È una canzone del 1887 su versi di Ferdinando Russo e musica di
Mario Costa.
L’autore del testo, Ferdinando Russo (1866-1927), è insieme a
Salvatore Di Giacomo uno dei due massimi poeti dialettali
napoletani. Sia nella personalità che nelle opere, però, il nostro
don Ferdinando è diametralmente opposto all’altro, don Salvatore.
Se, infatti, quest’ultimo è maniacalmente complessato, succube della
madre, tendenzialmente masochista, inibito con le donne, a suo agio
solo con le persone ritenute “perbene”, Russo è invece sicuro di sé,
spavaldo, anticonformista, amato dal popolo che in lui si riconosce,
idolatrato dalle donne che non resistono alle sue avances, capace di
frequentare i bassofondi della città ed essere rispettato finanche
dai camorristi
[1]. Se,
poi, Di Giacomo esprime il meglio di sé nella poesia melica,
nell’idillio, nella squisitezza e nella musicalità del verso, Russo
raggiunge i risultati migliori nella poesia epico-narrativa. Egli
canta tra l’altro di Rinaldo, di Orlando, di Gano di Maganza, dei
paladini di Francia, non nei modi e nello stile monumentale del
poema epico di tassiana memoria ma nella forma più modesta del
poemetto giocoso costruito sui temi tradizionali dei cantastorie o
dell’«opera dei pupi» (e forse anche del teatrino delle «guarattelle»).
Il patrimonio culturale collettivo della “nazione” partenopea, con i
suoi miti, le sue leggende, le sue miserie e i suoi eroi trova la
sua migliore formulazione epica nei vari poemetti del nostro autore:
’O luciano d’’o rre, ’O surdato ’e Gaeta, Petrusinella, ’O libbro
d’’o turco, ’E scugnizze, Gente ’e malavita, ’A storia ’e San
Camillo. Certo non si tratta sempre di poesia pura tanto che
qualcosa è stato ripudiato dal suo stesso autore, ma nel complesso
nella sua opera troviamo descritta un’ampia galleria di personaggi
del volgo: da quelli del basso a quelli del marciapiede, dalla
cantina malfamata al fondaco, dalla bettola al postribolo, dal Molo
all’Imbrecciata
[2]... così da
rappresentare una specie di piccola Comédie humaine della
plebe partenopea. È quella che Pasolini definisce «romanzo per sole
masse». Nessun altro poeta napoletano ha saputo restituire un quadro
così fedele, ampio e articolato dell’ex capitale borbonica. Solo
Viviani, successivamente ha saputo fare qualcosa di simile nella sua
produzione teatrale.
Vero è che Russo compone anche poesia lirica, non priva di accenti
malinconici e sentimentali, ma la parte più significativa della sua
opera poetica, come abbiamo visto, può essere considerata una specie
di poema corale degli emarginati, degli abietti. Nelle canzoni,
però, curiosamente troviamo soltanto il poeta lirico, quello che
tende ad esprimere la sua dimensione romantica: un misto di
tenerezza sensuale e (in misura minore) di verismo. Ma non è certo
nel genere sospiroso che dobbiamo cercare il Russo più ispirato e
più grande. Questo lo troviamo invece laddove descrive con
linguaggio teso, incisivo e spigliato e con l’invettiva e
l’aggressività dei ceti plebei, le popolane 'nziste, le
luciane brune ed ardenti, o ancora quella guapparia che
egli ha così a lungo osservato e studiato. In tali casi fa prevalere
sulla psicologia personale dei personaggi rappresentati la loro
appartenenza ad una certa identità collettiva.
