddafi o si giungesse a
un accordo nazionale fra le parti, sarà difficile far
dimenticare al colonnello e ai suoi seguaci il
voltafaccia dell’Italia, per altro a guerra in corso.
Insomma, in entrambi i casi, l’Italia avrà un bel da
fare per recuperare quello che sta rischiando di perdere
in questi giorni.
Ritorna il fantasma della
guerra
Ma torniamo alla Sicilia dove gli annunci di
La Russa e del premier Berlusconi hanno materializzato
il fantasma della guerra che pensavamo si fosse
allontanato con la vittoriosa lotta contro
l’installazione dei missili nucleari a Comiso.
Vittoria memorabile alla quale, però, non seguì una
lotta altrettanto tenace e unitaria per fare uscire
l’Isola dal sottosviluppo.
Lo smantellamento dei missili avrebbe dovuto segnare
una svolta per progettare una nuova idea dello sviluppo
bidirezionale, orientato cioè verso l’Europa e il
Mediterraneo e capace anche d’intercettare le
opportunità derivate dai flussi commerciali e finanziari
provenienti da Cina e India ossia dai nuovi colossi
emergenti dell’economia mondiale.
L’idea di fondo, che da decenni coltiviamo, è quella
di far corrispondere alla centralità mediterranea
dell’Isola una centralità economica e culturale.
Purtroppo, negli ultimi due decenni, in Sicilia si è
rafforzata la componente militare (vedi articolo di
Antonio Mazzeo), mentre si è indebolita la capacità di
attrazione e promozione d’investimenti mirati alla
produzione di beni e servizi da destinare al mercato
arabo e euro-mediterraneo.
Processi e tendenze pilotati dall’alto, all’interno di
un disegno politico-strategico che ha visto crescere, di
pari passo, militarizzazione, decadenza economica, crisi
sociale e illegalità diffusa.
Si è, così, delineata una prospettiva arida,
inquietante contro la quale si sono battuti Pio
La Torre, fino al suo assassinio, e il grandioso
movimento pacifista unitario, siciliano e
internazionale.
Portaerei e Hub energetico: i due poli del futuro
siciliano
Il processo è in itinere, la situazione in parte
ancora confusa. Non è facile capire i suoi termini
specifici, identificare tutti gli interessi in campo.
Tuttavia, credo si possa dire che negli ultimi anni il
Mediterraneo e le zone contigue del Medio Oriente siano
divenuti terreno di aspro confronto fra vecchie e nuove
superpotenze per il controllo dei traffici marittimi
(25% del totale mondiale), di enormi risorse energetiche
e finanziarie e dei nuovi, ricchi mercati dei Paesi
arabi produttori d’idrocarburi.
Come ho già scritto, in quest' area di vitale
importanza strategica si concentrano fattori e risorse
(soprattutto energetiche e finanziarie) capaci di farne,
in questo nuovo secolo, uno dei poli dello sviluppo
mondiale.
Anche sotto questa luce e in questa chiave
bisognerebbe leggere le rivolte arabe. Tutto dipenderà
dagli equilibri fra le vecchie e nuove potenze e dagli
assetti di potere conseguenti sul piano internazionali.
Se si dovesse andare a un' estremizzazione del
confronto, non c’è dubbio che
la Sicilia sarà chiamata a svolgere una funzione
importante soprattutto sul piano militare.
L’impressione è che, in questi anni d’apparente non
governo (fra Roma e Palermo), qualcuno abbia deciso di
ridisegnare la funzione generale strategica dell’Isola,
imperniandola su un asse bipolare: da un lato la
portaerei o piazzaforte militare, dall’altro lato un
grande hub energetico.
Un Hub al servizio dell’economia del Centro-Nord
Stando alle scelte già programmate o in esecuzione, in
Sicilia, in aggiunta alla sua già esorbitante capacità
produttiva energetica, sarebbero previsti due mega
-rigassificatori (Priolo e Porto Empedocle) e una
centrale nucleare.
Un hub, dunque, al servizio dell’economia di altre
regioni giacché l’energia prodotta andrà ben oltre le
esigenze locali.
L’economia, la finanza, la politica, l’informazione,
le infrastrutture, la stessa criminalità organizzata,
ecc, dovranno adeguarsi, piegarsi alla realtà tracciata
da quest’asse strategico che può, per altro, generare
affari lucrosi, leciti e illeciti.
E pazienza se
la Sicilia sarà ancor più gravata di compiti onerosi,
pericolosi, in contrasto con la sua vocazione
produttiva.
