È questo un altro notevole
exploit del binomio Costa-Di Giacomo presentato alla Piedigrotta del
1887. Il tema della canzone, di carattere militarista è
particolarmente congeniale agli anni che sta vivendo l’Italia: il
paese è impegnato nella guerra d’Eritrea e proprio nel 1887 c’è la
disfatta di Dogali. C’è quindi necessità di una forte propaganda
militarista, bisogna esaltare i valori della patria, dell’eroismo,
del sacrificio. E Di Giacomo annusa il vento che tira e si adegua.
Ma, forse, conformista e benpensante quale egli è forse crede pure
in quanto afferma. La canzone diventa presto il motivo eseguito dai
soldati e per i soldati che si imbarcano per andare a fare la guerra
in Africa
Malgrado il successo della
canzone, il testo poetico risulta esile e prevedibile. In esso si
parla di un coscritto accasermato che, il giorno prima della
partenza per il fronte, esprime alla sua amata il dolore per la
separazione. Deve anche tranquillizzare la ragazza riguardo le
dicerie della gente secondo le quali egli, una volta lontano, la
dimenticherà. Le promette poi che tornerà con una medaglia e,
nell'attesa, le lascia il cuore come pegno d'amore. Le promesse e le
raccomandazioni andrebbero per le lunghe se i perentori squilli
della tromba che annunciano la ritirata, cioè il rientro in caserma
dopo la libera uscita, non troncassero l'addio. Come si vede Di
Giacomo non riesce a fare a meno del semplicismo ingenuo imperante,
diventato ormai di maniera, e lo ripropone senza imbarazzo la prima
volta che affronta un tema «militare». Il poeta accoglie gli ingenui
(ma subdoli) luoghi comuni abusati in altre canzoni militari: il
soldato che virilmente saluta la sua amata il giorno prima di
partire per la guerra dalla quale spera logicamente di ritornare
decorato, la medaglia che costituisce un valore al quale aspirare
prima ancora della vita, il senso del dovere, ecc.
Per comprendere perché Di
Giacomo si sia lasciato tentare da questa materia bisogna fare una
lunga digressione.
Prima dell'unità d'Italia si
trovano pochissime a canzoni napoletane che trattano il tema
militare: il popolo napoletano da sempre in balia delle peggiori
soldataglie straniere, sia europee che turche, e privo quasi sempre
di un esercito proprio non ama di certo i soldati né si sente
particolarmente attratto dalla vita militare. Le cose non cambiano
neanche quando, in epoca borbonica, l'esercito viene formato con
milizie locali. Dopo l'unità d'Italia il nuovo stato si trova di
fronte al difficile compito di creare uno spirito nazionale e di
dover far accettare a tutti i meridionali quei “piemontesi” che sono
venuti a comandare in casa loro senza una reale comprensione dei
problemi del territorio e con la preoccupazione principale di non
intaccare gli interessi del nord e le lobby di potere. E tale
obiettivo è tanto più urgente in quanto nel Sud si è da poco
conclusa nel sangue una guerra civile, un'insurrezione politica e
sociale, che il governo ha cercato di dissimulare usando l'etichetta
di brigantaggio ma che in realtà è stata una guerra contro i
contadini del sud.
Il nuovo Stato, nato con la
forza, mette perciò grande impegno nel progetto di educare i
neoitaliani al culto della patria e per fare ciò si serve
soprattutto delle scuole e delle caserme. L’impegno contro
l’analfabetismo al di là delle frasi retoriche sull’obiettivo della
crescita civile e democratica dei cittadini ha un obiettivo meno
nobile e per niente nascosto, decisamente più utilitaristico per il
nuovo stato: la scuola deve porsi centro di diffusione della lingua
unitaria e dell’idea di appartenenza allo stato nazionale ed essere
sede dell’idealismo etico unitario, la scuola deve porsi anche come
luogo privilegiato per la creazione e diffusione dei nuovi miti:
consacrare gli «apostoli» dell’unità nazionale (Cavour, Garibaldi,
Mameli, …). In quest’ottica, come si fa con i santi, si provvede ad
immortalare questi nuovi eroi nella pietra dei monumenti: in tal
modo il neonato stato cerca, autocelebrandosi, la propria
legittimazione. Un’impostazione in parte laica della scuola (e dello
stato) risulta utile per sostenere quella linea di pensiero che
possa far accettare a un popolo pressoché interamente cattolico e
per niente secolarizzato, la cancellazione dello Stato Pontificio,
gli espropri di fabbricati conventuali, la soppressione di alcuni
ordini religiosi.