In questa poesia, nata d’impeto, talvolta quasi estemporanea, emerge
la personalità del suo autore: impetuosa, affascinante, audace ed
esuberante, ma anche sentimentale e sensuale. Egli è del quartiere
Santa Lucia, una zona popolare ritenuta «da bonificare» e perciò (?)
stravolta dal piccone del Risanamento. È quindi un ”luciano” che,
per quanto di estrazione non popolare, sente con fierezza dentro di
sé lo spirito di scugnizzo. Come tale non esita a sfidare il
potere politico presentando ad una audizione di canzoni
piedigrottesche (nel 1897 o nel ’98) un brano dal titolo «Franceschiello,
Franceschiè...» (uno scandalo cui segue l’immediato sequestro
della canzonetta) e a esibirsi nel 1924 perfino come cantante,
eseguendo un suo pezzo, ’E denare d’’o nfinfirinfì, al teatro
Modernissimo di Napoli.
È una personalità corrosiva, beffeggiatrice, di una ironia sottile e
pungente, capace di destare simpatia anche quando – e fin troppo
spesso – inconsapevolmente si mette a pontificare. I napoletani
tendono a riconoscersi in lui, lo amano e lo ammirano perché è bello
e spavaldo, fiero e capriccioso e anche perché si dimostra
coraggioso: nel 1891 è capace di fare una ascensione con il pallone
aerostatico Urania fino a 3600 metri di altezza.
A
differenza del grande don Salvatore attento al ricamo,
all’eleganza, al ritocco dei versi, questo scugnizzo-poeta resta
fondamentalmente un istintivo, lontano mille miglia dall’idea del
labor limae del suo antagonista; e se l’autore di
Marechiaro esprime una poetica tutta borghese, pervasa di
tecnica raffinata, di perbenismo e di educazione, il nostro Russo è,
invece, una specie di poeta maledetto, un personaggio eccentrico che
si pone fuori dalle più elementari regole borghesi, incline com’è ai
luoghi della malavita, dei guappi, delle
maéste, dei vicoli oscuri. È evidente che per far parlare
tali ambienti occorre un linguaggio vero, anzi verosimile, anche a
costo di ricorrere a termini sostanzialmente gergali, non
comprensibili a molti lettori. Siamo quindi su scelte molto diverse
da quelle del Di Giacomo che, come sappiamo, fa uso invece di un
dialetto “artefatto”, molto diverso dall'autentico napoletano.
Proprio questo suo ricorso al modo di esprimersi delle classi più
derelitte insieme al rifiuto di un perbenismo di facciata ha portato
molti a credere che Russo potesse essere l’autore di alcune note
poesie erotico-oscene.
Ma Russo non è solo il cantore dell’anima popolare è anche uno
straordinario umorista: il suo poemetto ’N paraviso è un
piccolo capolavoro di arguzia e di comicità insuperate, capace
tutt’oggi di divertire. La sua verve, però, emerge soprattutto,
nello scrivere macchiette, un genere forse inventato proprio
da lui
[3]
e con il quale può produrre immagini ironiche e graffianti,
spietatamente corrosive dei tipi della società napoletana del tempo.
In questo
tipo di componimento egli ha modo di manifestare il suo vero
temperamento, volto più al lazzo, allo sfottò, alla
pernacchia plebea
che al sentimentalismo della canzonetta. La macchietta è, infatti,
più vicina al suo concetto di arte di quanto non lo sia la canzone
in quanto, con l’adesione al credo del Verismo, il nostro poeta pone
alla base della sua produzione artistica la “fotografia” della
realtà ovvero la riproduzione varia, pittoresca, tragica, comica o
grottesca del popolo in ogni sua manifestazione, con particolare
rilievo per gli ambienti bassi dei mercati, delle bische, delle
taverne.
Come in Di Giacomo, anche in Russo possiamo trovare l'eco delle
forme e dei modi del canto popolare tradizionale. In questo senso le
Villanelle napolitane rappresentano il tentativo di
ricollegarsi «a
quella schiera di rimatori quattrocenteschi che vissero alla Corte
Aragonese» (Achille Macchia), di riscoprire lo spirito dell'antica
poesia napoletana e legandosi idealmente a quel filone vivo e
robusto. Ma «Ferdinando Russo, più che un vivificatore di forme
antiche o popolari, più che un raffinato rielaboratore di canti
antichi, ci appare come un poeta d'impeto, geniale e sincero,
tumultuoso e sentimentale, espressione vivente del suo popolo»
(S. Di Massa).
