Questo
libro non vuole, in nessun modo, essere un saggio
storico ma solo la rappresentazione di una storia, di
tradizione orale, consumatasi, per la parte centrale,
nell’arco di circa tre mesi. Gli avvenimenti che
corredano il nucleo della vicenda sono invece tutti
storicamente accertati e documentati. Altresì non vi è
alcun’intenzione di dare giudizi compiuti sui fatti
intervenuti nel meridione d’Italia in quei drammatici
anni della seconda metà dell’Ottocento, soltanto
l’occasione di offrire, attraverso un racconto, la
parziale e forzatamente schematica visione della
tragedia vissuta dal popolo di quelle terre.
Il 10
gennaio 1859 Vittorio Emanuele II di Savoia, re del
Piemonte, intervenendo ad una seduta del parlamento
torinese, con buona dose di retorica e per nascondere le
sue mire espansionistiche, va a proclamare che da
molteplici popolazioni italiane si è levato “un grido di
dolore”che chiede la liberazione da tutti i regnanti in
carica, nonché la conseguente unione di tali “addolorati
popoli” al piccolo regno sabaudo. In sintesi, il re,
dietro il paravento di tanto belle ed accorate parole,
nella realtà sta annunciando l’avvio delle operazioni
offensive per realizzare un progetto ambizioso che
affonda le sue radici in Inghilterra dove, il progetto,
ha avuto una sua lunga ed elaborata preparazione da
parte di Lord Palmerston, ministro della regina Vittoria
e alto iniziato della massoneria.
Infatti
la massoneria inglese, con a capo mister Albert Pike, da
oltre una decina di anni, aveva deciso di porre in
cantiere un’operazione audace che doveva portare
l’Inghilterra, per fini espansionistici e commerciali, a
possedere un affaccio privilegiato sul Mediterraneo; non
a caso in ballo v’erano due ottime ragioni: l’affare del
prezioso zolfo siciliano e, procedendo i lavori, la
prossima apertura presso Suez di un canale che diveniva
d’importanza strategica per i commerci con il Medio
Oriente.
Cosa
v’era, dunque, di meglio della Sicilia? Nulla! Solo che
la Sicilia non apparteneva a loro ma al Borbone.
Aggiungasi che verso questa casa regnante la massoneria
inglese aveva un vecchio conto in sospeso di tipo, per
così dire “sentimentale”, riguardante una repressione
portata con decisione avanti, proprio da un re Borbone,
fra il ’25 e il ’30, contro i fratelli siciliani.
Pertanto i motivi c’erano tutti, occorreva solo trovare
il sistema per mettere, come si suol dire,”un piede in
Sicilia”. Per l’attuazione di tale non facile disegno
occorreva, dunque, quale esigenza prioritaria,
assicurare il predominio, in quell’area, ad uno stato
laico e amico che fosse soprattutto libero da sudditanze
con la Chiesa Cattolica. In forza di questa logica,
tolta la cattolica Austria, l’altrettanto cattolico
Granducato di Toscana e il Regno delle Due Sicilie e
tolto, ovviamente, lo Stato Pontificio, per esclusione
la scelta non poteva che cadere sul Regno del Piemonte
che, tra l’altro, e ciò era fondamentale, risultava
aderente alla massoneria. Una volta individuata nei
Savoia la casa regnante alla quale concedere l’appoggio
per la realizzazione del progetto, non restava che
consigliare al re di ammantare il progetto medesimo di
spinte idealistiche, tutte riconducibili
all’inderogabile esigenza di effettuare l’unità
nazionale. Di qui il comodo e quanto mai opportuno
“grido di dolore”, generosamente raccolto e con fremente
passione denunciato da re Vittorio. In pratica il grido
serviva a giustificare… l’ingiustificabile apertura
delle ostilità avverso gli altri pacifici Stati italiani
onde determinare, con la progressiva annessione degli
stessi al Regno del Piemonte, la realizzazione del
famoso progetto, tanto caro agli inglesi e ancor più
caro ai Savoia, i cui fini erano del tutto meramente
economici e per i soli gonzi… idealistici.
Un primo
e fondamentale strumento di lotta venne subito
individuato in un’abile propaganda negativa che,
affiancata ad azioni di disturbo effettuate a cura di
agitatori di professione e da una serie di inviati
“molto speciali”, doveva rappresentare in Europa il
presupposto stato deplorevole delle popolazioni italiane
le quali, non avendo la ventura di essere governate da
un regno illuminato, quale ad esempio quello dei “buoni”
Savoia, soffrivano mille e atroci pene.
Nonostante l’ottima “orchestrazione” intervenuta per
supportare simile propagandistica iniziativa, la
“commozione europea” stentava a decollare. Alle menti
dell’organizzazione non restò, allora, che chiamare a
raccolta tutti gli altri esponenti della massoneria
presenti in Europa, alcuni dei quali già da tempo
impegnati nel progetto, al fine di unitamente decidere
“l’esser scoccata l’ora” di dare la determinante
“spallata”, o meglio l’affondo, per sconvolgere il Sud.
