Libia: dall’intervento
umanitario alla guerra il passo è stato breve
di Agostino Spataro
Sommario
Il problema-Gheddafi poteva essere risolto otto anni fa.
Italia: meno entusiasmi e più azioni per evitare le
conseguenze della guerra.
I due missili libici giunsero davvero a Lampedusa?
Sarkoszy, il superpresidente che non vuole perdere le
elezioni.
Al posto di Gheddafi un Consiglio di riconciliazione
nazionale.
Crisi e decadenza del ruolo istituzionale di pace
dell’ONU.
Anno 2003: inizia la “reconquista” degli Stati
petroliferi canaglia.
Ponti d’oro a Gheddafi terrorista dichiarato.
Col dittatore affari, petrolio e baciamano. Il caso
italiano.
La forza del…petrolio.
Relazioni internazionali: meno mercantilismo, più
cooperazione reciprocamente vantaggiosa.
Cina, India, Brasile: novità nel mercato energetico.
Non solo petrolio, ma rinascita per i popoli arabi.
Il problema-Gheddafi poteva essere risolto otto anni fa
L’esperienza irachena avrebbe dovuto insegnare che si
parte dalla “no fly zone” per presto far degenerare
l’intervento “umanitario” in una vera guerra combattuta
per cielo, per mare e per terra, oltre i limiti imposti
dall’Onu che era quello di impedire alle forze di
Gheddafi di usare la forza aerea per attaccare gli
insorti.
È questo il risultato di queste prime fasi
dell’iniziativa militare congiunta della triade composta
da Francia, Gran Bretagna e Usa la quale, con l’ausilio
di alcuni altri Paesi, fra cui l’Italia, chissà cosa
pensa di combinare in Libia. Catturare, uccidere
Gheddafi, aiutare i suoi nemici a soppiantarlo o magari
insediare un governo fantoccio fedele più agli interessi
dei suoi sponsor che a quelli nazionali libici ?
Vedremo.
Intanto, osserviamo che se la politica e la diplomazia
avessero voluto il problema- Gheddafi si sarebbe potuto
risolvere già nel 2003, quando il dittatore ammise la
responsabilità degli attentati a due aerei civili (Pan-Am
e Uta) che provocarono la morte di diverse centinaia
d’innocenti passeggeri.
Per risolverla non ci sarebbe voluta una guerra, ma il
deferimento del colonnello alla Corte internazionale di
giustizia e, in caso di rifiuto del processo, adottare
tutte le sanzioni conseguenti.
Insomma, un processo severo e giusto e pubblico per
rendere giustizia alle vittime e punire il/i
responsabili, come impone la nostra civiltà giuridica.
Invece, i capi dell' Occidente hanno dimenticato il
bisogno di giustizia e, in questi 8 anni, si sono
trastullati a scambiare effusioni amichevoli, perfino
imbarazzanti, a realizzare affari d’oro col colonnello
reo confesso.
Ed ora rieccoli, ancora incollati al palcoscenico
mediatico: ieri per abbracciare Gheddafi oggi a
bombardare un popolo per punire il suo aguzzino.
I soliti quattro o cinque “volenterosi”, da Sarkoszy a
Berlusconi, a Zapatero, da Obama a Cameron (in
sostituzione rispettivamente: di Bush e di Blair) che
pretendono d’interpretare e di rappresentare la volontà
della comunità internazionale, dell’intera umanità.
Per amore di verità, non possiamo sottacere che, in
questi 8 anni, con Gheddafi hanno trattato, ad
intervalli, anche esponenti del centro-sinistra italiano
(da Prodi a D’Alema) i quali, tuttavia, non hanno
concluso con lui accordi impegnativi.
Italia: meno entusiasmi e più azioni per evitarne le
conseguenze della guerra
Un pugno di superuomini “volenterosi” (quasi tutti col
tacco rialzato) che hanno scatenato una guerra anomala,
asimmetrica, oltre i limiti del mandato autorizzativo
contenuto nella risoluzione n. 1973 del consiglio di
sicurezza dell’Onu.