I meriti di Ferdinando Russo vanno però oltre le sole sue doti
poetiche, egli, infatti, contribuisce con scritti ed iniziative
editoriali alla diffusione della canzone napoletana dirigendo con
impegno e spirito organizzativo la casa editrice Polyphon, in cui
riunisce quasi tutti i maggiori autori partenopei.
In definitiva Russo
è un poeta bizzarro ed estroverso, vernacolare e immediato adorato
dalla gente, ma sottovalutato dalla critica, in particolare da Croce
e dai suoi turiferari – come lo stesso Russo chiama i seguaci
e i tirapiedi del filosofo abruzzese –. Notiamo qui per inciso che
buona parte della celebrità di Salvatore Di Giacomo fuori dai
confini regionali è legata al saggio dedicatogli nel 1903 dall’amico
Benedetto Croce sulle pagine de «La Critica», che lo proclamava
unico degno poeta dialettale napoletano (trascurando, così,
completamente il Russo).
Il magistero incontestabile del Croce, nonostante le polemiche,
indussero a ritenere la poesia di Ferdinando Russo inferiore a
quella di Di Giacomo pesando gravemente sul destino letterario del
poeta. Studi successivi hanno, però, posto la necessità di rivedere
tale giudizio crociano. Vale qui la pena di ricordare che Giosuè
Carducci considerava Russo «il
più umorista e sincero poeta vivente».
Dopo la rapida presentazione di questo autore, autentico vanto della
poesia napoletana, passiamo all’esame della sua più fortunata
canzone, Scetate, della quale propongo subito il testo.
I
Si duorme o si nun duorme, bella mia,
Siente pe’ nu mumento chesta voce!
Chi te vo’ bene assaje sta mmiez’’a via
Pe’ te canta’ na canzuncella doce!
Ma stai durmenno, nun te sì scetata,
’Sti ffenestelle nun se vonno apri’,
È nu ricamo ’sta mandulinata!
Scétate, bella mia, nun cchiù durmi’!
II
’Ncielo se so’ arrucchiate ciente stelle,
Tutte pe’ sta a senti’ chesta canzone;
Aggio ’ntiso parla’ le tre cchiù belle,
Dicevano: “’Nce tene passione!”.
È passïone ca nun passa maje,
Passa lu munno, essa nun passarrà!
Tu certo a chesto nun ce penzarraje,
Ma tu nasciste pe’ m’affattura’!
Ah!
È questa una canzone straordinaria, certamente la più bella e la più
nota di Ferdinando Russo nonché una delle migliori canzoni
napoletane in assoluto, pure se il merito maggiore può essere
ascritto alla musica piuttosto che ai versi. Essa è anche una delle
poche canzoni di questo grande poeta che, dopo oltre un secolo,
ancora si ricordano e si cantano. Penso di non andare troppo lontano
dal vero
dicendo che tra le composizioni ancora note di Russo ci sono solo
Quanno tramonta ’o sole e Mamma mia che vo’ sapé mentre
solo pochi appassionati conoscono Tammurriata palazzola,
Manella mia! e Serenatella nera. È merito poi di Roberto
Murolo l’aver ripescato dal dimenticatoio la pregevole Canzona
amirosa.
Il perché dell’oblio di questa produzione si spiega con la
complessiva non eccellenza dei versi del nostro poeta ma anche con
la scarsa qualità di molti di coloro che hanno apposto la firma
sulla musica. La disponibilità di Russo a fornire troppo facilmente
i suoi versi per la musicazione è stata in definitiva
controproducente e causa di dispersione. Giovanni Amedeo cita solo
20 canzoni del poeta per le quali è riuscito a rintracciare la
musica e riporta il testo di altre 5 canzoni che egli suppone
musicate.
La dispersione delle canzoni è simile a quella delle macchiette:
Russo non si è mai preoccupato di raccoglierle organicamente forse
perché le ha ritenute meno meritevoli di quella produzione da lui
chiamata “impersonale”, che pensava fosse frutto della sola
osservazione. La poesia “intima”, lirica o elegiaca, che egli
definisce subiettiva, rappresenta, infatti, per lui solo un’attività
secondaria.
