Libia: l’Italia di nuovo
in guerra
di Agostino Spataro
Sommario:
la disinformazione: un falso positivo;
la guerra annunciata il 25 Aprile, giorno simbolo di
pace;
la guerra elettorale di Sarkozy e del Premio Nobel per
la pace;
un unanimismo da strapaese;
un nuovo Vietnam a un tiro di schioppo dalla Sicilia?;
la buona notizia: ad Addis Abeba colloqui di pace;
i bombardamenti tutelano o danneggiano gli interessi
italiani?;
l’Italia non potrà recuperare quanto sta perdendo in
queste ore.
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La disinformazione: un falso positivo
Dunque, anche
l’Italia è entrata nella guerra di Libia. Direttamente.
Sì, guerra. Avete letto bene. Altri termini sono
soltanto miserevoli eufemismi. Ha ragione l’eminente
cardinale di Milano, Tettamanzi, nel richiamare “coloro
che fanno la guerra e la chiamano con altro nome”
o che la vorrebbero edulcorare con aggettivi subdoli che
sono un’offesa al buon senso e alla realtà atroce delle
tante guerre umanitarie in giro per il mondo (dalla
Somalia all’Afghanistan).
Si continua a giocare
sull’equivoco della disinformazione. Come stanno facendo
i nostri governanti, giornali e giornalisti anche di
grido che solo da poco hanno dismesso il linguaggio
della verità e della denuncia degli orrori e delle
responsabilità dei guerrafondai d'ogni risma e
latitudine.
Si tratta del
classico “falso positivo” ossia di una manipolazione
della verità a fini politici che, in quanto tale, è
destinata ad infrangersi nell’impatto con la coscienza
civile della nazione.
Una nuova guerra,
a cento anni esatti dall’occupazione coloniale del 1911
che portò, con i cannoni, la “civiltà” agli abitanti
della “quarta sponda”.
Anche quella doveva
essere un’allegra scampagnata e durò più di vent’anni.
L’ha conclusa, agli
inizi degli anni ’30, il fascismo a suo modo, ricorrendo
agli eccidi di massa, a bombardamenti micidiali, anche
con l’uso di gas letali, allo spargimento di mine in
abbondanza (ancora oggi in Libia si può saltare in aria
a causa di una vecchia mina italiana), alle
deportazioni, alle impiccagioni in pubblico di patrioti
e combattenti per la libertà.
Come quella, davvero
indegna, di Omar Muktar, un capo tribù ottuagenario, che
Graziani volle assassinare per farne trofeo della sua
sporca guerra sterminatrice.
Allora, la sinistra e le forze
progressiste osteggiarono la guerra oggi, invece, non si
vedono bandiere iridate ai balconi,
non s’ode uno squillo di tromba
nel centro-sinistra e l’opposizione (alla guerra) la sta
facendo il migliore alleato di Berlusconi, cioè il
partito di Bossi.
La guerra annunciata il 25
Aprile, giorno simbolo di pace
Una pagina nera dell’Italia che purtroppo
mai si è voluta leggere. Nemmeno durante gli anni d’oro
della nostra Repubblica, democratica e anticoloniale. Si
è arrivati all’assurdo che è stata vietata, nonostante
le nostre formali richieste in sede parlamentare, la
circolazione in Italia di un bel film che rievoca la
tragica vicenda di quel vecchio eroe della libertà
libica, e anche della nostra.
La storia è lunga e non possiamo qui
narrarla per ragioni di spazio. Comunque, tutti la
possono capire, anche senza studiarla in profondità:
basterebbe uno sforzo d’immaginazione e mettersi nei
panni delle vittime, di chi la guerra d’occupazione l’ha
subita, la continua a subire.
Uno sforzo che in primo luogo dovrebbero compiere i
governanti, gli alti dignitari di questa guerra assurda,
asimmetrica, i soldati che dovranno farla, nel momento
in cui sganceranno, da altezze sicure, i missili e le
bombe micidiali sopra città e villaggi abitati da gente
semplice che rischia di vedere trasformato il suo
petrolio da fonte di relativo benessere in una
maledizione che li ha precipitati prima nella dittatura
e oggi nella guerra.
Beffa tra le beffe, l’annuncio della partecipazione alla
guerra Berlusconi l’ha fatto in un giorno-simbolo di
pace: la sera del 25 Aprile, una data memorabile per la
nostra libertà e dignità nazionale.
Una Festa per la pace ritrovata e, bene o male,
conservata fino ad oggi, alla quale però non partecipa
il capo del governo. Secondo un'inspiegabile
“tradizione” che la dice lunga sulla cultura di chi oggi
comanda in Italia e anche di chi dovrebbe controllarlo.
La guerra elettorale di Sarkozy e del Premio Nobel per
la Pace
Eppure l’Italia che conta (in senso
aritmetico, solo i suoi buoni affari) ha salutato
l’annuncio del premier come “il naturale sbocco di una
posizione…”, come “l’uscita dal guado”, il superamento
di un’inerzia ingiustificata rispetto alle audaci gesta
della “triade gloriosa”.