Gli attacchi aerei indiscriminati, eccessivi,
devastanti stanno provocando terribili sofferenze alle
popolazioni colpite e dure reazioni persino ai vertici
della Lega araba (oltre che della Lega nord di Bossi, si
potrebbe aggiungere scherzosamente, ma non troppo).
Con l’intervento delle loro micidiali macchine da
guerra, che sui cieli di Libia non hanno rivali (i
libici dispongono di vecchi “Mig” russi e di alcuni
aerei, tecnologicamente inferiori, venduti a Gheddafi
dalla Francia e compagnia briscola), i comandi dei
“volenterosi” continuano a colpire, anche con centinaia
di missili Cruise imbarcati su mezzi navali, obiettivi
civili, impianti industriali e infrastrutture primarie
che non c’entrano nulla con la “no fly zone”.
Tutto ciò non può essere motivo d’orgoglio, ma di
preoccupazione visto che, per altro, sta avvenendo con
il coinvolgimento di mezzi e d’infrastrutture militari
italiani e a poche centinaia di miglia dalla Sicilia e
dalle altre regioni meridionali.
Le nostre Autorità, invece di entusiasmarsi per i
facili successi conseguiti, da altri, “per cielo, per
mare e per terra”, dovrebbero ricordarsi che stiamo
parlando di una ex colonia italiana, domata dalle armate
di Mussolini e del generale Graziani mediante il ricorso
all’uso dei gas ad iprite, agli eccidi più efferati e
alle deportazioni.
Dovrebbero preoccuparsi, codeste Autorità, dei
possibili, devastanti effetti che l’escalation di questa
guerra, ormai fuori del mandato Onu, potrebbe provocare
all’Italia, alla Sicilia in particolare, in termini di
sicurezza per le popolazioni e di salvaguardia dei
nostri interessi nazionali, economici e politici.
I due missili libici giunsero davvero a Lampedusa?
A questo proposito due parole vanno spese sulla
vicenda dei due missili che, nell’aprile del 1986, i
libici avrebbero lanciato contro Lampedusa come
reazione, inconsulta, al micidiale bombardamento Usa
sopra Tripoli e Bendasi.
Dobbiamo avere paura di una rappresaglia libica? I
loro missili possono colpire
la Sicilia, le altre regioni del Sud?
Personalmente non ho una risposta. Prendo atto delle
rassicurazioni, in senso contrario, date dalle Autorità
che, però, hanno accreditato, pur senza riscontri
evidenti, l’impatto, nell’aprile del 1986, dei due
missili libici sulla costa lampedusana o nelle sue
immediate vicinanze.
Insomma, se i missili sono arrivati allora perché non
potrebbero arrivare un quarto di secolo dopo, durante il
quale
la Libia avrebbe potuto acquistare nuovi sistemi
missilistici, a più lunga gittata. Questo dovrebbero
saperlo i servizi di controspionaggio.
A noi interessa rilevare talune incongruenze che nella
vicenda del bombardamento statunitense si verificarono,
a cominciare dalla sua programmazione.
Ricordo che, nel febbraio 1986, siamo stati ricevuti
al Pentagono, quali membri di una delegazione
parlamentare italiana, dal segretario di Stato alla
difesa, Weinberger e dal capo degli stati maggiori amm.
Crowe, ai quali posi precise domande in ordine al
ventilato attacco alla Libia.
Ovviamente, i nostri interlocutori smentirono
categoricamente, giacché non potevano, certo, comunicare
a noi la preparazione dell’operazione.
Quell’attacco si fece, due mesi dopo, e nonostante
l’avviso preventivo del nostro presidente del consiglio,
Bettino Craxi, alle autorità diplomatiche libiche
Gheddafi, nelle notti indicate, è rimasto a dormire
nella sua residenza abituale e perse sotto le bombe la
sua figlioletta di tre anni.
Strano che non abbia cambiato residenza e ancora più
strano che per ringraziare il governo italiano abbia
tirato due missili contro una città italiana.
Ma sono davvero arrivati quei missili intorno a
Lampedusa?
Non lo sapremo mai con sicurezza, giacché nessuno li
vide arrivare e le autorità militari non svolsero alcuna
indagine per accertare la veridicità o meno di
quell’evento.