Il successo di Scetate a Napoli è travolgente, gli innamorati
ne sono rapiti, si lasciano trasportare ed entusiasmare, la canzone
diventa il brano fisso presente in tutte le serenate. C’è chi
afferma che la canzone sarebbe stata eseguita in onore del Kaiser
Guglielmo II sotto i balconi del palazzo reale di Napoli da
un’orchestra ed un coro imponenti: 100 mandolini e 500 coristi! Si
racconta anche che con questa canzone Russo avrebbe fatto colpo su
Annie Vivanti accompagnatrice ed amante di Giosuè Carducci tanto che
il poeta toscano avrebbe deciso di lasciare Napoli il giorno
successivo e di non incontrare mai più il poeta napoletano.
Scetate,
pubblicata nel 1887, quando Russo ha solo 21 anni, non viene scritta
per essere musicata, diventa canzone solo per caso, per l’incontro
tra il poeta e Costa nel corso di un ricevimento a casa del
giornalista e letterato Rocco De Zerbi. Successivamente, dalla
saltuaria collaborazione tra il poeta ed il maestro nasceranno nel
1891 ’O cuntrattino e nel 1895 i duettini ’A sartulella
e Cannete’ ma nessuna di questa canzoni raggiungerà i vertici
qualitativi di Scetate, né avrà altrettanta fortuna.
La canzone ha la forma strofica, è priva quindi di ritornello. Si
articola in due stanze ciascuna formata da due quartine di
endecasillabi a rima alterna, con sesto e ottavo verso tronchi. La
categoria tematica è quella della serenata, il contenuto si sviluppa
intorno alla ricerca delle parole adatte per conquistare una donna e
scardinare le sua resistenza. Nella prima parte della canzone
troviamo i topos tipici delle serenate, nella seconda parte invece
si precisano le emozioni del protagonista delineando con linguaggio
realistico il concetto del sentimento amoroso come fattura e
rapimento.
Il brano, breve ma abbastanza denso, è pervaso da una sottile
sensualità che ben esprime la fase iniziale del gioco d’amore:
l’assalto del corteggiatore che s’esalta nell’avventura e il
desiderio di conquista alla quale si contrappone l’ambigua
resistenza della donna, una resistenza che si concretizza nel non
aprire la finestra. Dorme l’amata? Si diverte a farlo attendere?
Oppone rifiuto? Questo gioco non presenta sviluppo, manca l’esito
della schermaglia amorosa perché quel che intende fare il poeta non
è raccontare una storia ma semplicemente impugnare le armi della
seduzione: da sedotto, sedurre cercando le parole ammaliatrici
adatte per insinuarsi nel cuore, per conquistare, per poter piacere.
La forza passionale che Russo presenta nella vita reale, la sua
intensa e sensuale emotività, la sua tenacia e determinazione nel
gioco di conquista, si rivelano qui nelle espressioni sottilmente
intriganti, nel tono pacato, nelle modulazioni ritmiche che non
cercano pure sonorità.
Come spesso accade, però, nelle migliori canzoni, il testo poetico,
che pure ha radici ben piantate nella tradizione popolare e un
occhio volto alla dimensione teatrale, non è eccezionale. Esso si
presenta abbastanza banale e scontato nella prima parte nella quale
si invita la bella a svegliarsi, ad ascoltare la voce
dell’innamorato e ad aprire la finestra: come
si conviene in questo tipo di composizione, secondo una norma ben
consolidata e scrupolosamente osservata, la finestra non può né deve
aprirsi subito (in altre canzoni ciò avviene nella seconda o nella
terza parte) anzi deve presentarsi chiusa pure nei mesi estivi (di
solito le serenate vengono ambientate nel mese di aprile o di
maggio). Questa regola rientra quasi in un rituale della
serenata tanto che in alcuni luoghi del sud fino a qualche tempo fa
era considerato addirittura poco decoroso da parte della ragazza
l’affacciarsi per esprimere il proprio gradimento. Osserviamo per
inciso che di
finestre chiuse, che non vogliono saperne di aprirsi o che si aprono
solo dopo ripetute insistenze, ne è piena, la canzone napoletana di
ogni tempo ed autore e penso anzi che il discorso sia ancora del
tutto esaurito. In definitiva in questa prima parte non abbiamo
niente di particolarmente nuovo, nessuna immagine di speciale
suggestione, una sola ricerca di preziosismo (è nu ricamo ’sta
mandulinata).