Ma più ancora che alla
scuola il compito di cementare il paese viene affidato al servizio
militare obbligatorio. Si stabilisce di organizzare la leva su una
durata di cinque anni (ridotti poi, nel 1876, a tre) mescolando
reclute provenienti da diverse regioni da addestrare in luoghi
distanti da casa.
La
coscrizione obbligatoria ha l’effetto di far mutare, pian piano, i
sentimenti dei napoletani e, più in generale, dei meridionali verso
i soldati. Nell’esercito ci sono i propri figli, i propri fratelli,
i propri parenti e amici, la parte più giovane e vitale del proprio
quartiere, del proprio borgo. Inoltre intorno ai soldati ruota una
propaganda martellante tesa a rivestire l’esercito di un’aura di
prestigio, a renderlo paladino della difesa del «sacro suolo» della
Patria, dell’«onore della Nazione», dell’avvenire e della sicurezza
del popolo italiano. I risultati migliori, però, si hanno con i
giovani coscritti che, spesso analfabeti e privi di autonomia
critica e sradicati dalle proprie origini sociali e territoriali,
diventano oggetto di un vero e proprio lavaggio del cervello mirato
a trasformarli in esecutori fedeli di qualsiasi tipo di ordine e in
assertori convinti di roboanti modelli retorici intrisi di patria,
onore, eroismo, dovere. Non c’è perciò da meravigliarsi se tanti
giovani meridionali cominciano a riconoscersi nel nuovo corso
politico e si convincano che i nuovi padroni non sono altro che i
fratelli venuti a liberarli dal giogo borbonico (!), convincimento
che porteranno poi con sé e diffonderanno una volta congedati.
Il nuovo
stato, però, non si accontenta della raggiunta unità, vuole anche il
prestigio internazionale derivante dal proporsi quale potenza
militare e sancito dal possesso di colonie. Secondo la propaganda
gli italiani, rispetto ad altri popoli, sono portatori di
superiorità razziale e culturale e perciò sono chiamati alla
missione di assoggettare le razze inferiori per poterle
educare e civilizzare: la guerra si giustifica così con presunti
«scopi umanitari», con una «missione civilizzatrice» dell’Italia.
L’ironia della situazione sta nel fatto che i meridionali, ritenuti
“inferiori” dai piemontesi vincitori, sono adesso chiamati a
combattere in Africa per portare il “progresso” ad altri
“inferiori”.
Il
possesso di una colonia comporta, però, un’enorme sperpero di danaro
pubblico in una situazione tra l’altro di notevoli ristrettezze
economiche per la nazione: bisogna armare e mantenere un esercito in
territori molto distanti e poi bisogna costruire nei luoghi
conquistati le infrastrutture (strade, porti, ferrovie) necessarie
per sostenere l’esercito e permettere il successivo sfruttamento del
territorio. Si capirà che il ritorno economico di una tale impresa
non copre le spese sostenute per realizzarla: il gioco non vale la
candela e ciò verrà confermato anche dalle successive statistiche
secondo le quali soltanto l'1% degli emigranti italiani sceglie come
meta le colonie d’Africa contro il 40% che invece preferisce
l’America. A tutto ciò si aggiungeranno le difficoltà e gli
insuccessi che la propaganda si sforzerà di coprire costruendo il
mito
dell'eroismo dei soldati italiani.
In definitiva alla base
delle guerre coloniali italiane ci sono motivazioni ideologiche e
politiche e non, come si potrebbe pensare, economiche: a spingere
all’impresa è solo la ricerca del prestigio, della superiorità
geopolitica, l’ostentazione della potenza militare. Sono ragioni,
però, che non tengono in alcun conto del fatto che costruire strade
e ferrovie in Africa rappresenti soprattutto uno schiaffo morale per
il meridione che aspetta inutilmente da anni tali opere.
Allora per far apparire
moralmente giuste scelte politiche quali la guerra, per coprire i
giochi di potere e creare un sentimento solidale nella nazione non
può bastare il lavoro sulle nuove generazioni (scuola e caserme)
occorre anche una notevole propaganda sul territorio: perciò si dà
molto rilievo alle cerimonie pubbliche e alle parate militari, si
istituiscono nuove festività nazionali da affiancare alle festività
religiose (in parte soppresse), si cambia la denominazione di
istituzioni culturali, scientifiche e la toponomastica cittadina in
senso patriottico, celebrando i Savoia e gli antiborbonici e
contemporaneamente si punta a cancellare la memoria storica dei
meridionali vinti. In quest'opera, le classi colte locali, per
acquiescenza o per adulazione, si mostrano più sabaude degli stessi
piemontesi.