Sarkoszy: il superpresidente che non vuole perdere le
elezioni
Torniamo alla tragica attualità della Libia, di questo
nostro inquieto Mediterraneo dove si vuol fare una
guerra per rovesciare un vecchio e screditato dittatore
come Gheddafi.
Se dovesse passare questo principio, di guerre se ne
dovrebbero fare almeno una trentina in giro per il
mondo.
Come quella che gli stessi “volenterosi” hanno fatto
in Iraq, provocando la morte di centinaia di migliaia di
vittime innocenti. In Iraq la volle Bush junior, in
Libia la vuole, fortissimamente, Sarkoszy, il
“superpresidente” francese che non si capisce dove
voglia andare a parare.
Una scelta avventurosa la sua che si colloca fuori
della tradizionale politica estera francese, da De
Gaulle in poi, e della sensibilità del popolo francese
che, ieri, in una elezione amministrativa parziale, ha
sanzionato il partito di Sarkoszy, che ha perso un sacco
di voti a favore di quello della signora Le Pen che per
poco non lo ha sopravanzato.
Insomma, la campagna elettorale non è facile come la
guerra aerea: qui non si bombarda dall’alto e poi si
scappa, ma bisogna combattere sul terreno, corpo a
corpo, per conquistare i voti, uno per uno.
I dittatori, di qualsiasi risma e colore, li devono
abbattere i popoli sottomessi, con mezzi propri e
rischiando quello che c’è da rischiare.
La comunità internazionale può solo offrire la sincera
solidarietà e, in caso di genocidio, l’intervento
umanitario per evitarlo.
E dalle poche notizie vere giunte dai luoghi del
conflitto (non da quelle artefatte della Tv del feudo
privato del clan dei Khalifa. Altro che dittatura!) in
Libia non era in atto un genocidio, per come lo intende
la giurisprudenza internazionale. Gli ebrei, che il
genocidio l’hanno subito, potrebbero, meglio chiarire il
significato, orribile, di questa parola.
In una parte della Libia (la
Cirenaica) è scoppiata l’unica rivolta armata del mondo arabo
(chi ha fornito le armi e perché?), molto segnata dal
fattore etnico/secessionista contro la quale si è mosso,
rozzamente, Gheddafi con le conseguenze che tutti
conosciamo.
Una situazione che può verificarsi ovunque, anche
nella nostra civilissima Europa (in Italia, Spagna,
Belgio, Gran Bretagna e in diversi Paesi dell’Europa
centro-orientale). Se, malauguratamente, dovesse
accadere il governo legittimo non se ne starà con le
mani in mano in attesa che arrivi, coi suoi aerei,
questo o un altro Sarkoszy a bombardare l’Italia per
portare soccorso agli insorti?
Perciò, la vicenda libica lascia perplessi, sia per il
modo in cui è stata gestita, sia per come la si vorrebbe
concludere.
Al posto di Gheddafi un consiglio di riconciliazione
nazionale
In ogni caso, l’Onu avrebbe dovuto, e potuto,
deliberare subito una risoluzione per il cessate il
fuoco ed inviare sul posto, invece di aerei e navi
lancia missili, delegazioni di pace col mandato di
trattare con le parti in conflitto una soluzione
politica concordata.
Con al primo punto l’uscita di scena del colonnello
Gheddafi per insediare, al suo posto, un Consiglio
provvisorio unitario, sul piano politico e geo-politico,
che portasse il Paese alla riconciliazione nazionale
sulla base di una nuova Costituzione per una riforma
democratica, pluralista e laica dello Stato.
Spiace rilevarlo, ma i fatti ci dicono che, negli
ultimi anni, le Nazioni Unite sempre più stentano a
svolgere, con giudizio ed equità, la loro missione di
pace, riducendosi a un ente fornitore di autorizzazioni
e legittimità presunte per guerre comunque camuffate.
Dando così ragione a quanti non vogliono più pagare la
retta per mantenerle in vita.
Il caso della risoluzione n. 1973 del Consiglio di
Sicurezza sulla Libia, (adottata a maggioranza con 10
voti a favore e 5 astensioni) è un esempio di tale
preoccupante decadenza.