La “bella” unione avrebbe consentito la vittoria al più
impegnato dei fratelli massonici: il conte Camillo Benso
di Cavour, creatore della struttura massonica in Torino
denominata “Società Nazionale”. All’appello della loggia
inglese risposero, chi per amore e chi per dovere, in
tanti ma soprattutto si trovarono belli e pronti due
“guerrafondai da niente”: Giuseppe Mazzini e Giuseppe
Garibaldi. Essi, in modi diversi, il primo pontificando
sui valori della libertà della povera Italia, ma
restando a tavolino nella comoda Inghilterra, e l’altro
correndo sulle italiche sponde, aduso com’era e per
mestiere, a “rompere letteralmente l’anima” ovunque ci
fosse odore di agitazione, s’impegnarono gagliardamente
alla “bisogna” di unire chi non aveva mai chiesto di
essere unito. Oltre ai citati “padri risorgimentali”
dové rispondere, purtroppo, all’appello un altro
affiliato di rango che rispondeva al nome di Napoleone
III, imperatore dei francesi il quale, però, spesso
risultava “in sonno”. A svegliarlo ci pensò un ben
programmato attentato che, senza fargli troppo male,
doveva rappresentare un utile avvertimento. Il buon
Napoleone capì la “sonata” e contrariando le idee della
cattolicissima moglie, l’imperatrice Eugenia, volente o
nolente, si vide costretto a rispondere alla famosa
chiamata. Senza con questo nulla voler togliere ai
meriti della seducente Nicchia (la contessa di
Castiglione) che erasi, in pieno senso letterale,“tutta”
impegnata a convincere l’Imperatore circa la bontà
dell’unificazione italiana fu, in effetti, il potere
della “fratellanza” che indusse realmente il
recalcitrante Bonaparte a sostenere le mire dell’odioso
“vicino” re sabaudo che, a detta del francese, stava
proprio esagerando. Infatti, passi per gli altri
staterelli italiani ma, addirittura annettersi il
rilevante e pingue “Regno delle Due Sicilie” era impresa
da “far tremare i polsi”.
Un dubbio
del genere, per onore del vero, oltre che all’imperatore
francese, era venuto anche allo stratega politico dei
Savoia – Cavour – che, ritenendo, anch’egli, alquanto
impraticabile la citata impresa, fu assalito, in modo a
lui non consueto, da una serie di remore. All’esperto
politico non sfuggivano due significanti particolari che
poco deponevano a favore dell’impresa: l’enormità del
solo voler sperare nella conquista di uno stato solido e
ricco come il regno del meridione e la considerazione
morale (ma era l’argomento che meno lo affliggeva) della
stretta parentela tra l’erede Francesco di Borbone, la
cui defunta madre – Cristina – era una Savoia, e il
regnante Vittorio Emanuele.
Fu allora
che il primo ministro, forse per crearsi un alibi o
cavarsi d’impaccio, offrì al Borbone di dare vita ad una
confederazione tra nord e Sud. La proposta, notevolmente
saggia... ammesso che fosse verace, non andò in porto
per una certa diffidenza del re borbonico nei confronti
dei Savoia e inoltre perché, in essa, era adombrata una
inevitabile limitazione del potere temporale del papa,
cosa che ripugnava al cattolicissimo Borbone. Caduto
così il progetto confederativo, a Cavour non restò che
procedere sulla via tracciata, ancorché pericolosa, dai
“fratelli” inglesi ed iniziare quella che lui prevedeva,
a ragione, la difficile conquista del meridione, oltre
che delle restanti terre italiane.
Dal 1856
al 1859 nelle città del nord dell’Italia, fomentate
dalla setta segreta che faceva capo a Mazzini e
denominata “Giovine Italia”, scoppiarono violente
sommosse, e nell’aprile del ’59 il granduca di Toscana
fu costretto ad abbandonare il trono.
Il 28
aprile del 1859 l’Austria dichiara guerra al Piemonte,
guerra che viene vinta dal re sabaudo grazie al
consistente intervento della Francia e che si conclude,
poi, con la cessione al regno dei Savoia della
Lombardia. In pratica il fortunato Vittorio Emanuele
ebbe ciò che nel ’49 sfuggì al tentennante padre, Carlo
Alberto.
Con un
plebiscito, sapientemente gestito dalla minoranza
liberale (i cosiddetti carbonari), anche l’Emilia e la
Romagna vengono annesse al Piemonte. Restava, ormai, la
parte più consistente della torta: il Regno delle Due
Sicilie. Con l’appoggio della “Gran loggia londinese”
che impegna nel progetto una somma enorme, il già
menzionato Giuseppe Garibaldi, avventuriero e agitatore
di professione non privo di audacia, essendo aduso ad
esporsi in prima persona, e già detentore di una
condanna a morte comminatagli, nel 1834, per alto
tradimento, proprio dal governo del Piemonte (non sarà
l’unica delle condanne emesse dagli “amici” piemontesi),
viene incaricato, con tutte le coperture possibili, di
invadere, sbarcando in Sicilia, il regno del meridione.
Pertanto
Garibaldi, il 5 maggio del 1860, con grande “battage” di
stampa estera finalizzata a depistare le difese
borboniche, le quali dovevano essere indotte a credere
che i garibaldini fossero realmente in pochi, vien fatto
partire da Quarto (Genova), con il dichiarato ed esiguo
numero, per l’appunto, di 1089 pseudo patrioti (i più
erano avventurieri), per dare inizio ad un viaggio verso
la Sicilia, però tranquillamente scortato dalla flotta
sabauda.
A
Talamone, in Toscana, sulla rotta del Sud furono
imbarcati 2000 soldati piemontesi e armi in abbondanza.
L’11 maggio, Garibaldi sbarca a Marsala protetto questa
volta dalla flotta inglese che, pronta, a poche miglia
dalla costa siciliana, attende di “graziosamente”
affiancare la flotta piemontese per opportunamente
coprire, i non più “mille”, dal fuoco dei cannoni della
marina borbonica.
In
pratica la flotta britannica, con manovra subdola se non
scorretta, si andò a porre innanzi alle navi dei Borbone
che, colte di sorpresa, esitarono a sparare e la fatale
esitazione fu sufficiente a far passare indenne il
“signor Garibaldi”. Una volta superato lo sbarramento
della marina borbonica il generale sbarcò, in santa
tranquillità, con i garibaldini nell’isola dove lo
attendeva, trepidante, il fratello massonico La Farina.
Sul
controverso punto della sorpresa e conseguente
“esitazione” qualcuno, prima o poi, ci dovrà pur
raccontare se, quella dei comandanti della marina
borbonica, fu “vera esitazione” o, anch’essa, una
distrazione lautamente prevista e pagata. A tutt’oggi
rimane un solo dato certo cosi riassumibile: le uniche
difficoltà per i garibaldini intervennero quando,
superati i cannoni borbonici, una delle navi – la
Lombardo – sbagliò l’attracco nel porto di Marsala e si
andò bellamente ad incagliare nelle secche. Fu allora
che l’esercito di Garibaldi rischiò, di brutto, almeno
per i cagionevoli di salute… una polmonite.