Il testo trova migliore sviluppo solo nella seconda strofa dove si
colora di alcune espressioni sicuramente suggestive. Così troviamo
il bel gioco di parole ...passione ca nun passa... svilito,
però, subito dopo dallo scialbo luogo comune nel verso successivo
...passa lu munno, essa nun passarrà!... e la chiusura finale
con grande effetto di fascinazione ...tu nasciste pe m’affatturà!:
una frase sottilmente ingannevole sotto l’apparente composta
pacatezza, quasi un’onda impetuosa cavalcata da un desiderio che
trascende qualsiasi pulsione controllabile, una frase di respiro e
forza tali da mettere d’accordo anche la critica.
Il fascino indiscutibile di Scetate sta forse in quel senso
di vitalità da cui è pervasa, in quella tensione volta a gettare il
cuore oltre l’ostacolo, in quel piglio fremente e appassionato che
non smette mai di conquistare. La serenata riesce, infatti, a
trovare ancor oggi,
a quasi 130 anni di distanza dalla sua composizione, un
consenso ampio e convinto.
Il brano si connota di quel paesaggio lunare che caratterizza buona
parte della produzione del Russo. Il poeta, qui come altrove,
intinge la penna nell’inchiostro della notte e, con immediatezza e
spontaneità espressiva, delinea piuttosto che un’atmosfera cupa, uno
scenario estatico, sereno e fresco nel quale la serenata si connota
come un colloquio intimo con l’amata e la musica trova supporto per
effondersi ed avvolgere l'ascoltatore aggiungendo forza di
persuasione ai versi. In questo rapimento dei sensi i versi cercano
la vaporosità del “ricamo”, un fluttuare leggeri come sospesi
nel tempo e nello spazio. Il testo realizza così uno scenario in cui
può germogliare e maturare quella compenetrazione, quella
reciprocità essenziale tra parole e musica: una fusione che dà vita
ad una melodia dalla vena soffusa di dolcissima tenerezza, un
tentativo riuscito di dare forma al concetto enigmatico di bellezza.
Scetate è una serenata “serena”, piena di passione e priva di
quell’amarezza tipica di molte liriche amorose di Ferdinando Russo.
La fiamma che alimenta questa poesia è la passione e l’autore,
smaliziato donnaiolo, riesce a trarre da tale sentimento, senza mai
cadere nella leziosità, versi suadenti e persuasivi capaci di
esprimere quel fuoco interiore che lo pervade e gli dà impeto, quel
fuoco che ambisce al ruolo di voce dell’anima. La passione che Russo
canta come vera e duratura sembra poter dare prova ma anche
possedere la consapevolezza del vero amore.
Il poeta in questa canzone, come in tutta la poesia che egli
definisce subiettiva, cerca di usare un dialetto più “nobile”
di quello utilizzato nella produzione che egli definisce
impersonale. Ritiene, perciò, più adatto un linguaggio
contenente morfemi e vocaboli del dialetto medio per non
volgarizzare troppo i suoi travagli e le sue visioni d’amore con una
forma bassa, troppo sciatta (a suo giudizio) per un tal genere di
componimenti. Russo cerca, quindi, di affinare il dialetto
utilizzato in questo tipo di poesia pur stando attento a non
alterarlo, contorcerlo o stiracchiarlo.