In forza di quel voto, si sostiene che la “comunità
internazionale” ha dato mandato (a chi?) d’intervenire
in Libia con un preciso limite operativo come abbiamo
visto ripetutamente violato.
Crisi e decadenza del ruolo istituzionale di pace
dell’ONU
A parte gli aspetti formali, mi domando: i dieci Paesi
favorevoli in che misura rappresentano i sentimenti
della Comunità internazionale ossia dell’intera umanità?
Vediamoli: Bosnia-Erzegovina, Colombia, Gabon, Libano,
Nigeria, Portogallo, Sud-Africa, più i tre membri
permanenti Francia, Regno Unito e Usa.
Si sono astenuti, cioè non hanno approvato: Brasile,
Germania, India, più i due membri permanenti Cina e
Russia.
Da segnalare la singolare la posizione del Portogallo,
membro della Nato e della U.E, il quale ha votato per
l’intervento militare, ma si è rifiutato di prendervi
parte.
Non è questa l’unica condotta contraddittoria dei
paesi favorevoli i quali, ai sensi dello statuto
dell’Onu, potevano varare la controversa risoluzione, ma
avrebbero dovuto tener conto della esiguità della loro
rappresentatività demografica (circa 650 milioni di
persone) contro quasi tre miliardi dei paesi astenuti,
contro sei miliardi dell’intera popolazione mondiale.
In un regime democratico il principio fondante è: una
testa un voto. Così dovrebbe essere anche all’Onu. È
augurabile che, con la riforma da tutti auspicata e mai
varata, si possa dare alle Nazioni Unite quella funzione
di rappresentanza effettiva, democratica, che tenga
conto anche della nuova geopolitica e del peso
demografico delle nazioni.
Poiché la “comunità internazionale” non è data da un
ristretto gruppo di Stati e di statisti più potenti o
più intriganti, ma da tutti gli uomini e le donne che
vivono su questo Pianeta.
Anno 2003: inizia la “Reconquista” degli Stati
petroliferi canaglia
Che anno funesto quel 2003! Iniziò con la guerra
d'occupazione dell’Iraq, scatenata da George W. Bush,
sulla base di un falso eclatante (costruito ad arte,
anche con la partecipazione italiana) e senza la piena
condivisione della cosiddetta “comunità internazionale”.
Per esportare la democrazia si disse. In realtà, per
mettere le mani sopra le imponenti riserve di petrolio
irachene equivalenti a quasi il 10% del totale/mondo.
Perciò, il signor Bush, la cui famiglia d’affari
petroliferi molto s’intende, fece carte false pur di
togliere di mezzo quel dittatore scomodo (o non più
comodo come lo fu durante otto anni di guerra contro
l’Iran) di Saddam Hussein e appropriarsi di quel gran
ben celato sotto i deserti della Mesopotamia.
Non contento del disastro iracheno (si parla di
diverse centinaia di migliaia di morti innocenti), Bush
estese le sue mire minacciose su alcuni Paesi arabi non
perfettamente allineati al suo disegno strategico di
controllo politico e militare delle risorse energetiche.
Tra questi, ovviamente c’era
la Libia che da sola produceva circa 2 milioni di
barili/giorno di petrolio e poteva vantare importanti
riserve accertate (3,5% del totale/mondo) di molto
superiori di quelle Usa in esaurimento. Un piatto troppo
ghiotto per lasciarlo gestire a un Gheddafi che vende
quasi tutto il suo petrolio a Italia e Cina e che agisce
d’intesa col suo amico Putin che stava per mettere sulle
risorse libiche una pesante ipoteca commerciale.
L’intervento è anche un monito a quell' Eni, da sempre
irriverente verso i cartelli, il quale, oltre agli
accordi coi libici, si era permesso di sottoscrivere
accordi impegnativi, di ricerca e produzione, col
governo di Hugo Chavez, "dittatore" eletto del
Venezuela, che tanto fastidio procura alle compagnie e
ai governi Usa.
Visto che parliamo di riserve petrolifere è bene
tenere a mente che prima dell’Iraq vengono il Venezuela
(15%) e l’Iran (10%). Tutti Paesi sovrani che
l’amministrazione Usa ha inserito nella lista nera o
degli Stati- canaglia.