Infine la
storia, agiografia a parte, ci racconta che mai impresa,
che doveva essere per antonomasia l’impresa disperata di
giovani patrioti e il colpo di testa di un eroe, fu
invece più protetta, scortata e generosamente
finanziata; senza contare l’oro del banco di Sicilia
immediatamente incamerato dal generale Garibaldi il
giorno che entrò in Palermo. A tale proposito
l’appropriazione del rilevante tesoro palermitano
risultò parecchio indigesta a Vittorio Emanuele che,
indebitato con mezza Europa, attendeva quel denaro come
ossigeno vitale per le sue casse. Circa la fine reale
fatta dall’oro, in seguito, circolarono contrastanti
notizie. Volendola proprio mettere sull’idealistico si
potrebbe ipotizzare che il repubblicano Garibaldi
intese, requisendo il tesoro, assicurarsi una certa
autonomia caso mai insorgesse l’occasione di realizzare
l’ancor vivo, in lui, progetto di repubblica in Italia.
A pensarla male, invece, è probabile che Garibaldi, non
credendo troppo nella gratitudine dei Savoia, decise di
intascare il denaro riservandolo a sé ed ai suoi più
fidati uomini onde pagarsi, in anticipo, l’impegno
profuso in quella impresa e fronteggiare, come direbbe
il poeta, i probabili “dì futuri e neri”. Certo è che,
comunque fosse andata, il Savoia prese malissimo la
disavventura pecuniaria subìta e ne mantenne tanta buona
memoria che, il solo possibile ripetersi dell’evenienza,
lo fece divenire ferocemente attento, nei confronti di
Garibaldi, quando si trattò di difendere l’ancor più
consistente tesoro del banco di Napoli.
Il poi
nomato “eroe dei due mondi”, nel frattempo, suffragato
dai liberali siciliani, e perché no dai “picciotti” di
mafia, inizia la sua impresa. Purtroppo per Garibaldi,
però, esaurito il primo facile approccio, iniziarono i
guai: quelli seri. Infatti, essendo il Generale
tutt’altro che un fesso, non ci mise molto a capire che,
pur con tutta la buona volontà, nemmeno la ricchissima
massoneria inglese, poteva comprare l’intero popolo
siculo, né esso risultava particolarmente invaso da
spirito liberale, anzi non lo era quasi per nulla,
ritenendosi sufficientemente soddisfatto
dell’amministrazione borbonica che, alla fin fine, lo
faceva campare alla meno peggio.
Si
scontrarono, infatti, i poveretti non certo, come
falsamente venne poi raccontato dai vincitori, con un
manipolo di “mille” improvvisati patrioti, bensì con un
numero rilevante di militari di mestiere che le navi
sabaude, in appoggio a Garibadi e subito dopo il suo
arrivo nell’isola, avevano provveduto a sbarcare sulle
coste siciliane. I soldati piemontesi, tra l’altro,
erano ben equipaggiati e riforniti d’armi e fucili –
ultimo modello – sempre per generoso intervento
finanziario della “loggia inglese” la quale, in quella
spedizione, sapeva di giocarsi il tutto per tutto. A
ragione si può, dunque, dire che i “mille”, nella
realtà, furono mille… più mille, più mille, più mille; e
la famosa e decantata spedizione… quasi una crociera in
un mar Tirreno particolarmente affollato di amici e
“fratelli”.
In forza
di queste verità è lecito affermare che nessun esercito,
apparentemente improvvisato, di liberazione o meglio di
occupazione fu altrettanto sistente, protetto e fornito
degli appoggi logistici necessari per condurre a buon
fine l’impresa prefissata. Ugualmente, la tanto
decantata conquista di Messina, attribuita al valore dei
garibaldini, va ascritta, al contrario, a due elementi
determinanti: il merito della flotta piemontese e il
demerito di alcuni generali borbonici, fra i quali il
Ghio e il Lanza, entrambi aderenti alla massoneria.
Costoro, per l’appunto, non “mossero paglia” per
contrastare l’azione garibaldina e, in pratica, non
affiancando concretamente l’eroica resistenza del
generale Dal Bosco consegnarono, l’isola all’invasore,
ritirandosi persino in buon ordine.
L’atteggiamento dei due passibile, in altra situazione,
di deferimento alla “corte marziale”, creò, prima lo
sconcerto e poi, come già detto, le violente reazioni
dei soldati borbonici. Queste proteste, iniziate in
Sicilia, proseguirono a Reggio Calabria ove, nel corso
di una rivolta, venne ucciso o giustiziato, come si
preferisce interpretare i fatti, un generale, resosi
colpevole, a detta dei militari, di non combattere e
d’aver così permesso l’entrata in quella città di
Garibaldi.
Aiutati
da alcune sommosse, tanto “spontanee” dall’essere
lungamente già programmate, procedé l’occupazione o la
liberazione, a seconda dei punti di vista, dei
garibaldini nel mezzogiorno d’Italia, e l’unico
contrasto che venne fatto a Garibaldi fu quello attuato,
questo sì spontaneamente, da sparuti gruppi del già
esercito borbonico che tentarono, con il loro
sacrificio, di riscattare il disonore dei generali.
Pertanto lo spregiativo “esercito di Franceschiello” va
esclusivamente riferito ai capi militari.
