1.
Introduzione
I Fenici abitavano la zona costiera dell’attuale Libano, l’esiguità
di questa fertile fascia, compresa tra i monti e il mare,
insufficiente a soddisfare i bisogni della popolazione, fu
determinante nella definizione dell’economia di quel popolo, che
guardò al mare come sbocco per le proprie attività commerciali, e
che fece dei Fenici un popolo di abili navigatori.
Tra il crollo del dominio marittimo dei micenei e gli inizi della
colonizzazione greca, i Fenici divennero padroni dei mari, fondando
città e porti utilizzati come basi per i loro commerci
internazionali. L’isola di Mothia, antistante l’estrema cuspide
occidentale della Sicilia, fu uno dei loro centri commerciali più
fiorenti. Dopo un periodo di splendore, nel 397 a.C., l’isoletta
venne distrutta e saccheggiata ad opera di Dionisio. Più tardi, nel
392 a.C., fu concordato un trattato di pace tra i fenici di Mothia e
il tiranno, che in quel momento cominciava ad interessarsi della
Sicilia orientale. Mentre Dionisio era occupato in questa nuova
impresa, i moziesi, decisi a non lasciarsi sfuggire quel lembo di
territorio vitale per i loro commerci, e ritenendo che Mothia, con i
suoi 45 ettari, fosse poco adeguata alle loro esigenze, costruirono
sulla costa antistante una nuova città: Lilibeo, posta su un
promontorio, che già i Fenici frequentavano da tempo e, dove, quando
l’isoletta non poté più soddisfare le loro esigenze, avevano
impiantato diverse necropoli.
Si comprende, a questo punto, come la civiltà punica sia fortemente
radicata, nel territorio di Lilibeo (e non solo) e come ad essa si
sia sovrapposto, in seguito, il cristianesimo di provenienza
africana.
2.
Lilibeo punica
Un tentativo di ricostruzione dell’aspetto di Lilibeo in età punica,
è possibile grazie alle testimonianze storiche ed archeologiche.
Sappiamo che, al tempo dell’assedio di Pirro, Lilibeo aveva
potenziato le sue difese lungo le principali vie di collegamento con
l’entroterra, allora venne costruita una cinta muraria, rafforzata
da poderose torri e da un fossato.
La necropoli punica si estendeva lungo il lato orientale della città
sviluppandosi all’esterno del fossato difensivo; sul limite
settentrionale seguiva l’antica linea di costa, attestandosi sul
costone roccioso sul quale sorgono gli stabilimenti vinicoli
Pellegrino e Mineo; l’estremo limite meridionale coincideva,
probabilmente con l’area della Madonna della Grotta, ove sussistono
resti di complessi paleocristiani che hanno, in parte, riutilizzato
tombe puniche. L’esistenza di una vasta necropoli a Marsala era già
nota fin dal XVIII secolo; le prime ricerche furono eseguite da A.
Salinas, ma il loro risultato rimase a lungo inedito. Scavi
sistematici, intrapresi solo nel 1969, hanno permesso di acquisire
nuovi dati su questo importante settore delle necropoli lilibetane,
noto, fino a pochi anni fa, solo grazie alle notizie raccolte dal
Fuherer e dallo Schultze nel corso delle loro indagini, risalenti
ormai ad oltre un secolo fa.
3.
il
contesto
L’area nella quale insiste la chiesa di Santa Maria della Grotta
presenta un paesaggio roccioso, arido, caratterizzato soprattutto da
sciare, con vegetazione molto rada e strutture edilizie modeste e
rarefatte. Ancora, nel XVII secolo, la zona era segnata da numerose
grotte e latomie denominate del “Romito” e delle “Zitelle”,
utilizzate per il ricovero e l’allevamento di capre e pecore. Gli
scavi del 1990 hanno messo in luce sia l’esistenza di ipogei punici
negli ingrottati, sia l’insospettata vastità dell’antica necropoli
punica. Verso la metà del I secolo d.C. la zona venne interessata da
un piano sistematico di cavatura della calcarenite e successivamente
venne utilizzata per uso catacombale dai primi cristiani di Lilibeo.
Il sito, perciò, testimonia trasformazioni d’uso; dal IV secolo a.C.
al VII – VIII sec. d. C., vi si possono leggere tre tappe
fondamentali: necropoli punica, latomie, necropoli paleocristiana.
4.