Se dovesse passare il disegno di “riconquista” di
questi Paesi qualcosa cambierà. Anche per l’Italia che
potrà continuare ad acquistare il petrolio, il gas
necessari, ma per averli i nostri dovranno probabilmente
andare a Parigi o a Washington e non più a Tripoli, a
Caracas, a Teheran.
Ponti d’oro a Gheddafi
terrorista dichiarato
Ma ritorniamo alla vicenda del dittatore libico, che
pazzo non è mai stato, semmai furbo e rozzo, il quale,
capita l’antifona contenuta nella minaccia di Bush,
corse ai ripari: si dichiarò disponibile a distruggere
gli impianti di produzione di armi chimiche (che nel
mondo possiedono ben 132 Paesi) e si accollò perfino la
responsabilità dei due terribili attentati ad aerei di
linea (Loockerbie e Uta).
Era questa la verità o solo un’assunzione di colpa
sotto minaccia, come dissero taluni uomini
dell’entourage del colonnello?
Fatto sta che Gheddafi accettò quella tremenda
responsabilità, addirittura risarcendo le famiglie delle
vittime, e dunque ammise, ufficialmente, che
la Libia era un Paese governato da un dittatore
sanguinario e terrorista internazionale.
Di fronte ad un' ammissione così grave, c’era da
aspettarsi la più severa condanna, morale e politica, la
messa al bando di Gheddafi da parte della famosa
“comunità internazionale”, della stessa Onu; almeno dei
Paesi occidentali (soprattutto Usa, Francia e
Inghilterra) ai quali appartenevano le vittime. Invece
nulla. L’Inghilterra, addirittura, liberò dall’ergastolo
l’unico imputato libico in carcere per gli attentati.
Per il colonnello non fu richiesto nemmeno il
deferimento al Tribunale internazionale dell’Aja,
emanazione dell’Onu, che gli Usa non accettano salvo ad
appellarvisi per perseguire le responsabilità di altri
(solitamente dittatori caduti in disgrazia).
Insomma, la politica dei due pesi e due giustizie.
Anche questo non è un bel modo di stare nella comunità
internazionale, addirittura di volerla guidare.
Col dittatore libico affari, petrolio e baciamano. Il
caso italiano
Perciò, chi si attendeva le più dure sanzioni rimase
deluso, poiché avvenne esattamente il contrario.
Sembra che l’ammissione delle sue tremende colpe sia
stata per Gheddafi una sorta di lasciapassare per
introdursi nei salotti buoni degli affari e della
finanza occidentale.
Molti si vantarono di averlo “sdoganato” (che brutto
verbo!) anche sul piano politico. E così il dittatore e
terrorista confesso divenne un “interlocutore” credibile
per l’Italia, per l’Europa e per gli stessi Usa. In
realtà, lo ossequiavano come munifico acquirente di
quote azionarie di banche e di società in difficoltà, di
beni manifatturieri e di sistemi d’arma, di aerei e
missili delle migliori marche italiane, francesi,
inglesi, Usa, belghe, russe, cinesi, ecc.
Insomma, nel 2003, invece che sanzioni a Gheddafi fu
riservata un’entrata trionfale, talvolta disgustosa, in
questa sorta di “club esclusivo” dei potenti della Terra
dove le credenziali più richieste sono le armi e il
petrolio.
In tale contesto, un ruolo speciale, politico,
economico e finanziario, lo svolge l’Italia che con
la Libia ha sottoscritto diversi accordi soprattutto nel
settore petrolifero e del gas (Eni) e, nell’agosto del
2008, un Trattato di cooperazione in diversi campi
(compreso quello militare!) che dovrebbe anche chiudere
il lungo contenzioso per il risarcimento dei danni
provocati dall’Italia con le guerre coloniali.
Un trattato oneroso e pasticciato contro il quale rare
furono le indignazioni e le proteste.
Solo pochi dicemmo, e scrivemmo, che l’Italia
democratica non poteva trattare con un dittatore e
terrorista dichiarato. I radicali dettero battaglia in
Parlamento in sede di ratifica, ma senza successo.
