L'anima perduta nella monnezza di Napoli
di
Roberto Saviano
Niente è
cambiato. Si è tentato - tardi, tardissimo - ma non si è risolto nulla.
L'esercito, i volontari, la pazienza e le proteste. Ma tutto versa nello
stesso stato di prima. O quasi. Il centro e le piazze vengono salvati, si
cerca di non farli soffocare dai sacchetti. E nella scelta dei luoghi in cui
raccoglierli emerge la differenza fra le zone e le città. Zone dove conviene
pulire per evitare che turisti e telecamere arrivino facilmente, strade dove
vivono professionisti e assessori. E invece altre dove la spazzatura può
continuare ad accumularsi. Tanto lì la monnezza non va in prima pagina. I
paesi divengono discariche di fatto. Tutta la provincia è un'ininterrotta
distesa di sacchetti. E la rabbia aumenta. Spazzatura ai lati delle strade,
o che si gonfia in collinette multicolori fuori dai portoni, dove sono
apparse scritte come "non depositare qui sennò non si riesce più a bussare".
Niente è cambiato se non l'attenzione. Dalla prima pagina alle cronache
locali.
Lentamente tutto questo rischia di divenire abituale, ordinario: la solita
monnezza, parte del folklore napoletano, quotidiana come lo scippo, il
lungomare e la nostalgia per Maradona. E invece qui è tragedia. Spazzatura
ovunque, discariche satolle, gonfie, marce. Camion stracolmi, in fila.
Proteste. E poi dibattiti, indagini, dimissioni, e colpevoli, ecologisti,
camorristi, politici, esperti. Maggioranze e opposizioni e cadute di
governo. Ma la monnezza resiste a tutto. E continua ad aumentare. La
spostano dal centro alla periferia, la spediscono fuori città, qualcosa
fuori regione. Però non basta mai, perché quella si riforma, si accumula di
nuovo. Tutti pronti a parlare, in un'orchestra che emette suoni talmente
confusi da divenire indecifrabili come il silenzio.
Certo
risulta difficile credere che se Roma, Firenze, Milano o Venezia si fossero
trovate in una situazione simile avrebbero continuato a far marcire i
sacchetti nelle loro piazze, a tenersi strade bordate di pannolini e bucce
di banana, a lasciar invadere l'aria dall'odore putrescente degli scarti di
pesce. Difficile immaginare che in una di queste città la notte girino
camion che gettano calce sopra ai cumuli per evitare che le infezioni
dilaghino e soprattutto che vengano incendiati.
Il
rinascimento napoletano finisce così, coperto di calce. Si sbandierava la
rivincita della cultura, ma sotto il tappeto delle mostre, dei convegni e
delle parole illuminate le contraddizioni erano pronte a esplodere. Non
c'erano solo stuoli di progetti culturali e promozionali per il turismo.
Negli ultimi cinque anni sono spuntati in un'area di meno di 15 km enormi
centri commerciali. Prima il più grande del Sud Italia nel casertano, poi il
più grande di tutt'Italia, poi il più grande d'Europa e da poco uno tra i
più grandi al mondo: un'area complessiva di 200.000 mq, con 80 negozi di
brand nazionali e internazionali, un ipermercato, 25 ristoranti e bar, una
multisala cinematografica con 11 schermi e 2500 posti a sedere.
Ultimo
arrivato, a Nola, il Vulcano Buono progettato da Renzo Piano che ha tratto
spunto dall'icona napoletana per antonomasia: il Vesuvio. Una collina
artificiale, un'escrescenza del suolo che segue le uniche e sinuose forme
del vulcano. Alta 40 metri e con un diametro di oltre 170, un complesso di
150 mila metri quadri coperti e 450 mila in tutto. Si costruiscono centri
commerciali come unico modo di far girare soldi. Quali soldi? Le stime
dell'Istat segnalano che la Campania cresce meno del resto d'Italia. La
regione è mortificata nei settori dell'agricoltura e dell'industria e
incapace di compiere il salto di qualità nel comparto dei servizi.
E per
quanto riguarda il valore aggiunto pro capite, se la media nazionale
s'attesta a 21.806 euro per abitante, al Sud non supera quota 14.528. Keynes
diceva che quando l'accumulazione di capitale di un paese diventa il
sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose non
vadano bene. Riguardo il nostro paese bisognerebbe sostituire al termine
casinò la parola centro commerciale. Così rimangono, tra queste cattedrali
di luci e cemento, gli interrogativi di sempre. Perché a Napoli c'è tutta
questa spazzatura? Come è possibile quando cose del genere non accadono a
Città del Messico e nemmeno a Calcutta o a Giakarta? È incomprensibile.
Bisogna quindi essere didascalici. Perché le discariche napoletane sono
piene? Semplice. Sono state usate male, malissimo. Sversandoci dentro di
tutto, senza controllo.
Chi
gestiva le discariche non rispettava i limiti, né le regole riguardo alle
tipologie. Somiglianti più a buche fatte male che a strutture per lo
sversamento, le discariche si riempivano di percolato divenendo laghi
ricolmi di un frullato di schifezze, fogne a cielo a aperto. E così si sono
riempite presto, e non solo di rifiuti urbani. Scavare crateri enormi,
portare giù il camion e poi, uscito il conducente, saldare le porte del tir
e sotterrare: era un classico. Un modo per non toccare i rifiuti nemmeno con
un dito. Il tutto dava un guadagno talmente alto da poter sacrificare,
intombandoli, interi tir. A Pianura, racconta la gente, c'è persino una
carcassa di balena, e a Parete pacchi e pacchi di vecchie lire.
