Paesi Arabi: rivolta o
rivoluzione?
di Agostino Spataro
Sommario:
Democrazia per i Paesi arabi poveri e per quelli ricchi;
la rivoluzione degli internauti - Egitto: i due fantasmi
più temuti - i Fratelli Musulmani - la Fratellanza in posizione d’attesa? - Egitto, un nuovo Iran? -
L’entusiasmo per la “rivoluzione” iraniana - il Cairo
non è Berlino - nel mondo arabo manca la “rivoluzione
francese”. |
Democrazia per i Paesi arabi
poveri e per quelli ricchi
Povertà, istruzione, social network: agitando per bene
questi tre fattori si ottiene un mix esplosivo che nel
mondo arabo è giunto a mettere in discussione anche i
rais più autocratici. È accaduto prima in Tunisia e poi,
a catena, in Egitto, nello Yemen…domani chissà!
Le piazze delle loro capitali si sono sollevate per
chiedere libertà, lavoro e benessere economico e riforme
democratiche. Richieste giuste, sacrosante contro regimi
cristallizzati che parevano eterni. Stranamente, però,
le proteste si sono scatenate nei Paesi più poveri,
anche se i più carichi di cultura e di storia. Nulla,
invece, si è mosso nelle cosiddette “petro – monarchie”,
nei paesi grandi produttori d’idrocarburi. Come se qui
tutto andasse nel migliore dei modi. In realtà, non
esistono Costituzioni, Parlamenti, elezioni (nemmeno col
trucco), libertà civili e religiose, e i cittadini,
soprattutto le donne, vivono dentro un medioevo lugubre
e penoso, senza speranza di rinascimento.
Eppure, nessuno, in Occidente e in estremo Oriente,
osa disturbare, censurare, diffidare il manovratore
ossia quella caterva di re, sultani, emiri e loro corti
al seguito il cui potere deriva dal sottosuolo dove si
nascondono enormi riserve petrolifere e di gas. Quasi
che la libertà non fosse un valore universale
inalienabile, ma una merce da barattare con altre merci,
caso per caso.
La transizione democratica, l’uguaglianza fra uomini e
donne, la tolleranza, la convivenza fra culture e
religioni diverse? Se ne parlerà alla prossima rivolta.
Due pesi e due misure?
Soprattutto, a me pare, un’incorreggibile miopia
politica dell’Occidente che non riesce a vedere oltre il
barile di petrolio
La “rivoluzione” degli internauti
E così, oggi, abbiamo le piazze di alcune importanti
capitali arabe invase dalle proteste sacrosante
soprattutto di studenti, diplomati e disoccupati.
Nessuno l’aveva previsto. Nemmeno i potenti servizi
segreti. I giornali, le Tv, che raramente si sono
occupati di questi paesi, per altro, a noi vicini, le
hanno frettolosamente battezzate “rivoluzioni”,
aggiungendovi una bizzarra tipicità locale (quella
tunisina l’hanno chiamata dei gelsomini) quasi a volerla
ingentilire per non spaventare nessuno in Occidente.
In realtà, si tratta di rivolte espressione di uno
stato d’animo colmo di rabbia e di amarezza accumulate
nel tempo, di una condizione sociale che, finalmente,
insorge contro le ingiustizie e le più sfacciate
ricchezze. L’obiettivo è chiaro: cacciare i tiranni a
capo di regimi autoritari e corrotti, garantire la
libertà per tutti e riformare i sistemi elettorali fatti
su misura per il rais di turno.
Il dato nuovo di queste sorprendenti proteste è la
presenza dei giovani in gran parte istruiti e
disoccupati. Soprattutto di quelli appartenenti alla
fascia intermedia, fra i 18 e i 29, che secondo
l’analista Abdel Moneim Said, (“Ahram-hebdo” del
2/2/2011) costituiscono il 23, 5% della popolazione
ossia 19,8 milioni di unità. Il 36% di questi giovani
raggiunge la scuola secondaria tecnica, mentre il 28% l’
insegnamento superiore. Giovani che hanno un rapporto
molto intenso con Internet e con i network. Secondo un
rapporto “Il mondo elettronico in Egitto”- citato da
Said- il numero degli utenti d’Internet è passato da
300.000 del 1999 a 14,5 milioni del 2009 a oltre 22
milioni nel 2010.
L’Egitto è in testa ai paesi arabi per utilizzatori di
Facebook e Youtube, mentre i blog egiziani corrispondono
al 30,7% dei blog arabi e allo 0,2% dei blog mondiali.
Sarà, forse, per questo che taluni hanno proclamato
leader della rivolta, icona del nuovo Egitto, un giovane
dirigente di Google in Medio Oriente, Wael Ghonim,
arrestato e rilasciato dietro le potenti pressioni del
governo Usa.
