Le Pagine di Storia

Storie di Sicilia di Fara Misuraca

Sicilia 1860

Palermo, la Cuba

Il 2 dicembre 1860 i poteri passarono dal prodittattore Mordini al luogotenente di Vittorio Emanuele II, Massimo Cordero di Montezemolo. Questo passaggio segnò la fine della rivoluzione del 1860 e avrebbe dovuto segnare l’inizio della costruzione dello stato unitario. Nel suo proclama (1° dicembre 1860) Vittorio Emanuele assicura ai siciliani: 

Il governo che io qui vengo ad instaurare sarà governo di riparazione e di concordia”.

Tutto fu tranne che questo. Il comportamento del nord nei confronti del sud e dell’isola in particolare fu di conquista e di dominio. Nacque la “sindrome piemontese“. La campana della Gancia ( 5 marzo 1861) recita:

"Ci è doloroso il vederci piemontizzare, il vederci riguardare come pecore conquistate e comprate, quando abbiamo il convincimento della gloria nostra”.

Piemontese” per i siciliani era tutto ciò che non fosse siciliano e nell’accezione politica, piemontese era tutto ciò che era riportabile alla Destra Storica. I rappresentanti del governo centrale non si dimostrarono certo all’altezza, furono in linea di massima, dei burocrati, degli esecutori, oggi si chiamerebbero “yesman“ che avevano come fine ultimo il farsi belli ed il soddisfare i loro capi. Ma l’errore più grave fu quello di considerare le popolazioni isolane e meridionali in genere, inferiori ed immature. I “piemontesi” si convinsero e pretesero di governare l’isola con modi reazionari, illegali, dispotici ed immorali. Il governo di Torino pensò anche ad una dittatura militare (sostenuta dal “buon” Ricasoli) ma rigettata da Cavour. Questi infatti temeva di essere screditato di fronte all’Europa per un tale comportamento nei confronti della popolazione. Anche se non applicata istituzionalmente, la dittatura militare fu in pratica attuata ed il luogotenente Montezemolo nelle sue circolari ribadiva assai bene questo concetto. Il 16 dicembre del 1860 scrive infatti al presidente del consiglio dei ministri sull’opportunità di mettere a tacere le persone che potevano disturbare l’ordine pubblico:

Forse un tumulto che desse occasione di por la mano sopra i capi primari della frazione (degli oppositori), avrebbe conseguenze più favorevoli che funeste. Si sta in vigilanza ed a qualunque occasione plausibile si presenti non si mancherà al debito.“ (Archivio di stato di Palermo).

