La storia del Popolo Siciliano è lunga e complessa.
Cercare di ricostruirla integralmente e in ogni suo
dettaglio è un'impresa oggi impossibile, com'è vero che
riesce assai difficile perfino ricostruire con esattezza
quanto avviene attualmente intorno a noi nel mondo e di
cui i mass media ci offrono un'immagine distorta dalle
propagande ideologiche. Tuttavia, la disponibilità di
materiali e documenti cospicui ed eterogenei, dai
reperti archeologici agli studi di linguistica, dalle
ricerche dei genetisti alle indagini sul simbolismo di
miti e tradizioni folkloristiche, ci rende possibile,
attraverso il metodo interdisciplinare comparativo,
almeno la definizione dei tratti fondamentali che
portano il nostro Popolo ad emergere come entità
definita e circoscritta dalle tenebre di un passato
oscuro e malcerto che risale lontano fino al termine del
Paleolitico Superiore, periodo nel quale il mondo intero
si ritrova coinvolto in processi geologici e climatici,
dovuti allo scioglimento dei ghiacci dell'Era Glaciale,
che gli conferiscono un assetto completamente nuovo.
Apriamo dunque i Cancelli della Memoria ed
immergiamoci nel Vortice spazio-temporale di un antico
eone. Interi subcontinenti vengono sommersi (come il
cosiddetto "Sondaland", l'immensa distesa di terraferma
che collegava la moderna Corea all'Indonesia, o il Sahul,
che univa l’attuale Australia alla Nuova Guinea). Altre
aree vengono liberate (non senza traumi) dal peso di
ghiacci plurimillenari.
Il Mare Mediterraneo è ricco di isole e arcipelaghi
ora celati nei suoi abissi: la Sicilia è unita alla
penisola italica con una striscia di terra, le Isole
Eolie e le Egadi, Pantelleria e le Pelagie formano un
blocco unico che include anche Malta e Gozo, mentre la
costa tunisina si avvicina molto più a quella siciliana
di quanto non accada adesso e non è escluso che queste
fossero unite da un istmo largo alcuni kilometri,
percorso ripetutamente da animali e uomini. Su questa
sorta di propaggine europea meridionale dal clima mite e
allettante che si affaccia sull'Africa, alla quale è
geologicamente vincolata (basta confrontare la forma del
Golfo libico della Sirte con quella della costa
meridionale siciliana), scorrazzano elefanti nani,
piccoli ippopotami, cervi, cavalli e buoi primitivi,
nonché esigui gruppi di cacciatori-raccoglitori.
Che questi ultimi fossero i sopravvissuti di
catastrofi che avrebbero spazzato via passate civiltà
(Atlantide l’esempio classico e più discusso), costretti
ad arrangiarsi con ben miseri stratagemmi, appartiene
ancora al regno della fantastoria - anche se senz'altro
le profondità delle acque hanno tuttora molte cose da
raccontarci, com’è avvenuto al largo di Cambay, golfo
localizzato sulla costa nordoccidentale dell’India, che
ha recentemente rivelato sul suo fondale le rovine di
una città datata a circa 9.000 anni fa, agglomerata
intorno ad un asse murario lungo
9 km.
Dalle nostre parti, i popoli dal nome mitico che
vivono questi eventi cruciali che prevedono ripetuti
cataclismi (il Diluvio universale ?) scaturiti dai
continui riassestamenti geologici sono i Lestrigoni e i
Ciclopi, come ci racconta l'epopea omerica che ne
conserva ancora l’arcaica memoria.
Il mito non è favola, né superstizione di “selvaggi
primitivi”, ma verità raccontata con un linguaggio
diverso che non parla solo all'intelletto, bensì alle
viscere pulsanti dell'individuo che vive in stretta
relazione con l'ambiente circostante. Esso è il
senso
profondo di tutti gli accadimenti del Cosmo. Dunque i
nostri Ciclopi potrebbero non essere solo uno
spauracchio per bambini se pensiamo alle gigantesche
rocce antropo e zoomorfe dell'Argimusco sui Monti
Nebrodi ("altopiano degli Argi" - gli Argi sono i Titani
figli del Vulcano Etna), alle feste paesane dei Giganti
che ancora richiamano folle a Messina e nelle cittadine
della costa nordorientale dell'isola, però imboccare
questa via ci spingerebbe in un mondo finora davvero
enigmatico e indefinibile.
Ci troviamo all’incirca nell’XI/X millennio a.C., che
coincide anche con la datazione ufficiale delle
raffigurazioni parietali rinvenute nelle grotte dell’Addaura
e nella Grotta dei Cervi a Levanzo. Adesso il nostro
viaggio ci conduce su spiagge meglio delineate, anche se
tuttora poco esplorate e sempre pregne di intrigante
mistero.