Ossia Sarkozy, Cameron e Obama (premio Nobel per la
pace) i quali ricorrono alla guerra per mettere
un’ipoteca sul petrolio libico e anche per sperare di
risalire dalle infime posizioni che gli assegnano i
sondaggi.
L’eroe di Arcore, all’inizio, non voleva fare la guerra
al suo amico Gheddafi forse perché nei
sondaggi viaggia più tranquillo dei suoi colleghi
francese e Usa e anche perché una quota importante del
petrolio libico se l’era assicurata mediante i
discutibili accordi bilaterali e quelli più sostanziosi
(programmati fino a metà del secolo) sottoscritti
dall’Eni con la Noc.
Ha resistito alle pressioni provenienti da ogni parte,
anche da chi non doveva farle. Alla fine ha dovuto
cedere, spaccando la sua maggioranza e rischiando una
crisi per lui fatale.
Un Unanimismo da strapaese
Davvero, curioso quest'unanimismo da
strapaese! In Italia ci si divide su tutto,
soprattutto sulle vicende giudiziarie e/o di cronaca
rosa del premier, solo le guerre, le costose missioni
militari all’estero e i rigonfi bilanci della difesa
riescono a unire quasi tutti i partiti (in questo caso
la Lega nord e IDV non si sono accodati), governo e le più
alte autorità dello Stato.
Il copione si è ripetuto anche nella
vicenda libica. Sorprendono queste forze d’opposizione
che, invece d’invocare una soluzione negoziata del
conflitto di potere interno alla Libia (poiché di questo
si tratta), hanno pressato Berlusconi per fargli
abbandonare la sua iniziale ritrosia e allineare
l’Italia alla gloriosa “triade”.
Seppure a denti stretti, dobbiamo rilevare
la calcolata prudenza della Lega di Bossi che anche
stavolta (dopo i Balcani) ha frenato gli ardori,
distinguendosi dall’unanimismo guerresco del ceto
politico italiano.
Comunque sia, il Cavaliere è intervenuto pesantemente, a
“gioco in corso”, schierando l’Italia su una posizione
avventurosa, unilaterale che la pone fuori degli ambigui
limiti della risoluzione dell’Onu.
Un nuovo Vietnam a un tiro di schioppo dalla Sicilia?
Insomma, l’Italia si sta andando a cacciare in un brutto
pasticcio che potrebbe degenerare in un lungo e
sanguinoso conflitto, a un tiro di schioppo dalle coste
siciliane.
C’è chi parla o minaccia un nuovo Vietnam.
Difficile fare previsioni. Tuttavia, ricordo che anche
in Vietnam l’avventura degli Usa iniziò con i
bombardamenti di supporto alle truppe del Sud e l’invio
di consiglieri militari che poi aumentarono a oltre
mezzo milione di soldati. Quella guerra durò quindici
anni e la persero gli Stati Uniti e i loro fantocci
alleati. Da quella memorabile sconfitta taluni fanno
iniziare l’attuale declino della potenza Usa.
Vietnam o meno, un conflitto internazionalizzato a circa
trecento miglia dalle coste siciliane (a 200 da
Lampedusa) non è, certo, per la Sicilia e per l’Italia di buon auspicio.
Armare gli insorti, inviare i nostri
bombardieri vuol dire schierarsi con una parte contro
l’altra in questo conflitto fratricida per il controllo
del potere interno.
Tutto ciò è immorale oltre che
controproducente. Specie per l’Italia che, davvero, non
può tornare
a bombardare il suolo di un’ex colonia che ancora si
lecca le terribili ferite degli eccidi perpetrati dalle
truppe italiane d’occupazione.
La buona notizia: ad Addis Abeba colloqui di pace
Nessuno, nemmeno il supremo Custode della
Costituzione, si è ricordato dell’articolo 11 che a
riguardo è chiarissimo: “L’Italia ripudia la guerra
come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali”.
A nessuno è venuto in mente di proporre Roma come sede
di una trattativa fra le parti in conflitto per giungere
a un accordo di riconciliazione nazionale per una
transizione democratica, senza più Gheddafi, ma anche
senza i suoi ex fedelissimi ministri e capi militari
messisi alla testa degli “insorti” (la gran parte
sicuramente giovani in buona fede) dopo avere servito
per 42 anni il dittatore.
Ma veramente Frattini e altre autorità più
altolocate credono che gli italiani si bevano la
storiella della guerra necessaria per difendere la
“verginità democratica” di persone che per quattro
decenni sono state al vertice del potere in Libia?
Altro che guerra! L’Italia, anche per
riscattare il suo triste passato coloniale e alla luce
dei recenti accordi bilaterali, doveva impegnarsi a
svolgere un ruolo di pace, di conciliazione e sostenere
ogni sincera spinta verso un cambiamento democratico in
Libia.
