Palermo come tutte le antiche città nasconde nel suo ventre altre
“città” che descrivono forse ancor più di quanto è in superficie la
sommatoria delle culture che si sono succedute nei millenni. Sia le
particolari condizioni geologiche del substrato sia le attività
antropiche condotte per almeno 28 secoli di storia hanno dato origine a
moltissimi vuoti sotterranei, utilizzati per vari scopi ma sempre
collegati alle attività di superficie.
Cripte, catacombe, pozzi, cisterne, silos, camminamenti, cave in
galleria, camere dello scirocco, qanat e tante altre architetture
sotterranee esprimono questo rapporto secolare tra l'uomo e sottosuolo
che, sotto la città di superficie, ne ha costruito un'altra nascosta.
Di
quest'altra Palermo poco è noto agli stessi abitanti, anche se racconti
popolari come I Beati Paoli e innumerevoli leggende la colorano
di folklore. Ciò si deve alla mancanza di un'efficace divulgazione, di
quella che oggi chiameremmo operazione di marketing, e alla non
conoscenza della Storia della nostra città che non consente di recepirne
l'autentico significato culturale.
In
questa lettura ci occuperemo di far conoscere la più medievale di queste
opere: i Qanat.
A
causa del clima arido e della carenza di sorgenti, fin dai tempi più
antichi gli abitanti della città hanno cercato un metodo alternativo per
soddisfare il fabbisogno idrico della città e le peculiari
caratteristiche del terreno che costituisce la piana di Palermo hanno
favorito per secoli lo sfruttamento delle falde acquifere di cui,
contrariamente all’apparenza, la zona è ricca.
Nell’antichità il rifornimento idrico della città era assicurato
prevalentemente da pozzi freatici e dalle sorgenti situate fuori le mura
dell’antica città (la paleopoli) che sorgeva su una penisola stretta tra
le foci di due fiumi, il Kemonia e il Papireto.
Mura e fiumi della Palermo punica (Ziz o Sis,
fiore). Autore della mappa Vincenzo Salerno |
Nel IX secolo Musulmani invasero
la Sicilia, conquistando Palermo nel 831 e l'intera isola nel 965. Nel
periodo musulmano Palermo, divenuta capitale, è stata una della città
più importanti nei commerci e nella cultura, era conosciuta in tutto il
mondo arabo e si dice avesse più di 300 moschee.
Sede
di un potente emirato, grazie alla capacità amministrativa dei Kaglebiti
divenne una terra ricca e florida dai costumi tipicamente musulmani con
influenze nella lingua e nella toponomastica, nelle colture e nelle
costruzioni architettoniche ancora oggi chiaramente riconoscibili. Le
tracce di essa sopravvivono anche nei monumenti che costituiscono il
centro della città antica, con i suoi cinque quartieri: il Kasr, sito
nella punta estrema della Paleopolis; il quartiere della grande Moschea;
la Kalsa
(ossia Eletta) sede degli emiri; la zona degli Schiavoni (Sclavi),
attraversata dal fiume Papireto; e infine a ponente il Moascher, il
quartiere militare.
Il
monaco Teodosio, testimone oculare, che ci ha fornito queste notizie
sosteneva anche che nelle trecento moschee di Palermo l’istruzione era
affidata a trecento maestri per una popolazione di oltre trecentomila
persone.
Dai
diari dello scrittore e viaggiatore Ibn Hawqal apprendiamo infine che già nel X secolo, in pieno
periodo fatimita “la popolazione si disseta con l’acqua di pozzi
posti all’interno delle loro case”.
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Domenico Morelli, “Il bagno turco” |
Come
venne risolto il problema dell’approvvigionamento idrico che non solo
portava l’acqua nelle case private e negli Hammam
ma rese la piana di Palermo quel rigoglioso giardino ricco di
verzura e fontane di cui narrano gli antichi viaggiatori? Grazie
all’applicazione di un’antica tecnica arabo-persiana, cioè la
costruzione di una fitta rete di canalizzazioni sotterranee: i Qanat.
Nella piana di Palermo gli arabi cominciano a sperimentare con successo
le loro conoscenze di ingegneria idraulica, mutuate e messe a punto da
precedenti civiltà orientali, adattandole alle specifiche condizioni
idrologiche e climatiche che offriva l’ambiente palermitano.
I
Qanat o ‘ngruttati’ sono delle strette gallerie sotterranee
scavate dai muqanni, “maestri d’acqua”, con delle semplici zappe
perché il sottosuolo della piana di Palermo e costituito in massima
parte da calcarenite, una roccia molto friabile e facile da lavorare;
questi cunicoli intercettavano la falda acquifera e tramite la gravità e
una leggera pendenza trasportavano l’acqua in superficie.
La
diffusione di queste gallerie sotterranee è documentata in diverse aree
geografiche a carattere climatico di forte aridità e in base alla
tipologia di risorsa idrica disponibile si sviluppano prevalentemente
due tipi di canali sotterranei: i qanat di tipo persiano e i
foggara tipici dell’area del deserto del Sahara che sono serviti per
la creazione di oasi lungo le vie carovaniere.
“I
foggara si sviluppano per lunghezze notevoli a una profondità che
non scende mai oltre il livello delle falde acquifere e non penetrano
mai nella falda. Vengono così liberati i microflussi imprigionati nelle
rocce” mentre i qanat di tipo persiano attingono
l’acqua direttamente dalla falda acquifera e la trasportano fino al
punto di utilizzazione coprendo anche distanze lunghissime. Il cunicolo
procede lungo il sottosuolo con una pendenza minima, inferiore allo
0,5%, garantendo un flusso lento e costante dell’acqua senza causare
l’erosione delle pareti del canale. L’acqua, grazie a questa tecnica
mantiene la purezza e la temperatura della falda.
