La
storiografia tedesca, puntando alle storie universali ed alle idee
guida dello sviluppo storico, ha imposto alla cultura di gran parte
d'Europa, e soprattutto all'Italia, un modello per molti aspetti
apprezzabile, ma con esso fatalmente si è perso il gusto narrativo
del dettaglio, preziose peraltro perché rende conto dei casi
fortuiti, fortunati e delle contraddizioni insite nell'agire umano.
L'idealismo ha poi spinto con particolare forza alla ricerca delle
leggi della storia, vista come l'ascesa della condizione dei popoli
nel tempo e per questa via non sono mancate le predeterminazioni più
o meno astratte, che a volte rendono noiosissimi i libri di storia
derivati da una simile impostazione. Al confronto quanto più
attraenti gli empirismi di scuola inglese, che non hanno la pretesa
di collegare con logica rigorosa gli eventi e finiscono per
umanizzare i protagonisti della storia al modo di Tucidide e Tacito.
Anche i vecchi cronisti, scevri da preoccupazioni razionalistiche,
spesso ottengono un risultato analogo pur mancando d'uno stile alto.
Nelle loro pagine si nota la forza delle cose, le riuscite e le
sconfitte accidentali, insomma quel procedere delle varie vicende
che i greci attribuivano alla volontà degli dei. Una buona prova di
quanto asserito la troviamo nelle pagine dei vecchi cronisti e dei
vecchi storici che narrano la presa di Napoli da parte di Alfonso
d'Aragona, qui riassunta seguendoli.
La
guerra di successione nel Reame, dopo la morte della regina Giovanna
II, fu lunga e complessa. Infine Alfonso d'Aragona assediò Napoli,
difesa da Renato d’Angiò. Ogni assedio comportava molte privazioni,
e spinti dalla fame due fratelli, Aniello e Roberto, muratori di
mestiere, riuscirono a evadere dalla cinta muraria e a raggiungere
Aversa, dov' era il campo del re. Erano due uomini semplici privi di
idee politiche, e pensarono di rendersi grati ad Alfonso
rivelandogli che in Napoli si poteva entrare per l'acquedotto
convogliante l'acqua di Ogliuolo: acquedotto da loro ben conosciuto
per avervi lavorato. E ricordo che la sotterranea via dell'
acquedotto già era servita a Belisario per entrare in Napoli durante
la guerra gotica.
Il
re fu lieto dell'informazione avuta dai due fratelli perché gli
premeva di entrare al più presto nella città, sia per la stanchezza
d'una guerra estenuante sia per il timore d'un possibile arrivo in
soccorso degli assediati di Antonio Caldora e di Giovanni Sforza.
Sicché comunicò subito ai suoi capitani la possibilità suggeritagli,
sentendosi però rispondere che penetrare in città attraverso
l'acquedotto era impresa difficilissima, mentre la fame stava
mettendo in ginocchio gli angioini, che sicuramente tra poco
avrebbero ceduto. Il re li ascoltò senza tralasciare l'idea d'una
penetrazione a sorpresa in Napoli. Accadde poi, o che tra i catalani
se ne fosse troppo parlato o che non mancassero spie, che Renato
d'Angiò seppe dell'accaduto e diede subito ordine di sbarrare
l'acquedotto. Ordine seguito creando tre grossi muri con robuste
cancellate per far passare l'acqua. Tuttavia nel mese di giugno del
1442 un plotone di catalani formato da 200 uomini guidato dai due
muratori entrò nell'acquedotto per una cisterna fuori le mura.
Avevano l'ordine di dare il segnale una volta tra le case: allora
Alfonso avrebbe condotto il suo esercito all'assalto risolutivo.
Tutto fu predisposto affinché il piano riuscisse, ma il segnale
tardò, ed Alfonso, credendolo fallito, fece ritirare i suoi, con
gran giubilo dei difensori, che vedendo tornare sulle sue posizioni
il nemico, ritennero che quel giorno non si sarebbe combattuto, il
che comportò un allentamento della vigilanza.
I
muri e le sbarre dell'acquedotto erano stati la causa del ritardato
segnale. Infine superato l'ostacolo il plotone dei 200 giunse in un
pozzo nei pressi di Santa Sofia, sbucato dal quale si trovò nel
cortile di una casa dove c'erano una vecchia con la figlia. La prima
si allarmò, ma la giovane si mostrò amica. L'improvviso arrivo del
figlio della vecchia però creò scompiglio, perché scappando segnalò
la presenza del nemico in città. Vedendosi scoperti i catalani
fuggirono verso le mura sperando di scavalcarle, ma le trovarono
talmente mal guardate che tentarono di aprire una porta, senza
riuscirvi. Videro pure una torre di debole presidio e saliti sopra
vi piantarono lo stendardo aragonese. Informato di quanto stava
accadendo, Renato d'Angiò raggiunse la porta di Santa Sofia - era
l'alba -con una mano d'armati e incalzò gli invasori, uccidendone
non pochi con la propria spada. Reazione tardiva: gli assedianti si
erano mossi con grande rapidità ponendo le scale alle mura; era
l'assalto generale, con l'affanno, la paura e la confusione che
fatalmente portava. Ad accrescere il trambusto contribuì un episodio
che aggiunto ai precedenti, ben rende la molteplicità dei fatti da
cui nasce un evento. Accadde, mentre la battaglia sulle mura
infuriava, che un cavallo non si sagome e dove preso a un catalano
convinse il d'Angiò della presenza in città della cavalleria nemica.
Come se ciò non bastasse, con un infittirsi del gioco degli equivoci
che dà risvolti comici a quell'ora tragica, 300 genovesi che
guardavano la Porta di San Gennaro, udito che gli aragonesi erano
entrati e temendoli per l'odio grande che v’era tra loro,
abbandonarono la porta e si rifugiarono in Castel Nuovo.
Nei pressi della Porta di San Gennaro vi era un convento di monache,
le quali, vista la fuga dei genovesi e avendo tra i soldati di fuori
parenti e fratelli, segnalarono che la porta era indifesa. 400
catalani comandati dall'animoso Pietro Cadorna raccolsero il segnale
e toccò loro una seconda fortuna: un individuo dallo strano nome di
Spiccicacaso gettò dalle mura loro una corda. E fu allora la
disfatta degli angioini, con lo sfondamento di Porta Santa Sofia ed
il dilagare per la città degli assedianti.
Per quattro ore Napoli subì il saccheggio, finché, pena la morte ai
disobbedienti, Alfonso lo fermò. Era il 12 giugno 1442: la partita
con Renato d'Angiò era chiusa, e questi, ritiratosi in Castelnuovo
dopo la sconfitta, senza più prospettive, il giorno dopo prese
mestamente il mare su una nave genovese.