Necropoli punica
La necropoli punica si trova sul lato orientale della città,
all’esterno del fossato difensivo. Il margine settentrionale va
dagli stabilimenti vinicoli Mineo e Pellegrino fino alla contrada
Salinella; l’estremo limite meridionale coincideva, probabilmente
con l’area della Madonna della Grotta. Attualmente la necropoli
costituisce la principale fonte di dati sulla Sicilia punica del IV
e III secolo a.C. Il tipo di sepoltura più diffuso è la fossa
rettangolare che probabilmente era priva di copertura e ricoperta da
uno strato di sabbia. Accanto alle tombe a fossa, quando la natura
del terreno roccioso lo consentiva, si trovano anche i
caratteristici ipogei a pozzo verticale.
La profondità di questi pozzi a volte supera i 10 metri;
generalmente a circa un metro dall’imboccatura era una resega, sulla
quale poggiavano alcuni lastroni di copertura; una seconda resega,
destinata a sorreggere un’ulteriore copertura, si riscontra qualche
volta a metà del pozzo. Sulle pareti alcune tacche orizzontali, a
intervalli regolari, erano destinate a favorire la discesa degli
affossatori. Dal fondo del pozzo si accedeva ad una o due camere
funerarie, alle quali si accedeva attraverso aperture rettangolari.
Un altro tipo di sepoltura consiste nel semplice pozzo privo di
camere, profondo in media due metri e destinato ad accogliere più
sepolture. Nei casi di cremazione le ceneri erano collocate in
anfore o in cinerari di terracotta. La Chiesa di Santa Maria della
Grotta è inserita tra gli ipogei punici, riutilizzati poi dai primi
cristiani, che fortunatamente non sono stati, intaccati dalle
imponenti escavazioni realizzate al momento della costruzione della
chiesa stessa. I nuclei più significativi di queste testimonianze,
si possono rinvenire in Corso Gramsci, in Vicolo Pace e, in
prossimità del cimitero, nell’area della Madonna della Grotta, sul
cui lato orientale insiste il Complesso Niccolini con la chiesa
della Madonna dell’Itria e il relativo convento dei Padri
Agostiniani.
Lo stato di conservazione delle strutture è pessimo. Danni sono
stati causati dalla costruzione, tra ‘800 e ‘900 del cimitero
moderno che ha inglobato, distruggendole alcune strutture
dell’adiacente Complesso Niccolini.
5.
le
latomie ed ingrottati
Marsala sorge su un territorio che, sul versante NE, presenta una
vasta area rocciosa ricca di cave di tufo.
Al momento della fondazione di Lilibeo punica, quando i Fenici a
difesa della città crearono poderose mura e un fossato difensivo,
visibile ancora oggi, cave erano presenti anche nel centro urbano;
la creazione del fossato difensivo, diede origine ad una vastissima
cava conseguente all’estrazione di conci megalitici, che furono poi
utilizzati per la costruzione delle mura di difesa.
La Lilibeo romana, invece, fu realizzata secondo le regole in voga
nell’antica Roma e le sue cave furono realizzate secondo la tecnica
del fronte per la coltivazione della calcarenite, che creava, nel
terreno, degli enormi crateri dalla forma indefinita, oggi chiamate
Latomie. Le latomie erano dunque cave a cielo aperto, molto
profonde.
Quando la latomia era esaurita, l’opera di cavatura continuava,
oltre il bordo della cava, a partire dal fondo di essa, con opere di
escavazione in galleria che si aprivano a raggiera come profondi
ingrottati, denominati “fossae”. La forma e la dimensione degli
ingrottati era estremamente variabile: essa dipendeva dai filoni di
roccia che venivano sfruttati. All’interno degli ingrottati sono
visibili le tracce della cavatura del materiale da costruzione,
consistenti in tagli profondi e paralleli distanti tra loro dai
60-65 cm e i 75. Gli ingrottati furono utilizzati come ipogei in età
punica, successivamente primi cristiani di Lilibeo sfruttarono gli
ingrottati delle cave abbandonate e le latomie per uso catacombale e
con ulteriori opere di cavatura ricavarono nicchie, tabelle
funerarie e arcosoli lungo le loro pareti. Quindi le catacombe
paleocristiane nacquero in Lilibeo, da un riutilizzo della latomie.