È evidente poi che in una
situazione di assenza di mass media e di analfabetismo
diffuso la canzone rappresenti un ottimo mezzo di promozione per la
nascente nuova mitologia nazionale. Ecco, perciò, grandi bande
militari e piccole bande di paese intonare in gran parata e un po’
dappertutto La Marcia reale, il Canto degli Italiani,
o altre canzoni del Risorgimento. Questa propaganda diventa così
capillare e persuasiva da far vedere a molti nei soldati
dell'esercito sabaudo i liberatori che hanno salvato il meridione
dalla minaccia dei briganti. In questa ottica i soldati morti
nel corso di azioni contro i “briganti” vengono proclamati eroi
mentre i contadini caduti resistendo ai nuovi padroni vengono
definiti “banditi”.
Dopo
diversi anni di questa “educazione nazionale” e di questa
“nazionalizzazione delle masse” cominciano a cambiare i sentimenti
dei napoletani verso i soldati non più (a giusta ragione) temuti ed
odiati, ma visti ora come fratelli, figli, mariti, amanti. Di
conseguenza si assiste ad una vera e propria esplosione di poesie
vernacolari e di canzoni dedicate ai soldati che sfruttano il
momento particolarmente favorevole a questo tipo di produzione. Si
tratta di composizioni di modesto livello, senza alcuna eccezione,
incapaci come sono di staccarsi da quella retorica imperante basata
sugli abusati stereotipi di coraggio, onore, fedeltà, disciplina,
patria.
È questo
il clima in cui viene composta ’A retirata, canzone della
quale dò subito il testo.
I
Gioia bella,
pe’ te vedè
c’aggio fatto
nun può sapé!
Si putesse parlà stu core,
quanta cose vulesse dì;
ma, chiagnenno pe’ lu
dulore,
io m’’o scippo, pe’ n’’o
sentì!
Napule e nenne belle,
addio v’avimm’’a dì...
Sentite a retirata?
Ce n’avimmo da trasì!
II
Dice a gente,
parlanno ’e me,
ca si parto
mme scordo ’e te!
A ’sta gente stu core mio,
pe’ risposta, tu fa’ vedè,
e dincello ca, si part’io,
tiene mmano nu pigno ’e me.
Napule e nenne belle,
addio v’avimm’’a dì...
Sentite a retirata?
Ce n’avimmo da trasì!
III
Gioia bella,
te l’aggia dì
ca dimane
s’ha dda partì!
Statte bone, può sta sicura
c’’a medaglia voglio turna!
A stu core tiénece cura,
si nun torno nun ’o iettà!
Napule e nenne belle,
addio v’avimm’’a dì...
Sentite a retirata?
Ce n'avimmo da trasì!
‘A retirata
rappresenta per Costa un’ulteriore dimostrazione delle sue
straordinarie qualità artistiche ma non altrettanto può dirsi per Di
Giacomo. Il poeta, infatti, con questo brano confeziona un prodotto
commerciale, la canzone militare, su temi quali il dovere,
l’eroismo, il servizio per la patria, che egli non sente veramente e
dai quali è completamente estraneo, ma che pur sempre presentano il
vantaggio di non impegnare eccessivamente il momento creativo e di
essere di facile presa e facili da vendere. Vi è, infatti, una
committenza ed un tipo di produzione che trova nel mercato la sua
stessa ragione di essere, come testimonia lo stesso Di Giacomo in
una lettera a Benedetto Croce
nell’agosto 1893: «L’editore
Santojanni mi telegrafa per tre canzoni di Piedigrotta. Devo farle,
mi abbisogna danaro».