Ovviamente, in quel momento, non erano la moralità e la
legalità internazionale le priorità del governo e dei
partiti.
La forza del… petrolio
Una pagina da dimenticare come quella festa, a dir
poco stomachevole, per il primo anniversario di quel
Trattato, avvenuta a Roma nel 2009, presenziata da
Gheddafi col suo seguito di amazzoni e cammelli,
suggellata da quel baciamano del capo del governo,
Silvio Berlusconi che lascia interdetti.
Anche se bisogna annotare che, in quello stesso anno,
a Londra, il leader maximo dell’Occidente, cioè il
presidente Usa Barak Obama, si è prostrato, con un
inchino di 90 gradi, davanti al re dell’Arabia Saudita,
uno Stato feudale con molto petrolio e zero diritti
umani e di libertà per i sudditi.
Evidentemente, sarà cambiato, a nostra insaputa,
qualcosa nel cerimoniale di talune cancellerie
occidentali.
Quando si dice la forza del… petrolio! Sì, perché è
inutile fingere! Gli inchini, i baciamani non sono certo
dovuti all’eccellenza di quei Beduini (per me questa
parola non ha nulla di offensivo, anzi), ma al loro
petrolio. Petrolio, sempre petrolio! Certuni, si
mostrano infastiditi quando si tocca questo tasto.
Ma perché mai? Gli idrocarburi sono necessari e ancora
lo saranno (specie dopo il disastro della centrale
nucleare giapponese) per far girare le nostre economie e
assicurare un certo stile di vita ai cittadini. E fin
quando servirà, volenti o nolenti, ce lo dobbiamo
procurare. Il problema, semmai, è di vedere come e a
quali condizioni.
Relazioni internazionali: meno mercantilismo, più
cooperazione reciprocamente vantag-giosa
I modi sono diversi: da quelli tradizionali basati
sulla compartecipazione o sulla compravendita a quelli
della cooperazione petrolio in cambio di beni primari.
I cinesi stanno, per esempio, sviluppando in alcuni
Paesi, soprattutto africani, una forma di cooperazione
basata sullo scambio petrolio/investimenti per lo
sviluppo (realizzazione d’infrastrutture primarie,
istruzione dei giovani, ecc).
Ma non c’è un modello valido per tutte le situazioni.
L’importante è sapere che la cooperazione, per essere
tale, deve riuscire a ridurre, progressivamente, il
carattere meramente mercantile dello scambio e quindi la
perniciosa influenza dei detentori del potere
petrolifero (cartelli multinazionali e petro-dittature
locali) sulle economie e sulla politica.
Un’opzione questa che fa molto arrabbiare gli
oligopolisti delle materie prime energetiche, tuttavia
più rispondente alle effettive esigenze di compatibilità
ambientale e di crescita civile e pacifica dell’umanità.
Poiché, anche il benessere, la salute, l'istruzione,
l’equilibrio ambientale sono diritti umani a tutti gli
effetti, di tutti i popoli, con o senza petrolio, con o
senza tecnologie evolute. O mi sbaglio?
Utopia? Certo, ma fino ad un certo punto. Si può fare.
Rassicurando i pavidi e gli ingordi che cooperazione e
intervento pubblico mirato nell’economia non vogliono
dire abolizione violenta dell’attuale sistema sociale.
Pubblico e privato possono convivere proficuamente.
Come è stato in Italia, fino agli anni ’80, quando più
del 50% dell’economia marciava sotto il segno degli enti
di Stato e delle cooperative e- mi pare- che la gente
era più contenta del Paese in cui viveva.
Ovviamente, per avviare oggi una cooperazione
internazionale, reciprocamente vantaggiosa, bisognerà
riformare il sistema di accordi commerciali vigenti,
frutto dei vari “round” del WTO pensati e attuati per
assicurare il massimo profitto per pochi, a scapito dei
molti e della Terra in cui viviamo.
Cina, India e Brasile: novità nel mercato energetico
Accordi e strategie che hanno consegnato, anche
politicamente, il nostro mondo nelle mani di un
capitalismo selvaggio, improvvisato, avventuroso e
soprattutto senza un progetto di società inclusiva.