Prudenza, signori inviati! Il mondo non è solo quello
virtuale. Anche Bin Laden e i suoi seguaci usano Google
e i social-network. Per altro, la crescita della
componente giovanile egiziana internettizzata, -
sostiene Said- denuncia un fenomeno relativamente nuovo:
quello dei “giovani ideologici”.
“In effetti, diversi indicatori, rilevano come certi
gruppi di giovani cominciano ad adottare visioni e
ideologie che si basano su concetti religiosi. E così
sono apparsi i giovani salafisti, i giovani della
Fratellanza e i giovani copti.”
Egitto: i due fantasmi più
temuti
Comunque sia, la protesta resiste, anzi si allarga ad
altri settori sociali e città egiziani. Tuttavia, non si
va oltre le richieste di dimissioni di Mubarak e di
annullamento delle recenti elezioni politiche. Stenta,
cioè, ad emergere una piattaforma programmatica globale
capace di aggregare uno schieramento sociale e politico
alternativo al blocco di potere dominante.
L’Egitto è un Paese - chiave del mondo arabo, con
oltre 80 milioni di abitanti, è uno dei più popolosi del
Mediterraneo e del Medio Oriente. Un paese di contadini,
d’impiegati pubblici, di operai e con un ceto medio
diffuso. Un paese povero, a tratti disperato, col 40%
della sua popolazione che, statisticamente, vive con
meno di due dollari il giorno.
L’economia egiziana è fragile poiché si regge su tre
pilastri fortemente influenzati dalla contingenza
internazionale: il turismo, le rimesse degli emigrati e
le entrate del Canale di Suez.
La domanda che molti si fanno è la seguente: quanto di
questo Egitto è presente in piazza Tahrir? La piazza è
ritornata piena, tuttavia fuori di essa c’è una
moltitudine che guarda, inquieta, in attesa di conoscere
il corso risolutivo degli eventi. Cosa è questa calma
apparente? Una tregua o l’anticamera di una reazione
violenta? O, forse, un segnale che oltre non si può
andare?
È difficile dare risposte esaustive a queste e ad
altre domande, tuttavia bisogna mettere in conto il
timore di molti per un cambio radicale che farebbe
materializzare i due fantasmi oggi più temuti in Egitto
e dalla comunità internazionale: il crollo dell’economia
e il dilagare, sul terreno politico ed elettorale dei
“Fratelli musulmani”, l’unica forza politica e culturale
realmente alternativa al regime di Mubarak.
I Fratelli Musulmani
Per quanto moderata e defilata da piazza Tahrir,
nessuno sottovaluta (semmai qualcuno sopravaluta) il
peso di questa potente Associazione che, dal 1928, (anno
della sua fondazione) lavora per plasmare con la sua
ideologia islamista la società e i settori più sensibili
della cultura, dell’amministrazione, delle professioni e
delle forze armate egiziani e di altri Paesi del Maskrek
quali Giordania, Siria, Yemen, ecc.
Non potendo sconfiggere
la Fratellanza sul terreno del confronto politico e del consenso di
massa, i regimi l’hanno messa al bando anche se l’hanno
tollerata e talvolta usata per combattere le spinte
laiciste provenienti dai settori progressisti e di
sinistra della società. Solo le forze armate sono state
capaci di tenerla a bada. Così è stato dal 1954, da
Nasser fino a Mubarak.
Oggi, in Egitto,
la Fratellanza è sempre molto forte e bene organizzata. Secondo gli
specialisti, conterebbe circa due milioni di aderenti,
mentre nelle penultime elezioni politiche (2005) le sue
liste “indipendenti” hanno ottenuto il 20% dei voti e 88
seggi in Parlamento. Un risultato importante visto che
non era presente con i propri simboli e programmi e
considerati i meccanismi truffaldini del sistema
elettorale egiziano. Nelle elezioni del 2010
l’Associazione ha deciso di non parteciparvi per
protesta contro i brogli e le pressioni indebite degli
apparati di regime il quale così si è assicurato circa
il 90% dei seggi in Parlamento.
Comunque sia, oggi,
la Fratellanza resta la principale forza di opposizione anche se
divisa al suo interno. Negli ultimi anni è in atto un
duro confronto fra tendenze riformatrici e conservatrici
che, nel gennaio
2010, ha portato ad un cambio di “Guida”. Il nuovo
leader è Mohamad Badie, un medico pragmatico
appartenente al “gruppo del 1965”, l’anno della
repressione nasseriana in cui fu arrestato con altri
fratelli puri e duri fra i quali Sayyid Qutb, il vero,
grande teorico dell’islamismo radicale moderno, a sua
volta condannato a morte e giustiziato nel 1966.