Con simili idee ed esempi i funzionari preposti al governo delle istituzioni non ebbero alcuno scrupolo di violare e calpestare leggi e diritti. Non solo ma la cosa peggiore (più illiberale) fu di attribuire alla classe dirigente locale poteri e privilegi che mai aveva avuto. Il liberismo di Cavour divenne supporto dell’agrarismo conservatore e reazionario dell’isola. Il risultato di tale politica fu uno sfruttamento e un’oppressione delle classi popolari ben maggiore di quanto non fosse mai stato durante l’assolutismo borbonico. Lo stesso Crispi, ed è quanto dire, ebbe a dichiarare, alcuni anni dopo, che la Sicilia sotto i Savoia somigliava ad uno stato di polizia (atti del Parlamento italiano, discussione della camera dei deputati, 1875). Un’altra triste pagina fu la reazione del governo di Torino al ritorno di Garibaldi in Sicilia, nel 1862. Garibaldi era sceso con lo scopo di organizzare una spedizione per “liberare” Roma dal papa. Aveva ragione di sperare nella Sicilia. In suo onore vi furono manifestazioni di massa quasi deliranti , ma più che per lui come persona tali manifestazioni erano contro la “destra storica”. Torino non si mosse, aspettò che Garibaldi e le sue truppe, in massima parte siciliane arrivassero in Italia. Ad Aspromonte sapete quello che successe. Le vittime di quello scontro furono quasi tutte siciliane! Come al solito la Sicilia ne pagò le spese. Fu proclamato lo stato d’assedio: i paesi, i villaggi furono messi a ferro e a fuoco, migliaia di persone furono arrestate e fucilate in maniera sommaria (ad Alcamo, Siciliana, Grotte, Racalmuto, Bagheria, Fantina, Casteltermini). Passarono solo pochi mesi e a questo primo stato di assedio ne seguì un altro, ancora più duro, questa volta per contrastare il brigantaggio e la renitenza alla leva militare obbligatoria. Ma cos’era il brigantaggio? Perché nella nostra società si svilupparono fenomeni come il brigantaggio e la mafia che certamente erano devianti dalla “società unitaria piemontese”? La mafia, intesa come comportamento, forse, non è da addebitare ai “piemontesi”. Si può infatti far riferimento ad archetipi di “onorata società” settecenteschi, o ancora più antichi che fanno capo ai cosiddetti Beati Paoli, che praticavano la violenza e l’assassinio “a fin di bene” per far valere la giustizia, per difendere il debole dal forte. Nei paesi anglosassoni si rispetta Robin Hood, ma da noi non è così! Dopo l’unità ci fu un “salto di qualità”, i mafiosi divennero migliaia perché fu sfruttato questo modo di comportarsi per arricchirsi, per acquisire posizioni di privilegio, per farsi strada nella nuova società. Diventò un mezzo di crescita sociale, economica e politica. Alla mafia si aggregarono i rappresentanti più spregiudicati della borghesia agraria emergente (quella che si era comprata le terre dei feudi o della chiesa) e i rappresentanti più rozzi e retrivi della vecchia nobiltà. Ovviamente furono assoldati, come manovalanza le classi subalterne (contadini e braccianti) accecati dal miraggio di una facile ricchezza. Il brigantaggio invece non deve essere confuso con la mafia. Fu prevalentemente contadino, nato dalla fame, dalla necessità, dal sottrarsi all’obbligo di leva ed alla legge di polizia ma raramente si collegò, come il coevo brigantaggio dell’Italia meridionale peninsulare al legittimismo borbonico. I briganti siciliani furono soprattutto dei ribelli, portatori individuali di un malessere sociale e politico diffuso, furono l’espressione di una protesta disperata. Agli inizi si trattava di soldati dell’esercito borbonico, abbandonati a loro stessi, a questi si unirono contadini alla fame ed infine i renitenti alla leva. A peggiorare le cose si aggiunse l’incapacità dei piemontesi di distinguere tra il brigantaggio di poveracci che c’era in Sicilia ed il brigantaggio politico che c’era nel sud d’Italia. La repressione e le stragi furono dure e feroci in egual misura: sia che si trattasse di reprimere un combattente contro lo stato (non che io condivida tali comportamenti ma posso anche capirne il perché) sia che si trattasse riprendere un poveraccio sfuggito alla leva. La legge di polizia fu un’esperienza tremenda: chiunque reo o innocente purché sospettato o malvisto dalle autorità o accusato da qualche delatore veniva “ammonito” e sottoposto al “controllo”. Agli ammoniti veniva negata l’acqua ed il sale (come agli scomunicati), venivano licenziati se avevano un lavoro ma tuttavia avevano l’obbligo di presentarsi, ogni settimana al delegato, per dimostrare “di avere un lavoro” e di poter sopravvivere. Avete idea di quanta gente si è data alla macchia, solo magari perché il vicino di casa lo aveva accusato per vendicarsi di qualche piccolo torto? La pressione poliziesca era senza limiti e lo stato non era capace o non voleva trovare soluzioni. Era logico che il brigantaggio degenerasse in una disobbedienza ed in una rivolta senza scopo, se non quello personale della sopravvivenza, senza prospettive politiche e senza speranza. Da tutto questo nacque la rivolta di Palermo del 1866 ... il momento più grave di rottura con lo stato sabaudo, anch’essa conseguenza di una mancanza di prospettiva politica.

Fara Misuraca

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