Pietre e Stelle: i Sikani
I primi abitanti siciliani storicamente attestati sono
i Sikani, che alcuni storici classici sostenevano
provenire dall'”Iberia” (dove esiste un fiume chiamato
Sicano) e altri (Timeo di Tauromenion, Taormina)
consideravano autoctoni (i termini "Iberia" e "Iblea"
mostrano una certa somiglianza, o no ?).In realtà
entrambe le soluzioni possono non escludersi a vicenda,
giacché sappiamo che nell'epoca immediatamente
successiva all'ultima glaciazione, il Wurm di cui
abbiamo già tracciato un breve quadro, l'area che
corrisponde all'attuale deserto del Sahara, che fino ad
allora era stata un immenso territorio fertile e boscoso
dal clima delizioso, cominciò ad inaridirsi, spingendo
le popolazioni che vi avevano felicemente dimorato come
cacciatori, proto-allevatori e forse anche
proto-agricoltori, verso Nord alla ricerca di climi più
favorevoli.
Queste popolazioni sono verisimilmente le antenate di
quelle a cui successivamente (millenni più tardi) la
memoria dei popoli diede il nome di "Phelag" (che qui
utilizzerò convenzionalmente in senso allargato, come
sinonimo di “Mediterranei”), e che si estesero in buona
parte dell'Europa: dalla Sicilia (Sikani) alla Sardegna
(Shardan), alle coste di Spagna (Iberi) e Portogallo,
per arrivare addirittura a Irlanda e Britannia dove
portarono il nome di "Tuatha De Danaan" ("Figli di Danu")
dal nome della Grande Dea che essi adoravano, e che
ritorna onnipresente altrove sotto il nome di Diana,
Danae, Dione, Jana, Juno (Giunone), Tanit, Tanais, (con
l’alternanza di consonanti sorde e sonore caratteristica
delle lingue mediterranee più antiche) e nel nome del
Danubio, del Don, del Dnjepr, del Dnjestr, della
Danimarca, della Scandinavia, dei misteriosi Dauni di
Puglia, e di numerosi altri geonimi e antroponimi di
origine remota, tra cui l’egizio Denderah, lo stretto
dei Dardanelli da Dardano, mitico capostipite troiano,
Adone, Ade (da Aidon), il popolo saheliano di Dan, e
ancora Dan, il nome di una delle tradizionali tribù di
Israele poi sostituito dall’omologo Dinah, e gli ovvi
Aden ed Eden, dove la radice paleomediterranea *dn-
appare legata alle acque fluviali e all’antica Signora
di queste acque, manifestazione della Grande Dea come
Signora dell’Acqua Che Scorre.
Queste popolazioni mediterranee e afrosahariane (i
Camiti di cui ci narra la Bibbia ?), attratte da terre
fertili e acque abbondanti, si spinsero nell'entroterra
europeo fino all’Ungheria, dove sono state ritrovate
sepolture contenenti resti di individui identificati
come "mediterranei" (datati a circa 7.500 anni fa), fino
ai Balcani e ad altre zone interne dell’Europa Orientale
come le attuali Bulgaria e Romania.Essi si insediarono
nelle isole dell'Egeo, occuparono buona parte
dell'Anatolia, le terre cosiddette "levantine" (odierni
Libano, Palestina, Siria, Giordania, etc.) dove diedero
vita alla cultura detta Natufiana e a città come Gerico,
e Çatal Hüyük poco più tardi (ca. VIII-VII millennio
a.C.), arrivando perfino in Mesopotamia.
Essi eventualmente si fusero con le popolazioni
autoctone, di cui purtroppo però sappiamo poco.
Evidentemente si tratta di genti affini che, in un
contesto nomadico, si spostavano incessantemente su aree
di vastissima estensione, creando un immenso e fitto
bacino di azioni, migrazioni, scambi. Tracce delle
remote avventure dei Phelag e dei loro sviluppi nel
susseguirsi di generazioni si riscontrano fino alla
Valle dell'Indo con la fioritura, nei millenni a venire,
di civiltà mirabili e squisite come quella detta di
Mohenjo Daro e Harappa (dalla fine del IV millennio
a.C.).
Questo ceppo Phelag o, se vogliamo con più
familiarità, (Afro)Mediterraneo, è geneticamente
paleoberbero: cioè consanguineo degli attuali Berberi
che ne sono i discendenti più diretti, anche se nel
corso delle generazioni questi ultimi continuarono
naturalmente ad amalgamarsi con altre popolazioni
africane, e in seguito pure semitiche (Arabi, in
piccolissima parte Ebrei).
I popoli non restano mai troppo uguali a sé stessi:
amano mescolarsi tra loro. Marcatori genetici
paleoberberi (o mediterranei) sono stati oggi
rintracciati nei moderni Baschi, negli antichi Etruschi,
nei Minoici (Cretesi dell’Età del Bronzo) e nei nostri
antenati Sikani.
