Oscar meritato per La grande bellezza
Tra i registi della nuova
generazione, Paolo Sorrentino, nato a Napoli 44 anni
fa e da sei anni residente a Roma, è certamente il
più grande. Per lui un 2014 trionfale con il premio
Golden Globe e il premio Oscar come Miglior film
straniero per La grande bellezza.
Dal 2001 ad oggi ha girato sei
film e per cinque volte è stato selezionato per il
festival di Cannes. Ha vinto David di Donatello,
nastri d’argento ed il Prix du Jury a Cannes per
Il Divo nel 2008, mentre nel 2004 con Le
conseguenze dell’amore aveva già fatto incetta
di premi. Ha inoltre scritto numerose sceneggiature
ed un romanzo: “Hanno tutti ragione”, che si è
rivelato un successo editoriale.
Memorabile fu il suo film su
Andreotti, che gli permise attraverso il sommo
statista di raccontare le strutture del potere.
Prima di girare il film si recò
due volte a trovare il senatore a vita nel suo
studio di San Lorenzo in Lucina. Li ricorda con
grande emozione, perché incontrare Andreotti
significa confrontarsi con un personaggio
mitologico. Accompagnato da Giuseppe D’Avanzo di
Repubblica, non azzardò domande sulla mafia o sul
delitto Moro, anche per la nota abilità del suo
interlocutore a schivare le domande più insidiose,
ma ne ricavò tanto da poter delineare non solo il
ritratto di un uomo straordinario, ma anche di
rappresentare i delicati meccanismi con cui si
estrinseca il potere.
Quest’anno il travolgente
successo di pubblico e di critica con La grande
bellezza. Cinquant’anni dopo “La dolce vita” di
Fellini, Sorrentino (con Umberto Contarello) torna
ad interrogarsi su Roma. Fellini lo faceva
attraverso un giornalista con ambizioni letterarie
(il Marcello Rubini di Mastroianni),
Sorrentino attraverso un letterato che si è ridotto
a fare il giornalista (il Jep Gambardella di
Tony Servillo), ed il cambio di prospettiva è già
significativo della decadenza e dell’involuzione.
Notti passate in vacue feste, amicizie senza
spessore, incontri tra egoismo e solitudini, cinismo
coperto dai sorrisi: chi se ne distacca, come il
Roman di Verdone e la Ramona della
Ferilli, è perché sente più di altri il peso del
fallimento o della finitudine. Il film mette in
mostra, a volte con scene indimenticabili (la
performance all’acquedotto Claudio, l’incontro a
sorpresa con Fanny Ardant, l’acquisto del vestito da
funerale, la giraffa a Massenzio), le sabbie mobili
fatte di mondanità e chiacchiericcio in cui nuovi
ricchi e vecchi intellettuali affondano. Ma con un
eccessivo compiacimento per la replica letteraria e
troppo “senno di poi” per ritrovare e rinnovare la
lucidità felliniana.
Se la grande bellezza è un film
suggestivo, il merito è anche della bravura di Tony
Servillo, attore prediletto da Paolo Sorrentino e in
una certa misura alter ego del regista sullo schermo
(come lo fu Mastroianni di Federico Fellini). Questo
è stato il loro quinto set assieme, perché nel 2005
hanno girato anche una versione per la TV di
Sabato, domenica e lunedì, celebre commedia di
De Filippo. Proprio il teatro è la passione che li
accomuna. Quel teatro che Servillo cominciò a fare
da ragazzo nell’oratorio salesiano di Afragola. Oggi
per lavoro gira l’Europa, ma conserva le sue radici
e la famiglia (la moglie Manuela e figli Eduardo e
Tommaso) a Caserta.
«Il mio Jep è un dissipatore
di vita e di talento», spiega Servillo, 54 anni
«il suo tratto è l’ironia, intesa come una
passione che prende le distanze. La risata che sa
sostituirsi alla malinconia, “Si ride per nun
chiagnere”, si dice a Napoli. Soltanto un Napoletano
come Jep poteva raccontare con tanto disincanto
Roma».
La stampa internazionale ha
accolto con favore “La grande bellezza”. Per il “the
Guardian” il film «significa Roma, e vuole annegare
nell’insondabile profondità della storia e della
mondanità romana». Secondo l’”Hollywood reporter”
«fortunatamente il regista Paolo Sorrentino sa fare
di meglio che imitare il gigantesco Fellini riparte
da dove “La dolce vita” ci ha lasciati 53 anni fa».
Per “Le Monde” «con le dovute proporzioni
Servillo si rivela essere ciò che Mastroianni fu per
Fellini», Sorrentino «ha delle belle trovate
filmiche» ma «non eguaglia i suoi maestri».
Prima o poi i conti con Roma
toccano a tutti a chi ci è nato, a chi ci si è
trasferito, a chi ha sempre cercato di evitarla.
Sorrentino, che nella capitale è andato ad abitare
con la famiglia da non molti anni, aveva spesso
ambientato i suoi film altrove: a Napoli, in
Svizzera, a Sabaudia, addirittura negli States.
C’era stato “Il divo”, naturalmente, ma lì Roma
entrava di rimbalzo, quasi controvoglia. Adesso, a
43 anni, deve aver pensato che fosse arrivato il
momento giusto. E infatti il titolo-omaggio “La
grande bellezza” si materializza proprio dietro il
panorama dei tetti cittadini, vago come una specie
di miraggio.