L’8
settembre 1860 (per i Savoia esiste certamente un
destino in questa data) Francesco II, a bordo della
fregata “Partenope”, onde evitare spargimenti di sangue,
lascia Napoli per raggiungere la fortezza di Gaeta,
nella quale intende porre in atto l’ultima strenua
resistenza che riesce, con atti di eroismo ascritti ai
soldati e soprattutto al coraggio dimostrato dalla
moglie Maria Sofia, a procrastinare di cinque mesi la
caduta del suo regno. Il 13 febbraio 1861 Francesco II,
questa volta a bordo della nave francese “Mouette”,
prende la via dell’esilio. Raggiunge Civitavecchia e di
lì Roma ove, paternamente accolto, è ospite del papa Pio
IX prima al Quirinale e poi in Palazzo Farnese, di
proprietà dei Bor bone. Al contrario della moglie, donna
di carattere e tutt’altro che disponibile ad accettare
la perdita del regno, Francesco di Borbone organizza una
stanca resistenza e dà vita, durante il soggiorno
romano, ad una specie di governo del Regno del Sud in
esilio chiamato “Comitato generale”. Il novello
comitato, posto sotto la presidenza del conte di
Trapani, ha quale segretario il generale Clary e a
costui viene affidato il delicato compito di organizzare
e costituire una serie di comitati in tutte le
principali città dell’ex regno. A questi comitati,
secondo le intenzioni dei legittimisti borbonici,
spettava il ruolo di promuovere e preparare la reazione
che doveva intervenire ad opera e per il supporto di
truppe formate da: ex soldati borbonici, ex garibaldini
delusi, contadini che divenivano briganti, alcuni nobili
idealisti provenienti da tutta Europa e da il nemmeno
troppo sotterraneo appoggio del clero. Il coacervo di
persone e d’intenti avrebbe dovuto riportare, se tutto
andava bene, sul trono del Sud la dinastia borbonica.
Invece, vuoi per autentica sfortuna o, a voler credere
alle favole, per effetto dei riti magici ai quali si
diceva fossero adusi i Savoia, da sempre sostenitori e
protettori di stregoni, veggenti e cartomanti, non ne
andò una dritta. Tutti i tentativi fallirono, a volte
inspiegabilmente, come la mancata presa di Potenza da
parte dei reazionari borbonici, un avvenimento, come
detto, sconcertante che, a parere di chi scrive, e non
solo, fu la causa determinante per la sconfitta dei
Borbone e che rappresenta l’oggetto del presente
romanzo.
Riprendendo i fatti, il più importante di questi
tentativi di restaurazione venne realizzato da un
generale spagnolo – José Borjés – che, su incarico del
generale Clary, organizza una spedizione nell’Italia del
Sud, in compagnia di quattordici ufficiali suoi amici.
Costoro partono da Malta e sbarcano sulle coste calabre
a Brancaleone. Purtroppo il generale Clary, con
eccessiva faciloneria, aveva fatto credere al valoroso
soldato spagnolo che l’intera popolazione del Sud Italia
era in attesa di un capo per insorgere. Palesemente si
voleva replicare l’impresa garibaldina con la differenza
che, Borjés, non era scortato dalla flotta piemontese e
inglese e ad attenderlo non trovò nessuno. Non a caso è
stato detto che, al Sud, in pochi conoscevano a fondo la
situazione e quei pochi ancora non avevano deciso come
schierarsi. La stessa banda del brigante calabrese
Mittica, che pur affermava di battersi per i Borbone,
diffidando del Borjés, non gli prestò il necessario
soccorso.
Lo
spagnolo, nonostante le avversità, con un coraggio
eccezionale riuscì, comunque, a raggiungere la
Basilicata dove sapeva si concentravano le bande meglio
armate ed organizzate al comando del brigante Carmine
Crocco Donatelli, capo genialissimo per furbizia,
strategia e capacità organizzative. L’incontro fra
questi due uomini che, volendo (ma almeno il brigante
non volle), avrebbe potuto determinare una svolta nella
reazione borbonica, avvenne il 22 ottobre 1861. I
rapporti, da subito, si presentarono tutt’altro che
idilliaci, per totale diversità di carattere, di vedute
di strategia militare e soprattutto per l’elementare
motivo che Crocco non aveva alcuna intenzione di cedere
il comando. Una specie d’intesa venne per intanto
raggiunta ma, è il caso di dire, il rattoppato accordo
si deteriorò del tutto allorché il Borjés dové
registrare l’inspiegabile rinuncia del Crocco a
conquistare l’importante città di Potenza. Il brigante,
infatti, giunto dopo una faticosa avanzata che aveva
duramente impegnato l’esercito sabaudo (valga per tutti
la cruenta battaglia dell’Acinella), il 16 novembre 1861
ai piedi della città, fece suonare, nel pomeriggio di
quel giorno tanto atteso, improvvisamente la ritirata e,
invece di assalire il capoluogo lucano, ripiegò con
mossa discutibile su Pietragalla. Un errore strategico
che comprometterà definitivamente le già limitate
speranze di restaurazione del trono borbonico.
Il perché
di quest’assurda ritirata rimane uno dei misteri della
storia. Con ogni probabilità Crocco (questa potrebbe
essere una spiegazione), avendo compreso la svolta
decisiva che detta conquista avrebbe impresso alla
lotta, ossia un ritorno alla legalità, ed essendo già
stato deluso, a tal proposito, nell’esperienza avuta con
Garibaldi (liberato dai garibaldini dalla galera li
aveva seguiti con la promessa di un condono che poi non
ebbe), preferì restare brigante per continuare ad essere
un capo, sia pure sempre in fuga.
La
storia, comunque, non può sostenersi sui “presupposti”.
Rimane il fatto che, essendo il Crocco in materia di
strategia militare superiore, e di gran lunga, anche
alle notevoli capacità del Borjés, risulta poco
attendibile l’ipotesi d’attribuirgli un semplice errore.
Non era, infatti, suo costume sbagliare.
L’amara
vicenda determinò, in chi comprendeva l’importanza di
Potenza, come il Borjés, un tremendo sconforto per la
consapevolezza di aver perso l’unica occasione veramente
utile per vincere. Non occorreva essere grandi strateghi
per capire che, se l’“affondo” su Potenza fosse stato
sferrato al momento opportuno e nei termini del progetto
lungamente predisposto, difficilmente i Savoia sarebbero
sfuggiti ad una disfatta che avrebbe posto serie
ipoteche sul loro regno.