I paleoberberi (di cui il tipico esponente
rappresentativo è l'"uomo di Gafsa" o Capsiano, ramo
mediterraneo di Cro-Magnon con alcuni influssi negroidi,
i resti del quale sono documentati nella Tunisia più di
12.000 anni fa), a seconda del luogo in cui si sarebbero
stanziati nel corso delle loro avventurose
peregrinazioni, si sarebbero dunque amalgamate con gli
esigui gruppi autoctoni (se, nuovamente, è lecito
parlare di “autoctono” in un contesto perennemente
itinerante), dando origine a culture differenziate,
influenzate dai substrati precedenti. L’integrazione di
questi popoli, avvenuta con ogni probabilità in maniera
graduale e pacifica, diede l’impulso fondamentale a quel
fenomeno di portata epocale che chiamiamo infatti “la
rivoluzione del Neolitico”.
Ad ogni modo, nei tratti fondamentali come
l'organizzazione clanica matrifocale e matrilineare,
l’assenza del concetto di proprietà privata, nel culto
animista della Grande Dea Cosmica, la Signora dei
Viventi, in tutte le sue multiformi manifestazioni e del
suo paredro (Figlio o Fratello che ne è anche lo Sposo e
Amante, il quale muore e poi rinasce con ogni ciclo
annuale, spesso rappresentato come doppio in una coppia
di Gemelli complementari e antagonisti), nei rituali che
scandiscono cicli naturali (e testimoniano conoscenze
astronomiche, botaniche e zoologiche nonché anatomiche
assolutamente impensabili per chi oggi è tuttora
convinto che il passato lontano sia popolato da bruti
spettinati che balbettano fonemi non meglio
identificati), nell'arte fortemente simbolica e
magico-sciamanica dal linguaggio ben codificato,
nell’uso di una scrittura (assai più antica di quella
sumerica) che non è stata decifrata, queste genti
rimasero sempre strettamente legate alle strutture
culturali e cultuali originarie e, spesso e volentieri
anche in fitto contatto tra loro attraverso il bacino
del Mediterraneo (perfino oltre, attraverso un complesso
e avanzatissimo sistema di linee carovaniere, fluviali e
città oasiane che giungeva al Golfo Persico e all’Oceano
Indiano).
Costoro, prevalentemente stanziali nei loro nuovi
insediamenti (che però, specialmente nelle aree
confinanti con i deserti avanzanti, mantengono alcuni
tratti nomadi o seminomadi), sono i costruttori dei
“monumenti megalitici”, appropriatamente installati nei
siti in cui i flussi geomagnetici sono particolarmente
intensi: templi e santuari splendidi, tecnologicamente
sofisticati, situati in cornici ambientali amene e
idilliache che favoriscono il culto di spiriti ed
elementi, come ne troviamo in profusione a Malta, in
Spagna, in Sardegna, in Bulgaria, in Francia, nelle
isole del Nord (Stonehenge è l’esempio più noto), in
Siria, Palestina e Giordania, in tutto il Nordafrica (di
tanto in tanto svelati dalle torride sabbie del Sahara)
e anche nella nostra Sicilia – per quanto le catastrofi
naturali ricorrenti nell’isola e l’opera dell’essere
umano nelle epoche successive ne abbiano ridotto
notevolmente le testimonianze. I “popoli dei megaliti”
sono dediti all’agricoltura, all’allevamento, alla
tessitura, all’artigianato e al commercio su piccola e
larga scala, specialmente per vie d’acqua (marittime e
fluviali) – tant’è che sulle sponde della penisola
Scandinava ritroviamo ossidiane di Lipari e in Sicilia
ambre baltiche. Ma, per mezzo proprio di reti
carovaniere ben delineate, in terraferma essi riescono
anche a superare i deserti, come avviene nel Sahara e
nel deserto arabico.
Lo Yemen è in contatto con l’Etiopia, l’Africa
Centroccidentale con la penisola iberica, in una rete
policentrica che rende possibili flussi etnici e scambi
di beni su lunghissimo raggio di cui, per esempio, i “castellir”
alpini sono una delle innumerevoli stazioni. Pane, vino
e olio costituiscono la Triade Alimentare su cui si
fonda l’esistenza quotidiana di questi popoli. Essa può
sintetizzare magnificamente il concetto di “mediterraneità”.
I nostri antenati isolani fanno parte a pieno titolo
di questo sistema dinamico e sempre
in progress
– che però già presenta localmente una sua
rielaborazione peculiare e facilmente identificabile. Le
facies
che gli archeologi denominano “a ceramica impressa” (dal
VII-VI millennio a.C.) e “Stentinello” (dal VI millennio
a.C.) le potremmo definire con sicurezza “siciliane in
un contesto mediterraneo”. Vogliamo chiamarle
semplicemente “cultura sikana”?