Il Parlamento, volendo, potrebbe correggere
l’avventurosa rotta: proclamando una moratoria
dell’intervento diretto italiano e proporre l’Italia
come sede per trattative di pace fra le parti o
quantomeno sostenere il tentativo in corso ad Addis
Abeba dove l’Unione africana è riuscita a riunire
attorno allo stesso tavolo i rappresentanti del
Consiglio degli insorti e del governo di Gheddafi per
avviare colloqui di riconciliazione nazionale.
Una buona notizia,
quasi sconosciuta in Italia, poiché non gradita all’estabilishiment
che vuole la guerra e in tal senso ha impartito ordini
precisi ai media di riferimento.
I bombardamenti tutelano o danneggiano gli interessi
italiani?
Taluni per motivare il loro bellicismo,
sostengono che l’Italia deve bombardare per poi
partecipare al banchetto dei dividendi di guerra. Una
logica spudorata, immorale che, però, circola e fa
proseliti.
In realtà, nella crisi libica l’Italia
rischia anche sotto il profilo economico e commerciale.
C’’è, infatti, un importante risvolto che potrebbe
risultare penalizzante.
La Libia costituisce, infatti, una realtà molto speciale per
l’economia italiana.
Oltre a farsi carico dei gravosi e discutibili
impegni sull’immigrazione, ci fornisce notevoli
quantitativi d’idrocarburi, capitali preziosi per le
nostre imprese e banche e un fiorente mercato per le
nostre aziende di servizi e manifatture.
Solo di petrolio (di ottima qualità e di facile
trasporto) l’Italia, tramite l’Eni, ne importa circa il
23 % (in valore) del suo fabbisogno e di gas otto
miliardi di metri cubi/annui, tramite il metanodotto
sottomarino che approda a Gela.
Insomma, l’Eni si sta giocando parte del
suo futuro in questa brutta guerra fratricida fomentata
da potenze nostre concorrenti in campo energetico.
Perciò, oltre alle paure che ingenera la
guerra, specie nei territori più prossimi come
la Sicilia e le altre regioni meridionali, la gente si
pone una serie di domande alle quali, finora, nessuno ha
risposto.
Che cosa potrebbe succedere, in Italia e
in Sicilia, se dovessero venir meno questi contratti e
forniture?
Con l’intervento militare diretto il governo tutela o
danneggia l’interesse italiano?
L’Italia non potrà recuperare ciò che sta perdendo in
queste ore
Non sappiamo se e quali garanzie la triade
ha offerto a Berlusconi per smuoverlo dalla sua iniziale
inerzia e indurlo a inviare i bombardieri in Libia.
Tuttavia, il dubbio è lecito. Anzi più
d’uno. Perciò, oltre a denunciare gli aspetti politici e
(im)morali della guerra, bisognerebbe fare un po’ di
conti anche dal lato della convenienza “nazionale”,
visto che l’Italia è il primo partner commerciale della
Libia.
Probabilmente, gli strateghi nostrani non
avranno considerato la mutevolezza degli uomini e degli
interessi in ballo, i possibili esiti del conflitto e
gli scenari che si potranno determinare in Libia e nello
scacchiere mediterraneo.
In particolare, due appaiono degni di
nota: una vittoria dei “ribelli” della Cirenaica (che
Frattini si è precipitato a riconoscere come unici e
legittimi rappresentanti del popolo libico) o un accordo
unitario nazionale fra tutte le parti in conflitto, al
quale, come detto, si lavora ad Addis Abeba.
Se dovessero vincere i “ribelli”, difficilmente
dimenticheranno i baciamano a Gheddafi e l’Eni dovrà
andare a Parigi o a Washington per ri-contrattare gli
importanti accordi sottoscritti con
la Noc
libica. E pagare dazio agli arroganti cartelli del
petrolio.
Se, invece, dovesse vincere Gheddafi o si giungesse a un
accordo unitario nazionale sarà difficile far
dimenticare al colonnello o ai suoi seguaci il
voltafaccia dell’Italia, per altro a guerra in corso.
Insomma, in entrambi i casi, l’Italia avrà un bel da
fare per recuperare quello che sta rischiando di perdere
in queste ore.
Agostino Spataro*
* giornalista, già componente delle Commissioni Esteri e
Difesa della Camera dei Deputati, direttore di
“Informazioni on line dal Mediterraneo”
N.B. Per chiarezza, desidero rassicurare quanti
potrebbero insinuare o in buona fede pensare che con
questo scritto non voglia sottacere le gravissime
responsabilità di Gheddafi, delle quali ho scritto
abbondantemente (vedi:
www.infomedi.it) e in tempi non sospetti, ossia
quando coloro che, oggi, gli fanno la guerra lo
ricevevano con tutti gli onori e con lui facevano affari
di Stato e anche personali.