Gli arcosoli arricchiti da affreschi, opportunamente cavati dentro
gli ingrottati, con piccoli impianti a carattere familiare
riportarono nell’area l’uso funerario, cessato due secoli prima. La
tipologia degli arcosoli, insieme a reperti rinvenuti, consente di
datare tale trasformazione d’uso al V secolo d.C. Note fin dal
secolo scorso, grazie all’impegno del Fuhrer e dello Schultze, le
latomie paleocristiane si estendevano, sul versante di Trapani, fino
in contrada San Carlo a nord.
Chiesa basiliana, 1098
Il monastero basiliano venne eretto su commissione di Cristodulo
Rozio, ammiraglio antiocheno alla corte di Ruggero II, che per
compensare Marsala della perdita della sede vescovile, trasferita a
Mazara, assicurò all’abbazia una ricca dote comprendente il feudo di
Rinazzo, l’isola di Mozia, il Casale Farchina con 450 salme
coltivabili, compreso degli abitanti greci e musulmani e altri
poderi. L’abbazia è una delle poche testimonianze della presenza e
dell’espressione artistica e culturale bizantina, nella Sicilia
occidentale.
Lo stesso Ruggero II dispose che l’antica latomia fosse concessa
all’ordine basiliano e fosse costruita una basilica e un ricovero
per i frati di culto greco. La basilica era munita di una torre
normanna che aveva la funzione di custodire e indicare ai fedeli
l’accesso alle grotte. Alla fine del XII secolo, nel 1196, rimasta
senza frati e senza abate, venne unificata, dalla regina Costanza,
su richiesta dell’abate Baarlam, con l’omonima chiesa palermitana,
col placet di Innocenzo III.
Nel 1550 Carlo V la consegnò all’ordine dei Gesuiti e dopo un
periodo di “vacatio” passò alle cure dei Frati minimi di San
Francesco di Paola, che presto l’abbandonarono cedendola di nuovo ai
gesuiti, fino alla loro espulsione del 1767, anno in cui fu concessa
in commenda all’Ordine de’ Cavalieri della Costantiniana di San
Giorgio. Ritornò poi nelle mani dei gesuiti a seguito della loro
riammissione nell’Isola, avvenuta nel 1805, e dopo il definitivo
scioglimento della compagnia passò al demanio dello Stato ed infine
alla Soprintendenza ai beni Culturali di Trapani.
Gli ingrottati basiliani
Vale la pena sottolineare che, in quel momento, la popolazione di
Marsala era in prevalenza di religione islamica, e che i primi
edifici di culto cristiani furono la basilica di Santa Maria della
Grotta e la chiesa di San Giovanni al Boeo, entrambe di rito
greco–ortodosso. L’ordine dei frati basiliani, di rito greco, era
l’unico a rappresentare in Marsala, il clero secolare. Quei frati
insediatisi nell’area delle latomie non apportarono notevoli
modifiche a quanto già esisteva, ma si limitarono ad adattare quegli
ambienti alle loro esigenze che, oltre alla meditazione e alle
preghiere, contemplavano anche necessità legate all’abitare e allo
svolgimento di operazioni della vita quotidiana. Nella vasta area
delle latomie l’accesso alle grotte liturgiche veniva segnalato ai
fedeli, da una torre presso cui si trovava il percorso per
raggiungere gli ingrottati destinati al culto.
Questi ultimi, prima della costruzione della chiesa costituivano un
blocco unico, interrotto, poi, dalla costruzione della navata
settecentesca, che fortunatamente non intaccò gli ipogei
preesistenti. Nell’insieme si trattava di tre nuclei fondamentali,
quello centrale che ospita la navata tardo barocca; il nucleo B, che
suole indicare l’Ipogeo settentrionale; altri due nuclei denominati
C e D indicano due ipogei meridionali.
la
chiesa tardobarocca, 1714
Quella che oggi si offre alla vista del visitatore è una chiesa
tardo barocca, nella quale sono ancora visibili alcuni affreschi con
figure di santi. Progettata, nel 1714, dall’architetto G.B. Amico su
incarico dei Gesuiti, si è innestata su una preesistente abbazia
basiliana del 1098, al di sotto della quale sono stati rinvenuti
ipogei punici e catacombe paleocristiane, documentate dal riscontro
di alcuni arcosoli, decorati con affreschi dei quali rimane ancora,
quasi a sfidare l’incuria degli organi competenti, qualche traccia.
Il manufatto è ora in pessime condizioni anche perché alcuni anni
fa, in prospettiva di un irrealizzato restauro venne asportato
l’intonaco delle pareti ormai ricoperte di muffa.