In realtà il dialetto di Scetate non può essere considerato
più adatto ad esprimere i sentimenti personali di quello usato dal
Russo nei componimenti d’osservazione diretta. Tutt’altro:
rinunciando al dialetto del volgo egli rinuncia alla saporosità,
all’essenzialità, al colore e alla ricchezza di quel linguaggio che
caratterizza invece tanti componimenti cosiddetti impersonali. In
questi il dialetto è, infatti, più potente ed incisivo, ha
espressioni più efficaci e si giova di contrasti che rendono
perfettamente, in termini di tensione ed emotività, di vivacità e
brillantezza, le persone e le vicende descritte. Anche i termini
gergali, che arricchiscono e coloriscono tale linguaggio,
contribuiscono a creare un concerto più vivace e saporoso.
Tuttavia, per quanto i versi di Scetate non assurgano alle
vette della grande poesia bisogna riconoscere che l’autore ha posto
in essi un impeto sincero e spontaneo, capace di restituire emozioni
e moti dell’animo e del cuore condivisi da ampi strati di persone.
La semplicità e l’immediatezza espressiva, il tono intrigante e
passionale, la vena nostalgica sono i sentimenti immediatamente
recepiti dal popolo e possono spiegare la popolarità raggiunta da
Russo come poeta sentimentale. Non sarebbe altrimenti possibile
comprendere, sulla base dei soli elementi artistici, il grande
favore con il quale larghi strati popolari ed anche non popolari
accolgono le sue canzoni e i suoi versi d’amore.
Costa, che non è un musicista malinconico, riesce magistralmente ad
interpretare gli stati d’animo di soffusa nostalgia propri del
temperamento di Russo creando una musica bellissima e di rara
purezza. Compone una serenata in 2/4, di grande fluidità (il
compositore prescrive il tempo di andantino, quasi
allegretto) secondo lo schema A / B / A1 / B1, con introduzione
e coda.
L’incantevole serenata è una buona fusione tra un motivo vagamente
spagnoleggiante ed una melodia notturna e presenta alcuni
procedimenti armonici già sperimentati in Napulitanata dalla
quale riprende il suo incedere di sapore spagnolo (di derivazione
squisitamente araba). In Costa queste suggestioni ”ispano-arabe”
sono difficilmente separabili dagli elementi della tradizione locale
partenopea.
La serenata
procede suadente, con fresca spontaneità, affidandosi ad un
repertorio seducente e vibrante, senza dilatazioni di tempo, con
toni suggestivi ed estatici e tratti di acceso lirismo. In breve
si viene trasportati in uno spazio intrigante e suggestivo, pregno
di voluttà dove la melodia sprigiona fiumi di malia, e nel
mentre, nostalgica e passionale fa il racconto di sé, rilascia, per
ogni nota che svapora, il cuore della parola custodita. È una parola
capace di evocare ed incantare, ma anche di dosare con sapienza gli
ingredienti della seduzione: richiamo, tensione, attrazione,
desiderio di suscitare emozioni, delicatezza e furbizia nel porgere,
sagacia nell’usare l’arma della lusinga, maestria nel far vibrare il
temperamento passionale napoletano, capacità di pennellare strofe
svelte e semplici, misurate e mai ridondanti ma sempre subdolamente
efficaci e incisive.
Il respiro della musica è la magia che rende facile il difficile,
concreto l’impossibile, è la chiave malandrina che saccheggia il
cuore: alla sua seduzione, al suo richiamo irresistibile, che sembra
inseguire il patrimonio smarrito delle sirene e di Orfeo, non
possono sfuggire nemmeno le stelle. Lo sviluppo armonico è di gusto
raffinatissimo e su di esso Costa costruisce, nota su nota, un
lavoro maturo, ricercato, ricco di trasporto e di calore fatto di
morbida e delicata poesia: un canto a distesa che ricorda un lontano
struggente richiamo. La composizione suscita immagini che hanno
nella notte e nella strada il punto centrale, il fulcro sul quale si
regge il senso della serenata. Di trama tenue in trama tenue, il
tessuto della melodia si ispessisce e regala attimi di puro piacere
come quando si prende il lusso di un vocalizzo, proprio alla fine
del singolare canto in Mi min. in maniera da terminarlo sopra la
quinta. Ma è tutta la melodia a penetrare nell’anima, ad insinuarsi
nella mente, a percorrere le vie del cuore regalando sensazioni
convincenti e attimi di dolcezza, portando per mano tra
l’incantesimo e l’incanto.