Certamente oggi non siamo nelle condizioni di dare
infallibilmente un nome agli eccellenti artigiani (o
artigiane) che tornirono questi splendidi oggetti ma
poiché, come abbiamo già affermato, i testi antichi ci
trasmettono univocamente il nome di “sikano” come quello
del popolo aborigeno che dimorava nella nostra isola in
età protostorica, e giacché gli studi sul Neolitico
siciliano testimoniano una continuità etnica e culturale
plurimillenaria che difatti resiste fino all’alba della
protostoria, perché non dare fede a chi senz’altro era
più informato di noi?
La cultura sikana ci propone strutture piramidali
simili alle
ziqqurat
mesopotamiche come a Pietraperzia o tra le gole
dell’Alcantara, grotte e tombe ipogeiche e santuari
megalitici, villaggi di capanne circolari come a Lipari,
interventi idrogeologici sul territorio come a Stretto
Partanna, ceramiche e oggetti fittili plasmati e
decorati secondo il sistema simbolico della Grande Dea
in una fase in cui l’isola presenta una vegetazione
lussureggiante e rigogliosa dai tratti mediterranei, ma
anche boschiva di alta quota sulle numerose catene
montuose che ne costituiscono l’ossatura. La ricchezza
di sorgenti e corsi d’acqua favorisce ampi insediamenti
umani, e la terra era attraversata da grandi fiumi
navigabili, di cui oggi non restano che i “valli”, i
quali costituivano una vera e propria rete stradale per
acqua: dall’area di Enna era facile raggiungere tutte le
coste. Non è un caso che il culto delle acque fosse
ancora vivo nella società contadina siciliana fino al
XIX e l’inizio del XX secolo. Ogni sorgente e ogni corso
d’acqua avevano i suoi spiriti custodi: una giovane
fanciulla (la ninfa
munacedda), sempre accompagnata dal suo cane. Lo
raccontavano i nostri bisnonni, e lo sapevano già gli
antichi Sikani.
Il cane, largamente diffuso in tutto il Mediterraneo e
amato nelle sue funzioni di messaggero divino, patrono
di armenti e villaggi, custode dei Vivi e dei Morti
nonché Ponte tra i Mondi (quello infero e quello battuto
dalla luce solare), era associato al culto della Grande
Dea della quale esso era intermediario e manifestazione.
Il cane era creatura dall’affetto particolarmente vivo e
sentito nella nostra isola. Potrei azzardarmi a supporre
che
u cani sia l’animale “totem”
nazionale siciliano.
Le lettere dei Sikuli
Il secondo episodio del nostro epocale itinerario,
cominciato sul declinare del Paleolitico, è molto più
tardo, e ci spinge fino alla fine del Neolitico, il
periodo millenario di cui abbiamo appena provato a
seguire alcune tracce. Adesso ci troviamo all'incirca
nel III-II millennio a.C., periodo che inaugura, secondo
l’archeologia, l’Età del Bronzo, datata nella nostra
isola all'arrivo dei Sikuli o Sheklesh, probabilmente
succedutisi in più ondate migratorie, essi già Phelag di
epoca storica.
Lo scenario qui è molto cambiato poiché nel frattempo
ci sono stati grandi rivolgimenti in tutta Europa e in
Asia: tribù nomadi di stirpe uraloaltaica e caucasica,
predatrici e affamate, dotate di cavalli addomesticati
(che invece i popoli mediterranei non conoscono), di
rigida struttura sociale gerarchica, militarista e
patriarcale, in possesso di armi sofisticate (anche
queste estranee alle civiltà mediterranee generalmente
pacifiche), premono dalle steppe inaridite dell'Asia
centrale su città e villaggi mediterranei e man mano li
sottomettono con la forza imponendo i loro modelli
socio-culturali, religiosi, politici ed economici, pur
non potendo sradicare del tutto quelli precedenti né
mescolarsi integralmente con le popolazioni locali (che
erano molto più numerose).Questi popoli gli storici li
chiamano "indoeuropei", anche se la nozione di
"indoeuropeo" è ben lontana dal corrispondere ad una
realtà sociale, culturale, linguistica e genetica
univoca.
Un altro termine più moderno per indicarli è “Kurgan”,
dal nome dei grandi tumuli circolari tuttora visibili
nell’Asia centrale che questi costruivano per
seppellirvi i capi guerrieri accompagnati da profusione
di oggetti preziosi, animali posseduti (particolarmente
i cavalli) e perfino le mogli (non raramente uccise al
trapasso del marito).