Un nome sconosciuto quello di Qutb in questo
stravagante Occidente che ha promosso disastrose “guerre
preventive” per sconfiggere l’islamismo radicale e
terrorista, senza prendersi la briga di conoscere le
loro principali fonti d’ispirazione.
La Fratellanza in posizione d’attesa?
Ma questa è un’altra storia. Anche se, come scrive May
Al-Maghrabi, su Ahram Hebdo del
20/1/10 a commento del cambio di Guida, “i fratelli
musulmani sono uniti sull’instaurazione di un sistema
fondato sull’Islam e
la Charia (legge coranica), ma sono profondamente divisi sulla
strategia da tenere. I conservatori vogliono mettere
l’accento su l’islamizzazione in profondità della
società, mentre i riformatori preconizzano un approccio
più politico e sono aperti all’e alleanze con le forze
d’opposizione. La sfida dei Fratelli musulmani è
attualmente di sopravvivere e di restaurare la loro
immagine. Il prezzo sarà un ritiro provvisorio dalla
scena politica.”
Grosso modo, quello che i Fratelli stanno facendo
oggi, ad un anno dall’analisi di Al-Maghrabi. Ne è
convinto anche Makram M. Ahmed, un altro analista di
Al-Ahram, il quale scrive il
2 febbraio 2011, nel vivo delle drammatiche proteste
cairote, “la
Fratellanza continua ad incitare la popolazione a piazzarsi sulla
prima linea degli scontri. Ma, all’ultimo momento, essa
prenderà posizione negli ultimi posti e attenderà il
risultati…”
Insomma, in Egitto, la questione dei movimenti
islamisti (non solo dei Fratelli musulmani) è piuttosto
complessa e richiederebbe molto più spazio per
trattarla.
Per dare un’idea, ricordo quanto detto (ad Al-Ahram
Weekly, aprile 1993) da Nagib Mahfuz, premio Nobel
per la letteratura e vittima egli stesso di un grave
attentato degli islamisti: “Anche se non sono
d’accordo con gli islamisti, debbo constatare che essi
sono il primo partito politico di questo Paese e che la
loro politica corrisponde ai tre grandi problemi storici
che si pongono in Egitto: l’indipendenza nazionale, la
giustizia sociale e lo sviluppo”.
Egitto, un nuovo Iran?
Oggi, molti, a cominciare dai dirigenti israeliani,
temono che in Egitto possano prendere il sopravvento le
forze dell’islamismo, come avvenne in Iran nel 1979. Gli
israeliani enfatizzano il pericolo perché temono che,
con l’uscita di scena di Mubarak, perderebbero un
prezioso alleato che fa parte di quella strana rete di
“nemici” che si sono scelti per affrontare la “questione
palestinese”.
A parte l’enfasi degli israeliani, il problema esiste.
Anche se un nuovo Iran non è all’orizzonte immediato o a
medio termine. Diverse sono le condizioni politiche,
culturali ed economiche fra i due Paesi, così come
differenti sono le caratteristiche religiose: in Iran
predomina lo sciitismo, in Egitto la tradizione sunnita
che convive, con qualche problema, con una forte
comunità cristiana copta (circa 8 milioni)
Perciò, è difficile fare previsioni attendibili sugli
esiti di queste rivolte. Anche nel
1979, in Iran, nessuno poteva immaginare la piega che
presero gli avvenimenti dopo i primi governi di
transizione. L’abbattimento del regime repressivo dello
Scià fu opera di un' eccezionale mobilitazione popolare
unitaria: dai comunisti del Tudeh ai “mujahiddin del
popolo”, dalle vecchie formazioni liberaleggianti ai
seguaci dello sciitismo dell’ayatollah Khomeini.
Bani Sadr fu eletto presidente come espressione di
questo contesto unitario di forze rivoluzionarie. Dopo
pochi mesi fu costretto all’esilio. Al suo posto vennero
i chierici di Khomeini che si appropriarono di tutto il
potere in nome di Allah. L’ayatollah Khalkali, il
braccio della morte di quella “rivoluzione”, fu
incaricato di liquidare con la tortura e le impiccagioni
tutti coloro che non si sottomisero alle pretese
illiberali di Khomeini.
L’entusiasmo per la “rivoluzione” iraniana
Anche allora grande fu l’entusiasmo per quella
“rivoluzione” da parte di ampi settori democratici e
della sinistra europea e italiana. Ricordo che nel PCI
c’era una forte corrente di simpatia per quella strana
“rivoluzione” fatta in nome di Allah. Molti esponenti e
intellettuali erano con Khomeini, con la sua
costituzione basata sulla “charia”, anche quando
cominciarono a funzionare le forche di Khalkali.