Essi
vinsero, invece, quando stavano proprio per perdere.
Fallita, o meglio non conquistata, Potenza, anche
l’impresa del Borjés ebbe tragicamente termine dopo
poco. Il generale spagnolo, non potendo sopportare oltre
quello che, a ragione, riteneva un tradimento decise di
abbandonare il Crocco e le terre di Lucania per
dirigersi verso gli Abruzzi ove tentare l’impresa di
varcare il confine con lo stato pontificio. Con ogni
probabilità, il suo gesto non era teso a rinunciare
definitivamente alla lotta ma solo a portare, e questo
forse gli costò la vita, a diretta conoscenza del re le
incongruenze del brigante. Intercettato ad un passo dal
confine, presso Tagliacozzo, con precisione sospetta
(qualcuno è evidente lo tradì) venne, senza alcun
processo fucilato, con i suoi uomini, dai piemontesi al
comando del maggiore Franchini.
Il caso,
per lo spregio dimostrato dai piemontesi a qualunque
parvenza di legalità e che vedeva vilmente ucciso un
valoroso avversario, per di più un generale spagnolo
conosciuto e stimato da molti, fece riflettere e
scandalizzò profondamente l’Europa sui sistemi dei
Savoia.
Crocco,
catturato nel 1864, ebbe salva la vita poiché un
tribunale, stranamente clemente, lo condannò “solo” ai
lavori forzati. Morì nel 1905 nel penitenziario di
Portoferraio con un regime di prigionia, per quei tempi,
tutt’altro che duro, anzi gli fu consentito persino di
scrivere le sue memorie, ovviamente infarcite di
rispetto per i Savoia. Ma Crocco era pur sempre l’uomo
intelligente che aveva tenuto in scacco duramente
l’esercito piemontese, e non si smentì neppure in
occasione delle memorie poiché, a parte la facciata
pro-Savoia, dalle parole del brigante, per chi sapeva
leggere, trasparì tutta la grandezza e la portata della
lotta di popolo che, per anni, i vincitori avevano
tentato di negare innanzi al mondo intero.
Dal 1860
al 1870 il meridione, come in parte racconta Crocco
Donatelli, fu percorso da continue rivolte nelle città e
nei centri minori e le bande armate che si andavano, in
continuo, per disperazione a costituire poterono, da un
certo momento, annoverare, tra le loro fila, anche ex
liberali che, avendo in buona fede sospirato e cospirato
per uno stato libero e costituzionale, si erano
brutalmente ritrovati col peggiore dei poteri in casa.
Lo stesso don Liborio Romano, come sopraccennato, già
ministro borbonico e già incaricato da Garibaldi di
formare un governo provvisorio del Sud, eletto nel nuovo
parlamento italiano con suffragio strepitoso, quando
afferrò in pieno la situazione non ebbe remore a
denunciare, in quella sede, coraggiosamente e più volte,
lo scempio e la politica scellerata che veniva
effettuata nel meridione. Don Liborio, essendo in fondo
uomo onesto, si sentiva responsabile, in prima persona,
della rovina del Sud e schiumava rabbia per l’abile
raggiro subìto ad opera del luogotenente delle province
del Sud, il principe Eugenio di Savoia Carignano e del
segretario generale della luogotenenza, il cavaliere
Costantino Nigra.
I due,
conoscendo l’autorità e la stima che il politico
pugliese godeva in quelle terre, per averlo interamente
dalla loro parte, prima gli avevano fatto credere in una
situazione di tipo confederale e con pari dignità fra
nord e Sud e, poi, lo avevano fatto piombare in una
realtà che vedeva un meridione schiacciato dalla
protervia dei Savoia e reso privo di qualunque libertà e
prospettiva. Infine se non ne fosse stato impedito dagli
anni e dalla precaria salute, se solo avesse potuto, don
Liborio si sarebbe rimesso a cospirare, però, questa
volta in senso inverso. Infatti i più traditi
dell’intera vicenda risultavano essere proprio i
liberali della prim’ora, come don Liborio Romano i
quali, avendo in perfetta buonafedecombattuto per
ottenere una confederazione paritaria con il Piemonte,
si ritrovarono, invece, con una forzata quanto umiliante
annessione dei territori meridionali allo stato sabaudo,
uno stato che, con il massimo dispregio, definiva le
genti delle testé conquistate terre “più incivili
dell’Africa”. Sempre ammesso che, anche all’Africa,
fosse giusto e legittimo affibbiare il concetto di
inciviltà.
Questa
profonda delusione, ormai sentita coralmente nel Sud,
fatti salvi alcuni beneficiari della situazione, diede
molto filo da torcere al nuovo Regno d’Italia. Il popolo
intese una cosa sola, elementare ma tremenda: i
liberatori erano di fatto oppressori e che i nobili, i
padroni di una volta, erano stati bellamente sostituiti
da pseudo liberali dell’ultima ora. Questi borghesi,
dichiaratisi al momento giusto fedeli ai nuovi padroni,
divennero, in breve, i nuovi ricchi. Infatti essi si
rivelarono ancor più famelici, in quanto a privilegi e
“terre” da accaparrare, rispetto ai nobili e ai sistemi
dell’antico regno, al punto da far rimpiangere, al
popolo, il passato. E proprio in nome delle terre
demaniali, sempre promesse e mai ottenute, il ceto più
debole ed infelice – i contadini – decisero di
instaurare un’aspra ribellione purtroppo conclusasi nel
sangue per non essere stata combattuta e vinta al
momento giusto. Tutte le province del già Regno delle
Due Sicilie, nell’arco del citato decennio insorsero e
in ogni angolo del meridione, da “terra di lavoro”
(Caserta) agli Abruzzi, dalla Basilicata al Principato
Citeriore (Salerno), Molise, Calabrie, Puglie e nel 1866
violentemente dalla Sicilia, fu un moltiplicarsi e un
susseguirsi di sommosse, tutte brutalmente represse
senza nemmeno il tentativo, da parte dei piemontesi, di
comprenderne almeno le motivazioni.