I Sikuli, o Sheklesh, come appaiono indicati sulla
stele egizia che ne commemora la sconfitta nell’epica
battaglia di Qadesh, si presentano come mix multietnico
di popolazioni a origine mediterranea (Phelag)
provenienti dall’oriente (Anatolia ? O addirittura
l’India, come sembrano suggerire ricerche aggiornate ?)
con i nuovi arrivati asiatici, per quanto la componente
mediterranea sembri essere ancora prevalente – almeno da
quanto si può dedurre in merito ai modelli sociali
(assenza del concetto di proprietà privata, importanza
del culto della Dea e rilevanza del ruolo femminile),
dagli stilemi artistici e artigianali ancora tipicamente
mediterranei e da una innata propensione per commercio e
navigazione. Costoro giungono in Sicilia discendendo la
penisola italica dove si mescolano ulteriormente ai
gruppi ivi residenti (anch’essi di stirpe mediterranea
ormai indoeuropeizzata in diversi gradi).Si insediano
nella parte orientale dell’isola, portando con sé il
cavallo addomesticato e l’abilità di lavorare il bronzo
come segno della nuova direttrice culturale.
Qualcuno ha ipotizzato conflittualità tra i due
popoli, ma finora i cospicui reperti archeo-mitologici
lasciano piuttosto trapelare una convivenza pacifica,
mentre appare assolutamente fuori luogo parlare di
“invasione” sikula. Infatti il processo migratorio è
lento e graduale, e di quasi nessun impatto traumatico
sulle popolazioni autoctone (quelle che abbiamo
ricordato come “Sikani”): a tratti città Sikane e Sikule
si fondono, com'è assai plausibile che avvenne nel caso
di Etna-Inessa (situata probabilmente nella meravigliosa
zona della Valle del Simeto, alle spalle della collina
storica di Paternò, sul margine della Piana di Catania),
o comunque convivono pacificamente. Nonostante le
culture della Sicilia occidentale e di quella orientale
all’epoca testimonino evidenti differenze, non
escludiamo che i due popoli si fossero man mano
assimilati fino a percepirsi finalmente come
ethnos
unitario insulare. La mitica Kamiko, stupefacente città
del re-sciamano sikano Kokalo e delle sue bellissime
figlie progettata da Dedalo (l'architetto cretese noto
come costruttore del Labirinto in cui era nascosto il
Minotauro), fondata nel 2.654 a.C. secondo le leggende,
non è ancora stata rinvenuta. Qualcuno ne indica la
probabile collocazione presso Sant'Angelo Muxaro, ma
pare più probabile che essa si trovi ancora sepolta
dalle parti di Licata, nella zona della foce del fiume
Salso.
Intanto continuano gli strettissimi rapporti tra i
discendenti degli antichi Phelag (Paleoberberi) in tutto
il Mediterraneo, e i Greci - che poi i "Greci" veri e
propri sono un'invenzione tutta neoclassica tedesca del
XVIII secolo, quanto nei fatti si tratta piuttosto di
Dori, Calcidesi, Achei, Ioni, Milesi, Rodii, Corinzi,
Efesini, Eoli, etc., i quali condividono ambiti
linguistici e culturali affini. Insomma: questa
particolarissima
koiné
di etnie mediterranee fuse con i nuovi arrivati
indoeuropei che poi è stata chiamata "Grecia", trasforma
gli antichi rapporti commerciali (e non solo) con la
nostra isola parente in un'immigrazione molto più
regolare e pervasiva che gli storici hanno definito
"colonizzazione".
Effettivamente in molti casi le genti di Grecia, ormai
permeate della nuova cultura espansionistica
indoeuropea, cominciano ad occupare la Sicilia svelando
pretese imperialistiche che innescano guerre
nazionaliste come quella condotta dall’eroico Ducezio di
Menaion (Mineo)Sulle coste opposte, a occidente, i
Punici di Cartagine (amalgama di Berberi indigeni che
adorano Tanit, e Semiti giunti dall'attuale Libano dove
si erano mescolati con Cananei, Peleset (i Filistei
biblici), Egei e altri popoli di discendenza Phelag)
installano i loro
emporia: Mozia, Panormo (Palermo), Lilibeo:
postazioni prevalentemente commerciali, senza
influenzare in particolare la composizione umana locale
che è elima, verosimilmente il gruppo sikano più
occidentale anche se essa in età storica reclama origini
troiane (dunque anatoliche, e noi non escludiamo che sia
possibile). Eryx (Erice), con il suo rinomato santuario
sacro alla Dea Mediterranea come Signora delle Acque e
dell’Amore, Colomba e Ape Regina incoronata di erica, in
cui venivano praticati i tipici rituali di
hieros gamos
(o “nozze sacre”), nonché l’enigmatica Segesta ne sono
il fulcro.