Una scelta dal sapore vagamente razzista che ha
indotto il governo Berlusconi - Bossi a scaricare
sull’Isola anche il gravoso problema della (mala)
accoglienza di masse d’immigrati provenienti da vari
continenti. Sembra che altro non sia permesso alla
Sicilia. Una condizione anomala, squilibrante che può
ingenerare malumori e proteste.
A placarli ci penseranno
la Regione e gli enti locali in mano a governi deboli,
clientelari e consociativi pronti a barattare la loro
acquiescenza con quote di spesa pubblica improduttiva
destinata ad alimentare il blocco di potere dominante e
a raccogliere il necessario consenso elettorale.
Treni-lumaca e tecnologie militari avanzate
Insomma, oggi nel mondo, è in atto una corsa
avventurosa per ridefinire i nuovi assetti dei poteri
che si stanno accorpando e ri -dislocando anche in
Italia, in Europa e nel Mediterraneo. Un contesto in
evoluzione dentro il quale
la Sicilia
c’è tutta, ma con una funzione marginale, subalterna
agli interessi forti, produttivi e di mercato, del
centro-nord italiano.
Una subalternità evidente che non può essere
esorcizzata con qualche strillo autonomistico, ma
ribaltata con idee e riforme davvero innovative che solo
una nuova classe dirigente, politica e imprenditoriale,
può proporre e attuare.
In Sicilia, oggi, si stenta a difendere persino quel
poco di tessuto industriale esistente.
La fine dello stabilimento di Termini Imerese ne è una
riprova drammatica e eloquente: è l’unico che
la Fiat sta chiudendo in Italia, senza grandi contrasti
e- si teme- senza alternative certe. Di questo passo, il
futuro dell’Isola sarà sempre più condizionato, stretto
nella morsa della militarizzazione e della
concentrazione intensiva di attività energetiche.
Il rischio che essa corre è quello di essere
trascinata in torbidi scenari di guerra, in vili
mercimoni di armi e carne umana e di diventare deposito
di armi (anche nucleari) e scorie di ogni tipo come
quelle che cominciano ad affiorare dall’inchiesta sulla
miniera “Pasquasia”.
Vivremo, in sostanza, la contraddizione fra uno
sviluppo ritardato, frantumato e un’innovazione avanzata
della dotazione militare installata e programmata.
Un solo esempio. Nella parte sud-orientale dell’Isola
vedremo coesistere treni-lumaca, che per coprire una
tratta di
200 chilometri (Agrigento - Siracusa) impiegano 9 ore e
15 minuti, e impianti e sistemi tecnologici militari
sofisticatissimi come quelli già esistenti a Sigonella e
a Niscemi dove gli Usa vorrebbero aggiungere uno dei
terminali Muos, moderno sistema di telecomunicazioni
satellitari delle loro forze armate.
Ai Siciliani bisogna dare una nuova chance
Si può invertire questa tendenza?
Più che un interrogativo, questo a me pare il punto
centrale di uno sforzo corale di analisi e di dibattito,
una nuova sfida per le forze sane siciliane che
desiderano uno sviluppo moderno, di qualità.
Pertanto, l’obiettivo cui mirare dovrebbe essere: meno
armi, meno impianti inquinanti e più infrastrutture e
servizi per uno sviluppo auto centrato, ma non
autarchico, che generi lavoro, anche qualificato, per le
nuove generazioni siciliane costrette a emigrare.
Si può fare. Importante è ripartire, riavviare la
collaborazione fra tutte le forze sane dell’Isola che
resistono e attendono un segnale di autentica
liberazione dal malgoverno e dal predominio mafioso.
Ma i siciliani desiderano il cambiamento? Talvolta
parrebbe di no. In realtà, molti sono prigionieri della
contraddizione esistente fra la depressione dello
spirito pubblico e l’espressione di un distorto consenso
elettorale, che genera sfiducia verso ogni seria istanza
di cambiamento.
Forse è necessario uno sforzo collettivo di
autocoscienza. Tutti devono riflettere su quest’opaco
presente e sulle sorti non proprio rosee della Sicilia.
In primo luogo, dovranno meditare, e cambiare
registro, tutti coloro che hanno abusato del potere loro
conferito dalla legge e dagli elettori.
Insomma, ai siciliani bisogna offrire una nuova
chance.
La Sicilia ha bisogno di libertà e di progresso
economico per tutti; di recuperare la sua identità
culturale storica che, senza scadere in velleità
indipendentiste per altro dolorosamente sperimentate,
riaffidi ai siciliani la responsabilità di costruire un
futuro di benessere condiviso, nella legalità.
Agostino Spataro
Note
Articolo pubblicato, con altro titolo e con testo
ridotto, nel numero di maggio 2011 della rivista
“I quaderni de l’Ora”.