“…ma questa chiesa
minaccia ruina!”,
sembra abbia detto Padre Nicola Biancardi, Rettore del “Collegio
novo di Palermo” e abate di Santa Maria della Grotta. Poco tempo
dopo aver pronunciato quella frase “… l’anno 1712 buttato a terra
il tetto, che era di massiccia e viva pietra, si formò nella
medesima grotta il presente sontuoso tempio” (F. Genna 1916 pag.
73).
Il progetto del nuovo edificio venne affidato al giovane
“reverendi sacerdoti Don Joanni Amico, architetto civitatis Drepani”.
Iniziati i lavori, i “magistri pirriatores huius antiquae urbis
Marsalae..” dovevano tagliare per linea perpendicolare “li
lati della chiesa a larghezza di 38 palmi e il cappellone a
larghezza di palmi 28”. I dieci mastri cavarono quella parte del
banco roccioso che copriva la grotta e modellarono le pareti con
opportune rasature. I lavori di finitura si conclusero il 31 agosto
1715, in tempo per la festa della Madonna, che si celebrava l’8
settembre, in memoria della conquista normanna di Marsala, avvenuta
secondo quanto riporta F. Genna l’8 settembre 1072. In seguito
Christophorus Fica e Marius Pisano costruirono la cupola, per
aggiungere un’ulteriore fonte di luce, e “tirarono sopra il
recinto della facciata di fuori della chiesa un cornicione e di
sopra una balagustra”.
Nella navata si può ancora vedere qualche traccia del pavimento del
secolo XV-XVI. Nello strato di livellamento utile alla
pavimentazione sono state ritrovate tre lucerne con la
rappresentazione della "menorah", candelabro a sette bracci che
testimonia come gli ingrottati nel tardo antico, fossero
frequentati, oltre che dai cristiani, anche dalla comunità ebraica
esistente in Lilibeo. È interessante notare che dietro la cripta si
trova un ambulacro ipogeico ad anello che comunica tramite percorsi
sotterranei con gli ingrottati B, C, D. Sulle pareti di questo
ambulacro si trova un lucernario ed un affresco assieme ad alcune
tracce lasciate dalla cavazione di tufi.
A metà aula sono venute alla luce alcune tombe ed un ossario
databili tra il XIII e il XVII secolo.
L'aula è ad una sola navata scandita da quattro archi, due per
ciascun lato. Il ramo della grotta trasformato in navata non venne
ingrandito, la porta di accesso rimase nella posizione precedente e
al di sopra venne ricavato un occhio come fonte di luce. La facciata
della chiesa venne realizzata come una pausa intonacata inserita
nella compagine rocciosa. La nicchia che conteneva la statua della
Vergine venne rialzata e al di sotto venne costruito un altare.
Verso il 1072 fu costruita una scala, a rampe spezzate, calata entro
la latomia, quest'ultimo intervento fece perdere l'originaria
funzione alla torre normanna che venne utilizzata come campanile.
Ingrottato B
L’ipogeo settentrionale è costituito da 3 vani quadrangolari di
piccole dimensioni e da un gruppo di ambienti più a nord, posti ad
una quota più alta ed accessibili attraverso tre rampe di scale.
L’ambiente B, doveva essere all’origine di forma rettangolare, forse
nel tempo vi fu scavata ad ovest una nicchia dove si trova
l’affresco del Martirio di Santo Stefano. A questo primo vano segue
uno spazio in cui si trovano tre altari minori ed i più
significativi affreschi: Teoria di Santi, San Demetrio, La Vergine
col bambino.
Il vano in fondo retrostante l’iconostasi del XV
secolo, nato da una suddivisione dell’ambiente originariamente
unitario, è stato sottratto alla zona dei riti liturgici, in esso
sono presenti un altare ricavato nella roccia, alcuni affreschi non
più leggibili ed un arcosolio paleocristiano sigillato nel XIII
secolo e usato come ossario, e un lucernario.
L’altezza dell’ingrottato B è superiore rispetto a quella degli
altri due ingrottati C e D. Alcuni fori, per l’alloggiamento di
travi, rinvenuti nelle pareti, hanno confermato l’esistenza di un
ambiente che occupava la metà superiore dell’ingrottato, forse un
dormitorio comune esistente nel V secolo; l’altezza dell’iconostasi
dell’ingrottato si arresta all’altezza del solaio ligneo. L’area B
comunica con quella meridionale attraverso la zona presbiteriale
della chiesa, che è delimitata da un ambulacro ipogeico ad anello,
nel quale si trova un arcosolio.