Detto questo, la differenziazione etnica della Sicilia
antica è quindi riconducibile a varianti simili tra le
quali quella di gran lunga più incisiva è l’aborigena,
la
koiné
Phelag ancestrale, o Mediterranea o Paleoberbera che dir
si voglia, con le sue ondate migratorie primordiali e le
sue mescolanze primitive, nelle sue discendenze
ovviamente differenziatesi e possibilmente integratesi
con altri gruppi etnici in località particolari. Ecco a
noi così i Sikelioti, che hanno espresso graficamente
una scrittura di ispirazione ellenica ma che riproduce
foneticamente la lingua sikula solo parzialmente
ellenizzata, e costruito imponenti città come Morgantina
o Hadranon (l'attuale Adrano sulle falde dell'Etna),
mentre pochi secoli dopo Empedokle ad Akragas
(Agrigento) compone i suoi poemi metafisici, Gorgia a
Leontinoi (Lentini) specula, Karonda di Katane (Catania)
ordina leggi, poeti e celebri drammaturghi greci
accorrono nell’isola per arricchire la loro formazione.
Syrakusa si afferma come centro di capitale importanza
del Mediterraneo che contende alla pari il primato
ateniese. Nella città vivono oltre 800.000 abitanti, che
continuano comunque ad esprimere una cultura molto più
originalmente “siciliana” che “greca”, tant’è vero che
lo stesso nome della grande metropoli dell’Età Classica
è di origine sikula e deriva da “siraka”, ovvero “dalle
acque abbondanti”. I Romani dovranno faticare molto per
piegarla.
Con questi ultimi le cose, perlomeno dal punto di
vista dell’amalgama dei popoli, non cambiano troppo.
Anche se muta decisivamente l’assetto socio-culturale. I
Romani sono dei colonizzatori: la loro politica è
imperialista. Non hanno alcun interesse a introdursi
massivamente nell'ethnos
locale. Del resto essi stessi, Latini ed Etruschi di
origine, dal punto di vista genetico non sono
enormemente diversi dai Sikelioti, seppure nel corso
delle generazioni siano stati indoeuropeizzati in
maniera molto più rilevante e decisiva prima
dell’exploit (culture villanoviane). I Sikelioti,
sebbene assumano adesso un vero e proprio
status di colonizzati, restano tali, e la
loro lingua viene parlata insieme a varianti del Greco e
al Latino, naturalmente, come lingua ufficiale degli
invasori.
Il risveglio di Al-Lah
Crollato l'Impero Romano d’Occidente, con la Sicilia
che subisce aggressioni di popoli nordici (i "barbari",
Vandali e successivamente Ostrogoti), per poi venire
annessa all'Impero Romano d'Oriente, la situazione pare
languire. Il culto degli antichi Dei pagani è stato
sostituito da quello dei Santi cristiani, l’antica Dea
Mediterranea e il suo paredro si sono trasformati nelle
icone della Vergine Maria e di Gesù Cristo, mentre
l’organizzazione sociale è ormai definitivamente
patriarcale, patrilineare e classista. I "barbari" sono
troppo pochi di numero per influire recisamente sulla
nostra composizione etnica, sono interessati solo alla
razzia, e la decadenza dell’isola durante questi secoli,
trascurata da Bisanzio che continua l’opera di
sfruttamento intensivo delle risorse iniziata dai Romani
e impone tassazioni impossibili, è tale che si è
calcolata una riduzione tanto drastica della popolazione
che porta il popolo Siciliano, se non all'estinzione, ad
una vera e propria decimazione. Gli studi più recenti ne
registrano il numero degli isolani a meno di 1.000.000
di unità, se non addirittura 500.000.Di quel tempo
difficile ci resta ben poco. Abitazioni trogloditiche,
necropoli rupestri (che potrebbero in molti casi
risalire ad età precedenti, dunque esser state
semplicemente riutilizzate), resti di fortezze e le
rovine di qualche santuario.
A risollevare le nostre sorti arriveranno nel IX
secolo Arabi, Berberi (i discendenti dei nostri antichi
parenti nordafricani, dopo millenni!) più o meno
arabizzati, e perfino gruppi di Persiani, giacché
l'Emiro insediato a Palermo è scita. Non dimentichiamo
che il mondo islamico dell’Alto Medioevo si allarga
dalla Spagna all’India. Tutta quest’area di incredibile
estensione contribuisce all’immigrazione nell’isola.
L'espansionismo del Califfato porta in Sicilia almeno
500.000 musulmani nel corso di un paio di secoli -
qualcuno ne ha calcolati addirittura 1.000.000 - che è
una cifra altissima per l'epoca. La maggior parte degli
isolani si converte perlopiù pacificamente all’Islam e
si fonde con i nuovi arrivati. Essi diventano i nuovi
Siciliani ed elaborano una civiltà splendida e
sofisticata. L’isola si copre di orti e giardini,
l’urbanistica si sviluppa sul modello islamico della
madinat,
che a sua volta ricalca le piante sinuose e labirintiche
delle antichissime città del Neolitico mediterraneo.