Ma
perché i cittadini si ribellano alla riapertura delle discariche? Perché
sembrano così folli da preferire i sacchetti che da circa due mesi hanno
davanti a casa? Perché temono che insieme a quelli che dovrebbero essere
solo rifiuti solidi urbani invece arrivino anche i veleni. Eppure ricevono
le massime garanzie che la loro situazione non peggiorerà. Ma da chi le
ricevono? Da coloro di cui non si fidano più. Da coloro che hanno sempre
appaltato lo smaltimento a ditte colluse, a uomini imposti dai clan di
camorra. E chi deciderà quindi davvero la sorte dei rifiuti? Come sempre i
clan.
A loro
non ci si può ribellare. Ma siccome allo Stato invece sì, spesso contando su
una buona dose di pazienza dei reparti antisommossa, si fa ostruzione alle
sue decisioni perché non accada poi che si inneschino i consueti accordi. Si
preferisce rinunciare persino agli aiuti economici destinati a chi vive nei
pressi della discarica, piuttosto che correre il rischio di finire marci di
cancro per qualche sostanza intombata di nascosto. Certo, tra i manifestanti
ci sono anche i ragazzotti dei clan pagati 100 euro al giorno per far
chiasso, bloccare strade, saper lanciare porfido e caricare. Ma loro rendono
soltanto esasperate paure che invece sobbollono in tutti. E le rendono
isteriche perché più spazzatura ci sarà, meno controlli ci saranno per le
ditte pagate per raccoglierla e più l'uso dei macchinari in mano ai clan
sarà abbondante.
E più le
discariche saranno bloccate, meglio si potranno infiltrare camion colmi di
rifiuti speciali da nascondere mentre quelli bloccati fuori fanno da
copertura. E i consorzi e la politica? I consorzi che gestivano i rifiuti lo
facevano per conto di imprenditori e boss, mentre la responsabilità della
politica locale e nazionale stava nella solita logica di non affidare posti
a chi aveva competenze tecniche, bensì ai soliti personaggi con il solo
requisito di essere in quota ai partiti. Quanti posti di lavoro distribuiti
in periodi preelettorali, in strutture dove la raccolta dei rifiuti o la
differenziata rappresentavano puramente un alibi. Perché non si è fatto
nulla? Perché l'emergenza fa arrivare soldi a tutti. E quindi di emergenza
si vive.
Finita
l'emergenza, finiti i soldi. Bisognava forse ribellarsi anche nei giorni in
cui i clan prendevano terre. E il termovalorizzatore di Acerra su cui tanto
si discute, che per anni non è stato costruito e ora lentamente sta per
realizzarsi? Quel genere di impianto non è dannoso, dichiarano gli oncologi,
al centro di Vienna uno simile è persino divenuto un palazzo prestigioso.
Certo. Ma in un territorio dove l'indice di mortalità per cancro svetta al
38.4%, chi rassicura la gente che negli impianti verrà bruciato solo quel
che si deve? Quale politica saprà mantenere la promessa di massimo controllo
in una terra che è stata definita la Cernobyl d'Italia? Il centrosinistra ha
creduto di essere immune dalle infiltrazioni camorristiche perché la
questione camorra riguardava l'altra parte. Ma non era così. Le porte dei
circoli della sinistra si sono aperte ai clan mai come in questi ultimi
anni.
E il
crimine è stato percepito come un male naturale, fisiologico. La politica ha
continuato a presentarsi sempre più come qualcosa di indistinto con l'affare
e il crimine. Destra e sinistra uguali, basta mangiare. Il qualunquismo
italiano forse non è mai stato così sostenuto dall'esperienza. E oggi
occupano, bloccano, non collaborano perché non si fidano più di nessuno.
Non c'è
altro da dire e da fare. Togliere, togliere la monnezza subito. Non si può
più aspettare. Togliere e poi capire chi ha ridotto così questa terra e
accorgersi che i meccanismi che qui hanno portato allo scempio totale sono
gli stessi che governano in modo meno mostruosamente suicida l'intero paese.
In questi giorni mi è venuta in mente una scena di un racconto di Salamov,
forse il più grande narratore dell'aberrazione del potere totalitario.
Quando i soldati sovietici misero in isolamento alcuni prigionieri del
gulag, tutti invalidi tranne Salamov, pretesero che consegnassero le loro
protesi: busti, dentiere, occhi di vetro, gambe di legno.
A
Salamov che non ne aveva, il soldato, scherzando, chiese: "E tu che ci
consegni? L'anima?". "No, l'anima non ve la do" rispose. Prese una punizione
durissima per aver difeso qualcosa che fino ad allora credeva inesistente.
Questo è il momento di capire se ancora abbiamo un'anima, e non farcela
togliere come una gamba di legno. Non consegnarla. Prima che non ci restino
che protesi.
© 2008
by Roberto Saviano.
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency
La
Repubblica
(4 febbraio 2008) |