Di
conseguenza, il governo sabaudo si trovò ben presto,
nell’imbarazzante situazione di dover rispondere
all’opinione pubblica europea che, inorridita dalle
parziali notizie che iniziavano a trapelare, chiedeva
lumi sui “molti perché” della repressione. Tanta ferocia
lasciava presupporre una contrarietà e una strenua
resistenza dei popoli che, definiti dai Savoia liberati
dal giogo tirannico dei Borbone, dimostravano, invece,
di non gradire affatto la sbandierata “liberazione”. La
risposta dei piemontesi consisté nell’abile tentativo di
svilire e negare le ragioni oggettive delle popolazioni
meridionali, relegandole ad atti di puro brigantaggio.
Nel
contempo, il governo tentò di coprire anche l’entità
delle perdite militari che, vergognosamente, stavano
subendo ad opera, come dicevano loro, di “quattro
briganti”.
I conti,
comunque non tornavano e il quadro che ne usciva fuori
era quanto mai contraddittorio e poco lusinghiero per i
piemontesi poiché: o erano veramente quattro i briganti,
e allora l’esercito piemontese, palesemente incapace di
tenere testa a costoro, era costituito da un insieme di
rammolliti oppure, e la spiegazione diveniva la più
credibile, occorreva ammettere che i cosiddetti
“quattro” erano tutt’altro che quattro e, in aggiunta,
potevano contare sul soccorso e il consenso di una
intera popolazione. Nessuno, in breve tempo, credé più
alla sbrigativa favola dei banditi, ed oggi lo storico
inglese Denis Mack Smith non teme di affermare
tranquillamente che: “il numero dei piemontesi che
perirono in questa lotta fu superiore a quello di tutte
le guerre d’indipendenza”. Il che la dice lunga sulla
portata della rivolta e sull’impegno militare che, per
stroncarla, ne aveva fatto seguito. Apparve chiaro,
anche ai più ingenui, che essa non fu, come la voleva
contrabbandare il governo piemontese, la necessaria
repressione di volgari banditi di strada, ma una vera
guerra di popolo che reclamava il diritto, è il caso di
dire, proprio all’indipendenza.
Il
governo, pressato da più parti, fu costretto a chiedere
al Parlamento di istituire una “commissione d’indagine”
che, dopo lunghe quanto fasulle, per l’appunto pseudo
indagini, partorì la cosiddetta “relazione Massari”.
Di
conseguenza, il governo sabaudo si trovò ben presto,
nell’imbarazzante situazione di dover rispondere
all’opinione pubblica europea che, inorridita dalle
parziali notizie che iniziavano a trapelare, chiedeva
lumi sui “molti perché” della repressione. Tanta ferocia
lasciava presupporre una contrarietà e una strenua
resistenza dei popoli che, definiti dai Savoia liberati
dal giogo tirannico dei Borbone, dimostravano, invece,
di non gradire affatto la sbandierata “liberazione”. La
risposta dei piemontesi consisté nell’abile tentativo di
svilire e negare le ragioni oggettive delle popolazioni
meridionali, relegandole ad atti di puro brigantaggio.
Nel
contempo, il governo tentò di coprire anche l’entità
delle perdite militari che, vergognosamente, stavano
subendo ad opera, come dicevano loro, di “quattro
briganti”.
I conti,
comunque non tornavano e il quadro che ne usciva fuori
era quanto mai contraddittorio e poco lusinghiero per i
piemontesi poiché: o erano veramente quattro i briganti,
e allora l’esercito piemontese, palesemente incapace di
tenere testa a costoro, era costituito da un insieme di
rammolliti oppure, e la spiegazione diveniva la più
credibile, occorreva ammettere che i cosiddetti
“quattro” erano tutt’altro che quattro e, in aggiunta,
potevano contare sul soccorso e il consenso di una
intera popolazione. Nessuno, in breve tempo, credé più
alla sbrigativa favola dei banditi, ed oggi lo storico
inglese Denis Mack Smith non teme di affermare
tranquillamente che: “il numero dei piemontesi che
perirono in questa lotta fu superiore a quello di tutte
le guerre d’indipendenza”. Il che la dice lunga sulla
portata della rivolta e sull’impegno militare che, per
stroncarla, ne aveva fatto seguito. Apparve chiaro,
anche ai più ingenui, che essa non fu, come la voleva
contrabbandare il governo piemontese, la necessaria
repressione di volgari banditi di strada, ma una vera
guerra di popolo che reclamava il diritto, è il caso di
dire, proprio all’indipendenza.
Il
governo, pressato da più parti, fu costretto a chiedere
al Parlamento di istituire una “commissione d’indagine”
che, dopo lunghe quanto fasulle, per l’appunto pseudo
indagini, partorì la cosiddetta “relazione Massari”. La
commissione istituita per accertare e far rispondere,
agli eventuali colpevoli, degli efferati abusi commessi
al Sud dalle truppe piemontesi fu anch’essa, come c’era
da aspettarsi, abbondantemente manipolata e
contraffatta. Chi mai avrebbe osato processare, per quei
pezzenti del Sud, tanto per citarne qualcuno, i potenti,
famosi, e loro sì autentici banditi, generali Cialdini e
Pinelli?
Scritta e
riscritta più volte, la famosa relazione, non poté,
infine, negare del tutto l’evidenza e l’attendibilità,
come da più parti denunciato, degli scempi commessi.