Da tali
premesse vien fuori un componimento che, pur salvandosi dalla vuota
retorica, risulta fiacco e falso perché non nasce da un effettivo
moto interiore, da una reale commozione dell’animo ma è realizzato a
freddo, secondo un programma precostituito e quale frutto di mero
tecnicismo. Il modo di trattare la partenza per la guerra,
uno dei momenti emotivamente più sentiti della vita dei militari, è
banale, scontato e privo di qualsiasi implicazione sia psicologica
che sentimentale (il soldato, si sa, ha un cuore che è grande come
il mare ma anche saldo come una roccia!), ma è formalmente ben
costruito, molto cadenzato e futilmente grazioso. Dietro la
perfezione stilistica si nasconde però una assoluta povertà di
ispirazione. La poesia del Di Giacomo, squisitamente melica e lirica
non è adatta per una narrazione epica, cioè per esaltare il
coraggio, la virilità, l’ardimento: il soldato italiano dell’epoca
postunitaria, infatti, può essere descritto solo in termini eroici
(anche per evitare biasimi, emarginazione e grane giudiziarie).
L’immagine convenzionale imposta dall’alto vuole, infatti, un milite
impavido, deciso, audace, secondo uno stereotipo che – detto per
inciso – costituisce il collante principale delle nascenti società
di massa a base nazionale. Il protagonista della canzone, in
definitiva, rappresenta un personaggio completamente diverso da
quanto è il poeta per temperamento ed inclinazioni. Perciò Di
Giacomo si trova nella condizione di non poter esprimere realmente
il proprio sentire, le proprie emozioni profonde, di non poter dare
voce alla propria natura malinconica e passionale con la conseguenza
non riuscire a nascondere la falsità di fondo del componimento.
Lo
sviluppo del testo prevede che il soldato parli in prima persona
mentre l’amata mantiene un ruolo strumentale di solo ascolto,
aderente – forse inconsapevolmente – ad una percezione ottocentesca
della donna quale creatura mentalmente inferiore e bisognosa dei
saggi consigli maschili. Di Giacomo, come in tante altre sue
canzoni, dà alla donna i tratti di un personaggio sfocato privo di
sentimenti, privo di quella pena che pure sarebbe normale in una
separazione che potrebbe preludere un addio se non addirittura una
tragedia: cosa fa la donna? piange? cerca conforto? lo raccomanda ai
santi? ... Non lo sappiamo perché questi sentimenti sono fuori luogo
in una canzone militare, un componimento “macho”. Per come è
strutturata anzi la canzone, la donna potrebbe pure non essere
presente e quanto espresso risultare semplicemente dallo scritto di
una lettera: è facile accorgersi che se il titolo dalla canzone
fosse del tipo: Lettera di saluto o simili non bisognerebbe
cambiare niente del suo contenuto.
Lo
sviluppo vivace e sapiente del discorso diretto, così intrecciato di
speranze e raccomandazioni, esclude ogni possibile descrizione o
anche solo accenno al paesaggio, una componente che, invece, ha
tanta parte in altre liriche del poeta impostate su evidenti
procedimenti pittorici. Non trova spazio nemmeno l’uso della luce
che con tanta maestria permea Marechiaro ed Era de Maggio.
A dare grazia alla poesia c’è solo l’immagine del cuore lasciato in
pegno alla ragazza pure se tale sviluppo è un po’ contradditorio in
quanto fa seguito all’affermazione
io m’’o
scippo, pe’ n’’o sentì!
: se il
protagonista si è strappato il cuore per non soffrire più, non può
nemmeno più amare. La trovata di lasciare il cuore, poi, non è
nemmeno del tutto originale sia in assoluto (è già presente nella
Capuana di G. Cottrau) che nella stessa produzione digiacomiana:
c’è già un cuore smarrito in strada in Oilì oilà e un altro
cuore sarà lasciato sempre in strada nella canzone ‘O Munasterio
dell’anno successivo. Ma mentre in Oilì oilà il “cuore” ha un
ruolo secondario, in ’A retirata, invece, è il cardine
intorno al quale si sviluppa l’intera poesia ed ancora di più lo
sarà in ’O Munasterio. L’espediente del cuore permette al
poeta di strutturare lo stereotipato personaggio maschile della
nascente nazione ottocentesca, in un uomo che associa l’essere
virile con l’essere cortese, quasi come un cavaliere
medioevale. Non è certo, però, nella poesia epica o aristocratica o
ancora accademica che dobbiamo cercare le radici di un prodotto la
cui unica ragione d’essere è squisitamente commerciale.
Il
componimento, come già visto, si articola in strofe di carattere
soggettivo nelle quali il protagonista parla in prima persona con la
sua amata. Il ritornello, invece, è impersonale e l’interlocutore si
trasforma nella la città intera e in tutte le sue donne (belle,
naturalmente): qui a parlare non è solo il protagonista ma tutti i
soldati in partenza per la guerra.