Personalmente, da deputato del PCI, sono stato fra i
pochissimi che non hanno condiviso tale analisi e
contestato, anche pubblicamente sui giornali, quella
“rivoluzione” e la repubblica islamica degli ayatollah
che è ancora lì, a provocare un sacco di problemi
interni e internazionali.
Giacché, siamo in argomento, desidero aggiungere un
altro fatto che, stranamente, tutti sembrano
dimenticare. Dopo la fuga del presidente Bani Sadr
arrivarono al potere i chierici integralisti, fra i
quali un certo Hossein Moussawi, uno dei primi ministri
più longevi. Durante i suoi otto anni di governo, in
Iran si realizzò la “grande repressione” nella quale
furono eliminati fisicamente circa 33 mila oppositori
politici.
Sì, avete letto bene Hossein Moussawi, lo stesso mite
professore che nelle ultime elezioni i “riformatori”
iraniani, capeggiati dallo “squalo” Rafsanjjani, in
combutta con i liberal europei e Usa, hanno contrapposto
come presidente al candidato del potere, Mahmud
Ahmadinejad.
Il Cairo non è Berlino
Perciò, prima di parlare di “rivoluzione” bisognerebbe
approfondire le vicende storiche e un po’ meglio
conoscere la realtà attuale di questi Paesi.
La rivoluzione, se è tale davvero, deve essere capace
di sovvertire l’ordine sociale esistente e di crearne
uno nuovo di segno contrapposto. E in tutto il mondo
arabo, l’unica rivoluzione così caratterizzata è stata
quella, eroica e sanguinosa, del popolo algerino per
liberarsi dal giogo coloniale francese. In altri Paesi
non ci sono state rivoluzioni, ma esperienze cospirative
quasi sempre culminate in colpi di stato militari,
spesso etero diretti e/o favoriti dai servizi dell’Est e
dell’Ovest, che hanno generato molti regimi ancora al
potere. Perciò, mi pare una forzatura stabilire una
similitudine fra queste rivolte e la “rivoluzione” del
1989 (simbolicamente rappresentata dall’abbattimento del
muro di Berlino) che, in realtà, fu una presa d’atto,
senza spargimento di sangue, dell’implosione di un
sistema ormai esausto.
In Egitto, ma anche in Tunisia e nello Yemen, i vecchi
regimi non sembrano intenzionati alla resa. Semmai,
faranno qualche concessione politica ed elettorale. Sono
caduti diverse centinaia di manifestanti (300 solo in
Egitto) ma ancora non c’è una vera svolta. L’unico
elemento di novità è la nomina a vicepresidente del
fidato generale Suleiman e la trattativa che questi ha
avviato con le delegazioni dei partiti, fra le quali,
per la prima volta, quella dei Fratelli Musulmani. Per
il resto, Mubarak, nonostante le caute pressioni
internazionali, non si è dimesso e intende restare per
guidare il processo di transizione.
La situazione, dunque, resta tesa e potrebbe
degenerare in più gravi disordini e perfino in un vuoto
istituzionale che i militari non potrebbero consentire.
Una cosa è certa: la situazione di stallo non può
continuare a lungo, dovrà evolvere o nel senso della
democrazia o della repressione. Il Cairo non è Berlino.
E fra i due sistemi ci sono grandi differenze. Il blocco
sovietico ha mollato un impero senza spargere una goccia
di sangue.
La Cina "comunista", addirittura sta facendo di meglio:
trasformare, pacificamente e a tappe forzate, il suo
socialismo rurale in un capitalismo avanzato,
industriale e finanziario, per altro molto competitivo e
mondializzato.
Nella sua millenaria storia, il capitalismo non ha mai
ceduto nulla senza prima aver provocato una guerra
disastrosa. E l’Egitto è pienamente inserito nel sistema
del capitalismo globale.
Nel mondo arabo manca la “rivoluzione francese”
Rivolta o rivoluzione, dunque? Gli avvenimenti e la
storia s’incaricheranno di fornire la risposta esatta.
Tuttavia, una cosa si può auspicare: la rivoluzione che
oggi si richiede all’Egitto e agli altri paesi arabi è
quella per affermare la laicità dello Stato e i diritti
civili e politici. Insomma, una rivoluzione come quella
che fecero i francesi nel 1789 (non 1989).
Il più grande evento della storia moderna che, a parte
qualche eccesso, consentì ai popoli europei di passare
dalla condizione di sudditi di regimi assolutistici alla
dignità di cittadini liberi.
(11
febbraio 2011)
Agostino Spataro, giornalista, direttore di
www.infomedi.it , collaboratore di “la Repubblica”,
è autore di diversi saggi sul Mediterraneo e sul Mondo
arabo