Fioriscono la poesia, la danza, la musica, le arti e le
scienze che raggiungono risultati di altissimo livello,
si creano situazioni erotiche liberamente vissute con
passione e delizia in queste magnifiche cornici che
vogliono riprodurre sulla Terra il “giardino-paradiso”
celeste a cui mira ogni
Muslim
e che discende anch’esso dalle tradizioni mediterranee
più antiche - dal Giardino accadico di Siduri all’Eden
biblico, dalle oasi egizie dei Fiori di Loto agli
innumerevoli
teméne
votati alla Dea Mediterranea che come Signora del
Giardino, nella sua ipostasi fito- e zoomorfa,
accoglieva maternamente i suoi fedeli assecondandone con
gioia gli incantesimi e offrendo rimedi naturali contro
ogni malattia. Il
Muslim
si trova perfettamente a suo agio in Sicilia perché in
fondo è un parente stretto - tant'è vero che i
successivi invasori Normanni chiameranno i Musulmani
isolani “Sicilienses”,
mentre i precedenti abitanti Sikelioti, bizantinizzati
durante il periodo di annessione all'Impero d'Oriente,
sono ormai "Graeci".
Il Califfato garantisce l’assoluta libertà di culto a
tutte le religioni praticate nell’isola: la maggioranza
musulmana, i Cristiani ortodossi e gli Ebrei mentre,
dietro il velo dei grandi monoteismi abramitici, le
feste popolari, abilmente trasformate in solennità
liturgiche, marcano ancora cicli stagionali e fasi
lunari in un
continuum
diretto con le plurimillenarie ascendenze
politeiste-animiste. Gli Ebrei di Sicilia, non numerosi,
di provenienza sefardita (giunti prevalentemente da
Spagna e Nordafrica), che vivevano dunque
tranquillamente nella nostra isola ai tempi del
Califfato e nei secoli successivi in piccole comunità,
verranno espulsi dai regnanti aragonesi nel 1452, gli
stessi che richiamarono veri e propri eserciti di
Lumbard (da cui l’antroponimo “Lombardo”) armati fino ai
denti per eliminare fisicamente gli ultimi residui
musulmani presenti ancora nella nostra terra.
E questa, senza mutamenti drastici, è la situazione
etnica che qui ci ritroviamo tuttora. Normanni, Svevi,
gli odiatissimi Angioini contro i quali si scatenò la
Guerra del Vespro che ci vide vittoriosi, gli Aragonesi
e gli Spagnoli, per quanto influenti politicamente e
culturalmente (dai Guastella ai Pandolfo, dai Ruiz ai
Lopez: diversi antroponimi sono legati a questi popoli,
e anche termini della nostra lingua), non hanno
sostanzialmente modificato la struttura etnica del
Popolo Siciliano. Non è casuale che il normanno Ruggero
I cercasse di ri-latinizzare e ri-cristianizzare la
Sicilia incoraggiando l’immigrazione di Cristiani
provenienti dall’Italia meridionale, stanziatisi
soprattutto nella parte occidentale dell’isola, e di
coloni lombardi e liguri che ne occuparono le aree
centro-orientali. Il lascito genetico di queste genti
non è rilevante, se non in
énclaves limitate (Piazza Armerina, San
Fratello, Nicosia) quanto invece è fondamentale per la
formazione della Lingua Siciliana moderna, che assume
una fisionomia più vicina a quella delle parlate volgari
allora in uso nella penisola italica.
Oggi il Popolo Siciliano è un
melting-pot estremamente variegato,
seppure vi si possano delineare con facilità delle
componenti etniche prevalenti. La più incisiva è, come
abbiamo osservato, senza dubbio quella arabo-berbera,
specialmente nella Sicilia occidentale e meridionale.
Dagli Zappalà ai Guarino, dagli Scalia ai Morabito.
Musarra e Cavarra sono antroponimi arabo-ispanici. E poi
ci sono i Di Mauro. Invero non siamo troppo diversi da
coloro che affrontavano il Mare Nostro su barche a forma
di mezzaluna verso la fine della Grande Glaciazione,
oltre 10.000 anni fa, all'alba dei tempi. Ancora oggi il
tipico biondo siciliano non è quello nordico "normanno"
o "svevo" (riconoscibile immediatamente, specie nel
palermitano e nelle "isole gallo-italiche"), bensì
quello berbero - biondo rossiccio dai capelli mossi e
non lisci, occhi non celesti, trasparenti come quelli
dei "barbari" nordici, ma densamente colorati e tendenti
al verde. La vasta diffusione dell’antroponimo “Russo”
ne è ampia testimonianza. Nella Sicilia orientale i
Graeci costituiscono tuttora una realtà
considerevole e, in certe località (come Messina e, in
misura leggermente minore, Catania) questa prevale, dai
Nicotra ai Basile. Ma la Sicilia occidentale e quella
meridionale sono ancora tutte arabo-berbere.