I versi
hanno ritmo, sono agili e veloci e non lasciano spazio alla
tristezza, al dolore, alla nostalgia, alla pietà e nemmeno, si badi,
all’esaltazione amorosa. Quest’ultimo punto spiega, poi, la
debolezza del componimento, perché l’assenza del trasporto amoroso
esclude proprio quel sentimento che muove buona parte della poesia
digiacomiana, quel sentimento intorno al quale l’autore fa nascere
delle autentiche gemme. Di Giacomo consapevole di tutte queste cose
escluderà questa poesia dall’ultima raccolta Ricciardi.
Se piatti
risultano i versi, brillantissima è, invece, la musica, concitata e
viva specialmente nel ritornello: ad essa si deve il successo della
canzone. È una musica orecchiabile, trascinante, coinvolgente che si
sviluppa su un tempo di marcia in 6/8 e che abbina al ritmo semplice
e regolare proprio del genere militaresco, il melodizzare tipico
della canzone allegra partenopea, il tutto reso più suggestivo dal
facile effetto emotivo della tromba che suona segnali militari.
Eppure
una musica effervescente, una marcia da circo, può sembrare fuori
luogo per un tema quale un addio (sì perché, si noti, ricorre
continuamente il termine “addio” e non invece quello di
“arrivederci” ed inoltre l’addio non è diretto solo all’amata, ma
alla città intera e a tutte le donne, quasi come se fosse un
presagio di morte). D’altra parte la drammaticità della situazione
viene chiaramente enunciata dal poeta fin dall’inizio con quel
chiagnenno pe’ lu dulore. Dietro la parola “addio”, infatti, è
facile intravedere la terribile parola “guerra”, parola della quale
Costa, presumibilmente, non deve essere troppo entusiasta visto che
ha tre fratelli ufficiali nell’esercito e, quindi, potenziali attori
di operazioni belliche. Allora, non sarebbe stata più adatta al tema
una musica patetica o drammatica? Forse sì, ma bisogna pensare che
la propaganda ha bisogno di sdrammatizzare le situazioni, di
incoraggiare i soldati e non di deprimerli, di galvanizzarli e non
di commuoverli. Il milite deve essere indotto a ragionare più o meno
in questi termini: «vado là, ammazzo un po’ di nemici, taglio
qualche testa (!), mi ricopro di onore, merito la medaglia e torno a
casa trionfante, felice e contento (come se nulla fosse accaduto) ma
anche ammirato ed osannato da tutti». È evidente che tali obiettivi
non possono prendere in considerazione una musica triste o
drammatica. Orbene, su tale presupposti Costa compone un brano di
particolare forza comunicativa che non disdegna di ricorrere ad un
uso furbesco e ruffiano dei segnali militari: questi ultimi proprio
perché conosciuti da tutti svolgono un ruolo fondamentale nel far
lievitare lo spessore e il coinvolgimento emotivo nella fruizione
della canzone. La melodia si apre, infatti, con le note della
“ritirata”, il segnale militare che dà il titolo alla canzone, e si
chiude con altri due segnali di militari, quello della “adunata” e
quello del “contrappello” (quest’ultimo eseguito sul metro di 3/4 e
in tempo di Presto). Questi inserimenti rappresentano scelte
discutibili per un musicista dello spessore di Costa, sono evidenti
cadute di stile che non nascondono la ricerca di un facile consenso.
Ma il tutto è organizzato in modo organico e non si notano
discontinuità tra le varie parti del brano. La strofa è scritta per
il cantante solita mentre il ritornello, che nei versi sembra
implicare “tutti” i soldati, è destinato al coro (maschile).
Quest’ultima cosa potrebbe sembrare un particolare irrilevante
(anche perché non tutti gli interpreti della canzone si servono del
coro) ma ha un non trascurabile effetto emozionale, capace di
esaltare il coinvolgimento degli ascoltatori.
Il
brano è un’ulteriore prova della duttilità di Costa capace di spaziare tra
generi diversi: barcarola, tarantella, marcia militare, romanza, serenata,
canzone giocosa, romantica, popolaresca, da caffè chantant, ... sempre con
grande successo anche quando, come in questo caso, manca un testo poetico di
spessore da vivificare con una melodia adatta.
Renato Gargiulo
Pubblicazione de Il Portale del Sud, gennaio 2016 |