Un meccanismo infernale che consuma ingenti risorse,
sempre più scarse e costose, perciò si è scatenata, fra
vecchie e nuove potenze industriali e commerciali, la
corsa all’accaparramento delle materie prime, e in
particolare di quelle energetiche: petrolio, gas,
uranio, ecc. E, attenzione, anche delle terre agricole,
dell’acqua e domani chissà anche dell’aria che
respiriamo.
Con l’ingresso, poderoso, di Cina, India e Brasile nel
mercato petrolifero mondiale le cose stanno cambiando.
Nel senso che innanzi ai produttori non ci sono soltanto
i vecchi cartelli occidentali, ma nuovi soggetti
portatori di nuove possibilità e modalità di vendita.
Le carte si stanno rimescolando e non sarà sempre il
dollaro Usa a tenere il banco. Nelle transazioni
potrebbe essere soppiantato con altre monete di
riferimento.
La qualcosa sarebbe il più grande disastro per un
Paese che per tirare avanti ha bisogno di accrescere il
suo già stratosferico debito pubblico, l’enorme
importazione di beni diversi e soprattutto d’idrocarburi
e di tanto in tanto fare qualche guerra per assicurare
mercati alle sue produzioni belliche.
È triste rilevarlo, ma sembra che l’Occidente,
democratico e progredito al massimo delle sue
possibilità, per difendere il suo benessere, in taluni
casi scandaloso, debba sempre più ricorrere alla
soluzione militare e sempre meno alla politica solidale
e pacifica.
Tutto ciò, in estrema sintesi, spiega la diversità
d’approccio e di trattamento dei Paesi petroliferi,
arabi in specie, ai quali è richiesto non solo la
disponibilità al rifornimento sicuro e costante, e a
prezzi convenienti, ma la fedeltà assoluta ai contratti
pubblici e a quelli sottobanco.
Non solo petrolio, ma rinascita per i popoli arabi
Ora, qui, nessuno vuole ridurre l’attuale travaglio
del mondo ad una questione energetica, al petrolio.
Ovviamente, v’influiscono altri fattori che abbiamo
visto emergere anche dalle rivolte, giovanili e non
solo, del mondo arabo: gli aneliti alla libertà, alla
democrazia, al benessere sociale.
Confesso che, da lungo tempo, attendiamo questa nuova
“Ennada” (rinascita) dei popoli arabi amici come
risposta laica, moderna alla crisi atavica dei vecchi
Stati-caserma.
Diritti inalienabili, conculcati, repressi che bisogna
affermare e salvaguardare anche dai tentativi di
strumentalizzazione, interna e esterna, che vorrebbero
cavalcare la protesta per inconfessabili obiettivi di
potere.
Tuttavia, non c’è dubbio che il petrolio, in molti
casi, è il fattore dominante, ma non si può dire. Forse
perché sporca o unge? 0 per non urtare la sensibilità
pelosa dei nuovi signori della guerra che, in nome della
civiltà occidentale, vorrebbero esportare la democrazia,
con i cannoni e gli aerei di ultimi generazione, ma solo
ai dittatori scomodi?
Infatti, questi campioni della democrazia non hanno
mai disturbato i dittatori amici (e sono molti di più di
quelli scomodi) perché evidentemente ritenuti
affidabili, non sul terreno democratico inesistente, ma
su quello più concreto e redditizio dei rifornimenti, a
comando, di petrolio e gas.
Insomma, in questi casi, Libia compresa, si dimostra
quantomeno una doppia morale o, se volete, la classica,
ingiusta politica dei “due pesi due misure”.
Non c’è dubbio che per i leader occidentali la
democrazia è solo un pretesto, solo cibo edulcorato da
offrire ad un’opinione pubblica, sistematicamente
disinformata, che ancora crede (e fa bene!) nei giusti
principi e nei metodi della democrazia e della libertà.
Agostino Spataro*
Budapest 22 marzo 2011
*Agostino Spataro, giornalista e scrittore, direttore di
“Informazioni dal Mediterraneo”(www.infomedi.it)
già componente delle Commissioni Esteri e Difesa della
Camera dei Deputati.