Sullo sfondo di quella che già
Moravia chiamava atonia morale, c’è la bellezza
tragica della Capitale, Sant’Anselmo e Palazzo
Sacchetti fanno da contrappunto alla volgarità più
sfacciata e all’arroganza più esibita. Ma in questo
ritratto feroce della Roma Babilonia vi si può
leggere il declino di un’intera nazione. A mo’ di
annuncio d’inizio spettacolo, un po’ come il gong
all’Arena di Verona, nella prima scena c’è il
cannone delle 12 al Gianicolo, e allargando lo zoom
alle vicine fontane Sorrentino sfoggia tutto il suo
estro visionario e poetico, che cozza frontalmente
contro il vuoto della triste baldoria che racconta.
Poi troviamo le rovine
dell’antica Roma, come ripasso felliniano. Eccoci
sull’Appia antica, a Villa dei Quintili, che era la
più fastosa residenza del suburbio romano già prima
di diventare proprietà imperiale con Commodo (la cui
meschinità) esplorata ne “Il gladiatore” crea
un’armonia tossica con “La grande bellezza”. Qui
Sorrentino fa scagliare una donna nuda, vestita di
un velo, contro i resti di roccia, e la performer
urla davanti alla platea di galleristi e
collezionisti d’arte: «Io non mi amo».
Servillo (il cui vicino di pianerottolo è un
latitante che quando viene portato via in manette
urla: «Io faccio andare avanti il paese») prova ad
intervistarla. Lei recalcitra. Rivendica il mistero
dell’arte, «l’artista non ha bisogno di spiegare
cose, ha delle vibrazioni». Servillo incalza «che
cos’è una vibrazione?» lei dice che è il suo
radar per intercettare il mondo. Lui conclude
rassegnato: «è l’ultima volta che intervisto una che
da’ le capate al muro».
In una di queste chiacchiere
attorno al nulla si discute della romanità e di un
certo modo di stare al mondo, «siamo famosi
all’estero per le piazze e per le pizze, Roma è
collettivismo puro, è la città del marxismo attivo»,
perché dagli altari in una settimana ti può
riportare giù a valle. Via Veneto di notte è un
deserto di tavolini vuoti, di Giapponesi storditi
dall’alcol, di prostitute senza clienti. Non c’è
nulla della via Veneto della “Dolce vita”. All’epoca
non era più una strada ma una spiaggia, come diceva
Flaiano. Una spiaggia con i caffè che straripavano
sui marciapiedi ognuno dei quali aveva un tipo di
ombrellone diverso per i loro tavoli, come negli
stabilimenti di Fregene, le automobili «scivolano
come gondole a teatro, a brevi scossoni». No,
qui c’è il silenzio assordante di una via
immalinconita e sepolta sotto la pietra tombale di
scandali e fesserie. Via Veneto istupidita e
irriconoscibile, travolta dalla sua stessa fama,
ombelico di una città che al regista fa pensare a
una diva morta. In un locale di via Veneto, Servillo
incontra il proprietario che è un suo vecchio amico
di scorribande, sua figlia è Sabrina Ferilli che fa
la spogliarellista ultraquarantenne, sfidando la
concorrenza spietata delle Polacche ventenni.
Nei panni di un collega di
Servillo, ma con ambizioni da intellettuale,
troviamo Carlo Verdone, con inediti baffi e
occhiali. Ha una venerazione per il re del gossip,
autore di un romanzo che non ebbe seguito. Carlo,
straordinario in un personaggio che poteva essere
più sviluppato, recita al teatro “la cometa” i suoi
versi, le sue parole che nessuno vuole portare in
scena. E allora le interpreta lui. Prima di
ritornarsene al paese dai genitori, a Nepi, perché
Roma, come confida a Servillo in una scena girata a
Caracalla, lo ha molto deluso. Il personaggio di
Verdone è uno dei pochi perbene, adatta D’Annunzio
per il teatro e gli amici lo esortano a tirar fuori
qualcosa di suo, lui è consapevole di non avere un
grande talento, «io sono così ordinario, ma non
c’è di che preoccuparsi, va bene così».
Ed ora Sorrentino promette che
il prossimo film sarà su Napoli, la sua città natale
«è vero che sono spinto dalla curiosità, dal
desiderio di conoscere. A Napoli non vivo più da sei
anni, comincio a non conoscerla come vorrei. E
quindi perché no? In fondo un film su Napoli non
l’ho mai fatto. “L’uomo in più” era la storia di un
personaggio, non di un luogo, avrei potuto
ambientarlo ovunque». «Al di là di certi eccessi, la
città riflette lo stato del Paese: ha avuto
grandissime occasioni sul fronte della cultura,
immense…ha avuto talenti, energie creative ai tempi
del cosiddetto Rinascimento napoletano… Tutto è
andato disperso per precise responsabilità
politiche. Come a Roma, Napoli ha sempre sprecato
molto. Eppure c’è stato un momento in questo non è
accaduto, in cui si è realizzata una sinergia. Ci si
sentiva coinvolti, “invitati. Ma a un certo punto la
politica non ha “invitato” più: né gli intellettuali
né i cittadini. Forse di quel periodo si ricordano
troppo spesso gli errori e si dimenticano i meriti,
che pure ci sono stati. Allora accadevano fatti che
per la città apparivano miracoli. Quando e perché le
cose sono cambiate, non saprei dirlo. Ma ricordo di
aver sentito chiamare da altri amministratori un
grande scrittore come La Capria “La Caprìa”, con
l’accento sulla i, ecco, sono dettagli come questo
che danno l’idea del disastro». Non ci resta che
attendere il prossimo film del grande maestro Paolo
Sorrentino.
Achille della Ragione
Marzo 2014