Ingrottato C
Gli ingrottati C e D hanno una forma irregolare che si sviluppa ad
L; l’ultimo vano dell’ipogeo, sulla parete est, presenta una scala
di accesso, quattro ipogei punici e tre arcosoli paleocristiani.
L’ingrottato C presenta alcuni ipogei punici, nell’angolo sud due
arcosoli di grandi dimensioni ed infine un altro arcosolio
utilizzato per una sepoltura multipla. Gli arcosoli rinvenuti,
costituiscono una preziosa testimonianza della composita
organizzazione dei complessi funerari cristiani, databili al V
secolo, dislocati entro un luogo riservato, riusato in età normanna
e sveva come luogo di culto. Nello stesso ingrottato sono stati
rinvenuti materiali che lasciano supporre scambi commerciali con la
Tunisia e la Campania, oltre a bicchieri, bottiglie e lucerne,
utilizzati per il culto e di produzione locale.
Ingrottato D
L’ingrottato D è stato recentemente liberato dai detriti
accumulatisi nel tempo, si tratta di un vano interamente
pavimentato, fatta eccezione per un angolo in cui era un piccolo
ambiente armadio, esso è collegato all’ambiente C attraverso un
corridoio scavato nella roccia, nel quale è ancora visibile un
altare policromo.
Torre
La torre parallelepipeda, decorata con arcate cieche a rincasso, fu
costruita tra il XI e XII secolo per segnalare ai fedeli l’accesso
al sotterraneo santuario, il quale si raggiungeva da Porta Mazara,
imboccando la via scandita dalla presenza di sette cappellette, con
i misteri delle sette festività della Vergine, realizzate forse alla
fine del XVI sec. Si arrivava, attraverso questo percorso, alla
torre presso la quale ogni anno, per due giorni, si svolgeva la
“feria delle Rogazioni” in occasione della processione solenne in
onore della Vergine. Esaurite le sue funzioni di accesso alle
grotte, con l’aggiunta di due pilastri a vela raccordati con volute
tardo-barocche al suo coronamento, la torre fu trasformata in torre
campanaria. Nel XIX secolo fu ampliata per realizzare un piccolo
alloggio di custodia.
6.
Conclusioni
La chiesa di Santa Maria della Grotta è ancora oggi lasciata in uno
stato di assoluto abbandono.
Costruzioni imponenti vanno sorgendo nell’area deprivando il
contesto dei suoi tratti peculiari. Abusata da vandali, trasformata
in ovile da alcuni pastori, è stata scelta dagli scaricatori come
luogo per accogliere gli sfabbricidi delle demolizioni della città.
Il terremoto del 1968 e le piogge del 1976 hanno causato diversi
crolli, la balaustra del coronamento è stata trafugata, la torre
normanna, dopo aver annunciato per anni il proprio collasso, è
crollata nel 1978. Il trascorrere del tempo e gli atti vandalici
hanno fatto il resto.
Nonostante tutto, l’area rimane ancora oggi una preziosa
testimonianza sia del patrimonio archeologico, storico-artistico e
culturale di Marsala, sia della “sensibilità” e della sollecitudine
con le quali gli organi deputati alla conservazione e valorizzazione
del nostro patrimonio attendono ai loro compiti.
Passeggia nella Grotta
http://www2.comune.marsala.tp.it/marsala_tour/flash/grotta_01.html
Bibliografia
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R. Bonacasa Carra, L’archeologia cristiana nella Sicilia
occidentale, BCA Sicilia, V, 3-4 1984
-
R. Giglio, Lilibeo, nuove scoperte archeologiche nell’area di
santa Maria della Grotta, SicA, XXX 1997
-
E. Caruso, Santa Maria della Grotta, Murex, Marsala, 1998
-
I. Valente - B. Bechtold, Recenti scavi nella necropoli punica
di Lilibeo in Atti delle giornate internazionali Studi sull’area
Elima, Pisa–Gibellina, 1992
-
A. Di Stefano, Scoperte nella necropoli punica di Lilibeo,
Kokalos, XX, 1974
Testo ed
immagini di Rosa Casano Del Puglia. Riproduzione, anche parziale,
vietata.
Pubblicato dal Portale del Sud nel mese di maggio dell'anno 2012 |