Pertanto, dopo alcune sedute parlamentari e risposte
imbarazzate dell’Onorevole Massari, il Parlamento invocò
il “segreto di stato” e molte pagine della relazione
conseguentemente furono segretate. (E purtroppo lo sono
ancora oggi e, con esse, ugualmente segretate, vi sono
circa altre centocinquantamila pagine, negate e rese,
inspiegabilmente, inaccessibili a qualunque iniziativa
d’indagine storica) Comunque, per quel poco che venne
dato sapere, anche se stilata dal vincitore, i fatti che
tra le righe emersero erano talmente efferati (fosse
comuni e lager“ante diem” compresi) che non fu possibile
nascondere compiutamente la verità ed ebbe ragione chi
iniziò, molto prima dei tremendi fatti che
interesseranno gli ebrei, a definire “olocausto”
l’orribile sorte subita dalle popolazioni meridionali;
un orrore che assale ancor oggi, sia pure a distanza di
circa 150 anni. L’apice delle sofferenze fu raggiunto
con l’applicazione della cosiddetta “Legge Pica” (dal
nome dell’onorevole proponente), una legge speciale che,
ipocritamente, si disse approvata per dare una concreta
risposta alle richieste formulate dai ben-pensanti
meridionali circa l’esigenza di stroncare la piaga del
brigantaggio ma che, in effetti, mal celava il fine
reale: stroncare a tutti i costi la disperata e
coraggiosa reazione del Sud tramite un provvedimento
legale che, però, di legale non conteneva assolutamente
nulla. Per il numero delle vittime che la “bella legge”
produsse in sovrappiù, i Savoia possono a pieno diritto,
di fronte a Dio e agli uomini, “fregiarsi” del reato di
“genocidio”.
Gli
uomini ancora validi che riuscirono a sfuggire alla
fucilazione prevista nell’infame legge, senza bisogno di
prove o regolare processo, vinti dalla miseria e dalle
vessazioni, furono deportati nel novarese, a
Fenestrelle,( specie di lager ove solo da qualche anno è
stata posta una lapide a ricordo di tanta sofferenza) o
costretti ad emigrare.
Fu così
che vennero bellamente dirottate le riserve auree e i
restanti capitali del meridione verso il nord, risorse
che furono adeguatamente impegnate per risolvere la
miseria di quelle regioni, soprattutto nella pianura
padana. In pratica, i Savoia, non potendo sedare la
rivolta con le sole armi e le fucilazioni in massa di
gente anche inerme, con queste ultime iniziative
economiche ottennero di eliminare e prostrare
definitivamente il “ribelle popolo”.
Morto,
dunque, il pensiero e affamata la popolazione, ancora
non paghi, escogitarono una specie di deportazione di
massa che si divideva in due, per così dire, filoni: le
deportazioni forzate in zone montane del Piemonte o
plaghe desolate dell’America latina e, quando andava
bene, il subdolo incoraggiamento ad un’emigrazione
spontanea con libera scelta del paese straniero. Anche
per quest’ultima brillante idea il guadagno era duplice
poiché si toglievano di torno i restanti uomini validi
e, inoltre, il regno poteva avvantaggiarsi delle rimesse
fresche di denaro inviate, per l’appunto, dagli
emigrati.
Il
risultato di tutte le operazioni messe in atto fu un
numero spaventoso di morti e, in particolare,
l’eliminazione dell’ottanta per cento degli uomini
validi del Sud: un vero e proprio genocidio. Non resta
difficile comprendere come quello che era stato il regno
più florido d’Europa, così ridotto e condannato nel
fatale decennio (1860-1870) ad una miseria anche morale,
non sarà più in grado (e non lo è in parte tuttora) di
risollevarsi. E ciò anche dopo la caduta dei Savoia.
Infatti, nemmeno lo stato repubblicano, nonostante i
forti investimenti posti in essere attraverso la Cassa
del Mezzogiorno (una cassa che al solito favorirà, ad
onta del nome, più il Nord che il Sud) sarà capace di
risarcire e alleviare i danni operati. Nessun
sostanziale e definitivo recupero, occorre ammettere, è
stato ancora possibile nel meridione anzi, questo Sud,
così snaturato e avvilito per circa cento anni dai
Savoia, non crederà più nello Stato e quando fingerà di
farlo sarà solo per adagiarsi, ormai privo come è
divenuto di reali iniziative, sull’assistenzialismo di
governo: un’occasione d’oro per favorire, ovviamente,
tangenti e malcostume.
In poche
parole, al Sud, permane la muta vendetta di chi, tradito
dalle istituzioni, ritiene, come pensarono con altro
sistema i briganti, di doversi beffare di uno Stato che
ancora non gli appartiene. E pertanto: autonoma licenza
di derubarlo o, peggio, possibilità di procedere ad una
giustizia di tipo personale. Questa distorta mentalità,
con ogni evidenza, rappresenta il danno maggiore.
In
conclusione senza procedere ad ulteriori, quanto troppo
sbrigative, analisi o difficili giudizi storici, si può
dire, a considerazione e parziale attenuante dei fatti,
che esistono processi epocali impossibili da fermare. I
Borbone avevano senz’altro, come casa regnante, esaurito
la loro carica vitale e non fu d’aiuto, anzi la pagarono
ad alto prezzo, la loro predilezione ad essere, da
sempre, più attenti e vicini al popolino e come ovvio ai
nobili, e molto poco al nuovo potere che, in età
moderna, si andava affermando: la borghesia. Un errore
che, nonostante i molti meriti, costò, all’antica casa
regnante, il trono.
Dire che,
comunque, il loro regno fosse “un paradiso di delizie”
sarebbe non solo eccessivo ma non corrispondente ad una
realtà storica, anche se le cifre, essendo anch’esse
obiettive realtà storiche, ci raccontano che, agli inizi
della presa di potere da parte di un Borbone – Carlo III
– (1734), il meridione contava tre milioni e mezzo di
abitanti e a metà Ottocento, con Ferdinando II, la
popolazione era salita a circa nove milioni, con un
tenore di vita che poteva definirsi, per quei tempi,
abbastanza soddisfacente.
