Lucania
Al pellegrino che s’affaccia ai
suoi valichi,
a chi scende per la stretta degli
Alburni
o fa il cammino delle pecore
lungo le coste della Serra,
al nibbio che rompe il filo
dell’orizzonte
con un rettile negli artigli,
all’emigrante, al soldato,
a chi torna dai santuari o
dall’esilio, a chi dorme
negli ovili, al pastore, al
mezzadro, al mercante
la Lucania apre le sue lande,
le sue valli dove i fiumi
scorrono lenti
come fiumi di polvere.
Lo spirito del silenzio sta nei
luoghi
della mia dolorosa provincia. Da
Elea a Metaponto,
sofistico e d’oro, problematico e
sottile,
divora l’olio nelle chiese, mette
il cappuccio
nelle case, fa il monaco nelle
grotte, cresce
con l’erba alle soglie dei vecchi
paesi franati.
Il sole sbieco sui lauri, il sole
buono
con le grandi corna, l’odorosa
palato,
il sole avido di bambini, eccolo
per le piazze!
Ha il passo pigro del bue, e
sull’erba
sulle selci lascia le grandi
chiazze
zeppe di larve.
Terra di mamme grasse, di padri
scuri
e lustri come scheletri, piena di
galli
e di cani, di boschi e di
calcare, terra
magra dove il grano cresce a
stento
(carosella, granturco, granofino)
e il vino non è squillante (menta
dell’Agri, basilico del Basento)
e l’uliva ha il gusto dell’oblio,
il sapore del pianto.
In un’aria vulcanica, fortemente
accensibile,
gli alberi respirano con un
palpito inconsueto;
le querce ingrossano i ceppi con
la sostanza del cielo.
Cumuli di macerie restano intatte
per secoli:
nessuno rivolta una pietra per
non inorridire.
Sotto ogni pietra, dico, ha
l’inferno il suo ombelico.
Solo un ragazzo può sporgersi
agli orli
dell’abisso per cogliere il
nettare
tra i cespi brulicanti di zanzare
e di tarantole.
Io tornerò vivo sotto le tue
piogge rosse.
tornerò senza colpe a battere il
tamburo,
a legare il mulo alla porta,
a raccogliere lumache negli orti.
Udrò fumare le stoppie, le
sterpaie,
le fosse, udrò il merlo cantare
sotto i letti, udrò la gatta
cantare sui sepolcri? |