G. Plenizio la pensa diversamente e riconosce alla canzone il solo
merito di somigliare alquanto a Napulitanata, canzone questa
che considera di ben altro livello. Invece Scetate gli appare
come «imbalsamata» (uso la sua parola) in un ritmo sempre uguale.
Il genere “serenata” rende adatta questa canzone alle sole
interpretazioni maschili. Curiosamente, però, essa è stata incisa
anche da alcune cantanti tra le quali spiccano i nomi di Gloria
Christian e Mirna Doris ed addirittura quello di Sofia Loren. La
tessitura musicale non è particolarmente indicata per mettere in
risalto le voci tenorili che infatti mancano tra quelle degli
esecutori. Fanno eccezione Vittorio Parisi, Giuseppe Di Stefano e
Bruno Venturini.
Note
[1] A fine
Ottocento la Camorra sta riprendendo forza a Napoli e nelle
regioni meridionali come conseguenza della scontentezza
popolare e della delusione per la mancata realizzazione
delle promesse di lavoro e dei piani di industrializzazione.
La classe dirigente italiana, incapace di comprendere le
vere radici del fenomeno camorristico, imbastisce teorie
pseudo-scientifiche sulla presunta origine genetica della
tendenza a delinquere dei meridionali e si illude di poter
distruggere la camorra allo stesso modo di come ha fatto con
il brigantaggio: con le repressioni e la violenza. In questo
modo il governo va creando nella plebe napoletana, uno stato
d'animo di simpatia verso i «guappi», ritenuti «vittime» di
una politica antimeridionalista. Questo stato d'animo viene
alimentato con tutti i mezzi dai ceti reazionari della
città, da una parte del clero e dai nostalgici del regime
borbonico e intorno alla figura del «guappo» si forma un
alone di leggenda. Nella letteratura popolare il guappo è
una specie di eroe che svolge spesso è un ruolo positivo:
protettore dei deboli, riparatore di ingiustizie. Così in
alcuni romanzi di Mastriani e in alcuni drammi di Federico
Stella.
Con l'allargamento del suffragio, la camorra si diffonde
capillarmente nella società civile napoletana
condizionandone le scelte economiche e sociali. Il voto
diventa allora per la camorra un nuovo mercato che si
affianca a quello dell'estorsione. Ha origine così la
commistione tra politica e camorra: la malavita organizzata
intreccia relazioni con i politici per ottenerne favori e
appalti in cambio di voti. I lavori del Risanamento di
Napoli finiscono perciò per diventare il più grosso affare
per la camorra dell’epoca. La corruzione diventa tale che in
appena trentanove anni dall'Unità d'Italia, Napoli dovrà
essere commissariata ben nove volte.
[2] L’Imbrecciata è il nome che aveva l’attuale
via Martiri d’Otranto, tra il corso Garibaldi e via
Arenaccia, e tutta la zona ad essa circostante. Nel 1851
tutti i postriboli della città furono collocati in questa
zona nei pressi di via Santa Maria della Fede e la strada fu
circondata da mura di cinta. L’Imbrecciata era, quindi, di
una strada tristemente malfamata pericolosa da praticare,
regno di camorristi e prostitute che si “concedevano” per
soli quattro grani.
[3] La macchietta è un componimento
comico-musicale di carattere ironico che prende in giro un
personaggio cittadino. Nella sua forma iniziale si
distingueva dalla canzone umoristica per il fatto di avere
un carattere teatrale più che canzonettistico: l’esibizione
richiedeva, infatti, all’interprete un costume adatto al
personaggio da canzonare, una eccellente mimica e doti di
recitazione comica (il testo, infatti, veniva più recitato
che cantato: la musica spesso serviva solo da sottofondo).
Renato Gargiulo
Pubblicazione del Portale
del Sud, novembre 2015
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