Una bandiera per una
nuova rete
Bene. Giunti così alla fine provvisoria del nostro
viaggio nel tempo e nello spazio, ci riscopriamo
imparentati con tutti i nostri più o meno vicini di mare
e anche con molti meno vicini. Abbiamo scoperto quanto
sia importante il
background mediterraneo a cui la Sicilia fa
capo, nell'ambito di una politica che oggi invece impone
l'Europa Unita delle Banche come categoria culturale,
facendo violenza su popoli "altri" che non hanno nulla
di affine al modello franco-anglosassone globalizzato
che alza il Mediterraneo come una barriera tra genti,
state sempre affratellate proprio attraverso queste
acque.
I Berberi odierni ovviamente non sono Siciliani, né
Cretesi, né Catalani, ma ci sono assai più vicini di
quanto non lo siano Tedeschi e Inglesi - sebbene anche
questi ultimi, in maniera diretta o indiretta, abbiano
recitato una loro piccola parte nella lunga e
ricchissima storia insulare. Oggi è ovvio e
comprensibile che un noto
leader
nordafricano abbia rifiutato recisamente la proposta di
costituire un’Unione “Mediterranea”, avanzata qualche
anno fa dalla Francia: ebbene - quest’Unione avrebbe
previsto anche la partecipazione di… Svezia e Finlandia
!Niente contro il Nord germanico-scandinavo, nel quale
personalmente io ho vissuto esperienze stupende e
contratto salde amicizie, ma il tentativo di imitarne i
modelli, a noi così estranei, ci trasforma in caricature
paradossali e fatalmente “sempre indietro”.
Gli stessi geniali regnanti “nordici” in Sicilia, come
l’ovvio Federico II
stupor mundi (che poi non era neppure così
“nordico” come si suppone comunemente), si guardarono
bene dall’imporre esperienze settentrionali alla nostra
gente. Essi invece si affacciarono affascinati sul
Mediterraneo, rielaborandone con garbo materiali e
stilemi attraverso la loro prospettiva tramontana. Il
duomo di Monreale e quello di Cefalù, la Cappella
Palatina a Palermo sono splendide espressioni
architettoniche di questo particolarissimo sincretismo
culturale.
Volgiamo dunque lo sguardo a quanto ci è familiare. Il
Mare Nostro è stato millenariamente fertile di sviluppi
culturali fulgidi e decisivi per la storia e il
benessere dell’umano, di cui gli attuali globalizzatori
settentrionali vogliono farci perdere la memoria
mettendoci gli uni contro gli altri, i "Cristiani"
contro i "Musulmani".E invece - al di là di una più o
meno vicina consanguineità - il nostro mondo condiviso
tra le sponde, con la sua cultura, il suo immaginario
mitico, i suoi comportamenti così immediatamente
riconoscibili, è remoto e felicemente sperimentato.
Attualmente Paesi come Germania, Olanda, Svezia,
Francia centrosettentrionale e i loro cugini non hanno
alcuna affinità con questa
koiné,
seppure in tempi remotissimi siano apparse testimonianze
di popoli mediterranei (e di culture mediterranee) pure
sulle loro terre boreali (come accennato all’inizio di
questo breve
excursus).Ma la continuità etnica e
soprattutto antropologica in tali luoghi è stata
bruscamente modificata. Nessuno oggi direbbe che queste
genti possano avere qualcosa in comune con il movimento
di uomini e cose che ha vivificato per secoli le acque
sulle quali noi ci volgiamo al mondo.
Noi siamo Siciliani, Greci, Occitani, Andalusi,
Cretesi, Palestinesi, Marocchini, Libici: ciascun Popolo
scaturito da un complesso intrico di migrazioni, scambi,
trasformazioni, conflitti che si è svolto sul
set
di questo particolarissimo grande mare quasi chiuso.
Nello stesso tempo, proprio questo intreccio
inestricabile di
ethne e relazioni, ci ha reso un unicum
irripetibile che non trova eguali altrove. Un Popolo,
insomma. Con la sua fierezza e la sua responsabilità.
Con mani buone per modellare il nostro destino.
Nuautri semu Siciliani.
Quando ci troviamo di fronte ad una situazione di forte
impatto emotivo, esclamiamo stupiti: «Bedda
Matri!», evocando ancora l’Eterno
Femminino Mediterraneo, l’icona di una Ma/Donna che
discende in linea diretta dalla Grande Dea Mediterranea
del Neolitico, Signora dei Viventi. Questo è essere
Siciliani.
E, da Siciliani consapevoli e orgogliosi del nostro
lungo cammino, capaci ancora di aprire le vie di un
futuro che ci vuole appartenere, non dobbiamo
dimenticare come amano definirsi i nostri antichi cugini
Berberi: “Amazigh” – “Uomini Liberi”. Oggi siamo liberi
anche noi?
Catania
29/07/2010
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da universitadelledonne.it
http://www.universitadelledonne.it/ |