Con ogni
evidenza il relativo benessere non poteva che essere
ascritto ad una politica lungimirante e aperta al
progresso di tipo industriale operata dai tanto
bistrattati Borbone; una politica che fu capace di
promuovere e portare il Regno delle Due Sicilie ad
essere considerato il più ricco e progredito stato in
Europa.
E per
ottenere questo risultato occorreva che il benessere non
fosse prerogativa di pochi singoli ma diffuso in tutti i
ceti sociali. Infatti, il progresso mal si adatta e si
coniuga con un popolo carico di disagi e oppresso; ciò
non toglie la reale esistenza di una polizia
particolarmente aggressiva e di carceri non propriamente
definibili luoghi di “relax”. Esattamente come non lo
erano le carceri di altri stati europei. La stessa
Inghilterra che, per i motivi espansionistici già
elencati all’inizio, risultava la più impegnata ad una
sistematica politica di denigrazione del cosiddetto
sistema repressivo borbonico, dimenticava di guardare al
suo interno.
Infatti,
sul suolo inglese prosperava il peggior sistema
carcerario d’Europa. Notoriamente la storia è un
susseguirsi di vicende che si ripetono e da secoli,
essa, ci racconta che le grandi rivoluzioni epocali sono
portate avanti da pochi elementi ricchi di ideali che
vengono, però, immediatamente “confortati” se non
scalzati da opportunisti allorché si profila la vittoria
per una delle fazioni. Non a caso vien detto che
l’esercito degli opportunisti è “l’esercito più nutrito
del mondo”.
Anche
l’unità d’Italia non fece eccezione a questa squallida
regola e i veri liberali che perseguirono il disegno
unitario, sia pure con molti disaccordi interni ma anche
con rischio e sacrificio personale, furono pochi e
soprattutto operanti, in massima parte, nelle grandi
città. Nei centri minori e nelle campagne, invece, il
popolino fu poco incline ad aderire alle proteste e
altrettanto poco incline al concetto di unità portato
avanti dagli intellettuali.
A
dimostrazione di questo sentire fu la fine che, per moto
spontaneo della gente del posto, venne riservata, il
primo luglio 1857, nel Cilento (Sapri), al povero
Pisacane ed ai suoi trecento compagni, massacrati
barbaramente dagli abitanti della zona. Infatti, i
poveretti, furono considerati, dai locali, estranei e
brutali invasori delle loro terre. Questo episodio rende
alla perfezione il dato inoppugnabile che i liberali del
Sud, impegnati nella lotta di indipendenza (e debbono
ancora spiegarci da cosa volevano essere indipendenti),
furono pochi e vinsero nel 1860, pronubo Garibaldi, non
solo perché i tempi in qualche modo erano maturi ma in
massima parte, se non proprio del tutto, perché i
fautori dell’unità poterono contare ed ebbero, in
maniera determinante, l’apporto massiccio di tutti i
fratelli massonici.
Ciò
premesso rimane arduo ed azzardato dare un giudizio
compiuto sulle scelte della massoneria, scelte che
valide o meno non avevano di sicuro la volontà di
distruggere un popolo. Il genocidio fu una operazione
tutta Savoia, frutto di arroganza, mancanza di cultura e
avidità economica, non disgiunta da un celato senso di
inferiorità e di invidia verso l’allora progredito, in
tutti i sensi, meridione.
La
storia, comunque, non può arretrare ed oggi, qualunque
sia la lettura autentica dei fatti, a nessuno è
consentito negare quel valore, anche sacro, che è
divenuto e costituisce l’unità nazionale. Ugualmente va
ribadito che nulla deve e può giustificare il
comportamento sciagurato degli esponenti della casa
reale piemontese; una dissennatezza e una mancanza di
apertura mentale che nemmeno l’intelligenza e le
capacità umane delle donne della casa regnante
riuscirono mai a mitigare. Essi, i maschi della casa,
come nel loro stile, e fatta eccezione per il povero
Umberto II – il re di maggio – (per carattere abbastanza
somigliante al trisnonno Carlo Alberto), rimasero sempre
chiusi e tetragoni ai consigli di chicchessia. Un
aspetto caratteriale che li portò a non saper
amministrare, in modo illuminato, la scelta fortunata
caduta su di loro, ed essi furono pronti a scambiare un
insieme di situazioni favorevoli per un’investitura
divina di quel Dio al quale, tra l’altro, poco davano
rispetto e credito. Volendo, potevano risparmiare molti
lutti alla nazione italiana e, soprattutto, risparmiare
le migliaia di vittime che, anche nelle fasi successive
del loro regno, non mancarono di provocare, addebitando,
per giunta, sempre ad altri il peso delle loro colpe.
Essi,
infine e con particolare pervicacia, non abbandonarono
mai la linea di asservire sistematicamente o eliminare
tutte quelle genti o popoli che non conoscevano e non
capivano. In questa logica vanno collocati gli eccidi, i
massacri e le persecuzioni del sud, un insieme di azioni
criminali che nulla, né un trono, né un concetto di
patria potrà mai giustificare.
Sarebbe
giusto che gli attuali Savoia, oltre che chiedere scusa
agli ebrei per l’infelice firma apposta da Vittorio
Emanuele III circa le discriminazioni razziali,
ritenessero altrettanto utile e doveroso fare pubblica
ammenda, verso il Sud dell’Italia, per il dolore che la
loro dinastia ha provocato dissennatamente e falsamente
in nome di una unità nazionale che poteva avvenire con
ben altri sistemi. Per fare questo, però, occorrerebbe
che, come prima cosa, conoscessero, compiutamente, la
storia d’Italia.
In
conclusione, a parte ragioni politiche, dinastiche e
strategie espansionistiche di poteri internazionali,
nonché interessi di Savoia o Borbone, la storia, come
già detto, procede e non può tornare indietro. Ciò non
toglie che una memoria ritrovata dell’immane sofferenza
che questo processo unitario è costato ai popoli del
meridione, oggi, renda a tutti gli italiani, più
indiscutibile e sacro che mai, il concetto stesso di
“unità nazionale”. |