Le Pagine di Storia

Il passaggio dell'acquedotto

La romanzesca presa di Napoli da parte di Alfonso d’Aragona

di Giovanni Amedeo [1]

Alfonso I re delle due Sicilie [re dei due Regni di Sicilia]

La storiografia tedesca, puntando alle storie universali ed alle idee guida dello sviluppo storico, ha imposto alla cultura di gran parte d'Europa, e soprattutto all'Italia, un modello per molti aspetti apprezzabile, ma con esso fatalmente si è perso il gusto narrativo del dettaglio, preziose peraltro perché rende conto dei casi fortuiti, fortunati e delle contraddizioni insite nell'agire umano.

L'idealismo ha poi spinto con particolare forza alla ricerca delle leggi della storia, vista come l'ascesa della condizione dei popoli nel tempo e per questa via non sono mancate le predeterminazioni più o meno astratte, che a volte rendono noiosissimi i libri di storia derivati da una simile impostazione. Al confronto quanto più attraenti gli empirismi di scuola inglese, che non hanno la pretesa di collegare con logica rigorosa gli eventi e finiscono per umanizzare i protagonisti della storia al modo di Tucidide e Tacito. Anche i vecchi cronisti, scevri da preoccupazioni razionalistiche, spesso ottengono un risultato analogo pur mancando d'uno stile alto. Nelle loro pagine si nota la forza delle cose, le riuscite e le sconfitte accidentali, insomma quel procedere delle varie vicende che i greci attribuivano alla volontà degli dei. Una buona prova di quanto asserito la troviamo nelle pagine dei vecchi cronisti e dei vecchi storici che narrano la presa di Napoli da parte di Alfonso d'Aragona, qui riassunta seguendoli.

La guerra di successione nel Reame, dopo la morte della regina Giovanna II, fu lunga e complessa. Infine Alfonso d'Aragona assediò Napoli, difesa da Renato d’Angiò. Ogni assedio comportava molte privazioni, e spinti dalla fame due fratelli, Aniello e Roberto, muratori di mestiere, riuscirono a evadere dalla cinta muraria e a raggiungere Aversa, dov' era il campo del re. Erano due uomini semplici privi di idee politiche, e pensarono di rendersi grati ad Alfonso rivelandogli che in Napoli si poteva entrare per l'acquedotto convogliante l'acqua di Ogliuolo: acquedotto da loro ben conosciuto per avervi lavorato. E ricordo che la sotterranea via dell' acquedotto già era servita a Belisario per entrare in Napoli durante la guerra gotica.

Il re fu lieto dell'informazione avuta dai due fratelli perché gli premeva di entrare al più presto nella città, sia per la stanchezza d'una guerra estenuante sia per il timore d'un possibile arrivo in soccorso degli assediati di Antonio Caldora e di Giovanni Sforza. Sicché comunicò subito ai suoi capitani la possibilità suggeritagli, sentendosi però rispondere che penetrare in città attraverso l'acquedotto era impresa difficilissima, mentre la fame stava mettendo in ginocchio gli angioini, che sicuramente tra poco avrebbero ceduto. Il re li ascoltò senza tralasciare l'idea d'una penetrazione a sorpresa in Napoli. Accadde poi, o che tra i catalani se ne fosse troppo parlato o che non mancassero spie, che Renato d'Angiò seppe dell'accaduto e diede subito ordine di sbarrare l'acquedotto. Ordine seguito creando tre grossi muri con robuste cancellate per far passare l'acqua. Tuttavia nel mese di giugno del 1442 un plotone di catalani formato da 200 uomini guidato dai due muratori entrò nell'acquedotto per una cisterna fuori le mura. Avevano l'ordine di dare il segnale una volta tra le case: allora Alfonso avrebbe condotto il suo esercito all'assalto risolutivo. Tutto fu predisposto affinché il piano riuscisse, ma il segnale tardò, ed Alfonso, credendolo fallito, fece ritirare i suoi, con gran giubilo dei difensori, che vedendo tornare sulle sue posizioni il nemico, ritennero che quel giorno non si sarebbe combattuto, il che comportò un allentamento della vigilanza.

I muri e le sbarre dell'acquedotto erano stati la causa del ritardato segnale. Infine superato l'ostacolo il plotone dei 200 giunse in un pozzo nei pressi di Santa Sofia, sbucato dal quale si trovò nel cortile di una casa dove c'erano una vecchia con la figlia. La prima si allarmò, ma la giovane si mostrò amica. L'improvviso arrivo del figlio della vecchia però creò scompiglio, perché scappando segnalò la presenza del nemico in città. Vedendosi scoperti i catalani fuggirono verso le mura sperando di scavalcarle, ma le trovarono talmente mal guardate che tentarono di aprire una porta, senza riuscirvi. Videro pure una torre di debole presidio e saliti sopra vi piantarono lo stendardo aragonese. Informato di quanto stava accadendo, Renato d'Angiò raggiunse la porta di Santa Sofia - era l'alba -con una mano d'armati e incalzò gli invasori, uccidendone non pochi con la propria spada. Reazione tardiva: gli assedianti si erano mossi con grande rapidità ponendo le scale alle mura; era l'assalto generale, con l'affanno, la paura e la confusione che fatalmente portava. Ad accrescere il trambusto contribuì un episodio che aggiunto ai precedenti, ben rende la molteplicità dei fatti da cui nasce un evento. Accadde, mentre la battaglia sulle mura infuriava, che un cavallo non si sagome e dove preso a un catalano convinse il d'Angiò della presenza in città della cavalleria nemica. Come se ciò non bastasse, con un infittirsi del gioco degli equivoci che dà risvolti comici a quell'ora tragica, 300 genovesi che guardavano la Porta di San Gennaro, udito che gli aragonesi erano entrati e temendoli per l'odio grande che v’era tra loro, abbandonarono la porta e si rifugiarono in Castel Nuovo.

Nei pressi della Porta di San Gennaro vi era un convento di monache, le quali, vista la fuga dei genovesi e avendo tra i soldati di fuori parenti e fratelli, segnalarono che la porta era indifesa. 400 catalani comandati dall'animoso Pietro Cadorna raccolsero il segnale e toccò loro una seconda fortuna: un individuo dallo strano nome di Spiccicacaso gettò dalle mura loro una corda. E fu allora la disfatta degli angioini, con lo sfondamento di Porta Santa Sofia ed il dilagare per la città degli assedianti.

Per quattro ore Napoli subì il saccheggio, finché, pena la morte ai disobbedienti, Alfonso lo fermò. Era il 12 giugno 1442: la partita con Renato d'Angiò era chiusa, e questi, ritiratosi in Castelnuovo dopo la sconfitta, senza più prospettive, il giorno dopo prese mestamente il mare su una nave genovese.


[1] Tratto da “La Repubblica”, ed. 19 agosto 2007, pagg. I-VIII

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