In
entrambi i casi il sistema si differenzia nettamente dai classici
acquedotti romani le cui condotte, sia aeree che sotterranee, vengono
alimentate da acqua di superficie come quella di sorgenti, laghi e
fiumi.
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Qanat dell’Uscibene ad Altarello di Baida,
Palermo |
Lungo lo sviluppo del qanat si aprivano dei pozzi verticali che
comunicavano con la superficie. Tali pozzi, oltre a consentire
l’approvvigionamento idrico per gli edifici, pubblici e privati, e
l’irrigazione dei campi, facilitavano le operazioni di scavo consentendo
l’estrazione del materiale roccioso in fase di realizzazione del
qanat.
Individuata la falda, e stabilito il tracciato del qanat, si
iniziava lo scavo procedendo da valle verso monte per evitare il
deflusso delle acque. La corretta direzione di scavo veniva assicurata
in maniera molto semplice, utilizzando tre lampade poste lungo il letto
del canale che servivano sia ad illuminare l’ambiente sia a mantenere
l’allineamento desiderato fino al completamento della galleria
La
caratteristica tecnica di alcuni qanat palermitani, che li
distingue da quelli orientali più antichi, è la mancanza di un vero e
proprio pozzo alimentatore principale che spesso viene sostituito da una
estesa galleria drenante trasversale ubicata a monte. Questo elemento
innovativo attesta una sensibile evoluzione dei principi e delle
tecniche costruttive che il tema degli acquedotti ha raggiunto in
Sicilia.
L’esistenza di queste condotte sotterranee spiega, nonostante la natura
arida del territorio, il fiorire, nella Palermo araba e normanna, di
fontane, peschiere, bagni pubblici, canali d’acqua e giardini
lussureggianti.
È
interessante notare nelle canalizzazioni palermitane la presenza di due
differenti tipi di pozzi che comunicano con la superficie. Un primo tipo
di pozzi, circolari o quadrati numerosi nei giardini dell’agro
palermitano, hanno le dimensioni di circa un metro quadrato e venivano
utilizzati dai muqanni per l’estrazione del materiale di scavo
durante o per le opere di manutenzione e, solo saltuariamente, per
attingere l’acqua; una seconda tipologia di pozzi possiede una sezione
rettangolare di circa 1x2 metri. In corrispondenza di questi pozzi il
fondo dei qanat si abbassa e si allarga per dare spazio ad una
sorta di vasca sotterranea. “L’ampiezza di questi pozzi e la vasca
sotterranea servono per l’alloggiamento delle norie a tazze o senie
azionate da animali da tiro”.
La conoscenza delle caratteristiche geologiche dei diversi suoli e la
padronanza della nuova gestione del patrimonio idrico, hanno favorito il
diffondersi di nuove colture. Oltre alle colture già conosciute in epoca
bizantina, nei giardini palermitano si coltivano nuove specie importate
dagli altri paesi arabi come riso, pistacchi, vari legumi, spinaci,
carciofi e melanzane
Tra le piante da frutto si trovano le palme da dattero, il
banano, l’arancio dolce e amaro e il limone.
Fontane e corso d’acqua nella sala d’ingresso
della Zisa |
Allo sviluppo dei Qanat si associa la costruzione di altri ambienti
ipogei come camere dello scirocco, bagni ebraici “miqweh”,
sotterranei di riunione, serbatoi, scammarati d’acqua, grandi
canalizzazioni a volta (smaltitoi, acquedotti del maltempo),
gallerie vadose e gallerie freatiche, laminatoi, cunicoli di drenaggio,
cunicoli e canali di scarico, cunicoli collettori, cunicoli di
bonifica (gammitte), condotte e canali piccoli grandi
della vecchia fognatura. Cunicoli di fuga, cunicoli di servizio,
camminamenti militari (mine e contromine),
corridoi, gallerie, passaggi, cunicoli, condotti carsici, ecc.
Sicuramente tra tutti gli ambienti ipogei associati o derivati dalla
costruzione dei qanat i più affascinanti sono “Le camere dello
Scirocco”, singolari ipogei che destano molta curiosità e sono
esempi di architettura del raffreddamento passivo. La denominazione
suggestiva di camera di scirocco per indicare questi singolari ambienti
freschi si ritrova per la prima volta in un atto notarile del 5 agosto
1691 dove si legge: “Scendesi più in basso a man destra vi è una
grotta seu camera di scirocco con fontana in mezzo e tutto in giro con
mattoni di Valenza”
Le camere dello scirocco costituirono spesso e in varie forme il
corredo architettonico delle ville e casene di caccia durante la
cosiddetta “grande villeggiatura” che raggiunse la massima diffusione
nel XVIII secolo, un periodo fiorente per l’economia di Palermo. Ma il
loro uso potrebbe essere anteriore a questo periodo per la presenza
della “camera” di Villa Naselli Agliata descritta dal gentiluomo
Vincenzo Di Giovanni nella sua opera Palermo Restaurata (1552).
Si tratta di spaziosi ambienti, decorati e piastrellati finemente,
intagliati ad arte nella roccia calcarenitica e attraversati e resi
freschi dai qanat medievali. Alcune come quella descritta dal Di Givanni
presentano una vera e propria “torre del vento”, di forma tronco-conica
che racchiude alla base una camera con sedili, simile per funzionamento
termodinamico alle badgir iraniane di Yazd (la città delle
torri del vento) che veicolano la circolazione dell’aria fresca
all’interno dei palazzi, espellendo quella calda.
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La camera dello scirocco di Villa Savagnone ad
Altarello di Baida |
I
qanat visitabili a Palermo sono oggi solo tre: Il Gesuitico basso (o
della Vignicella), il Gesuitico alto e quello dell’Uscibene con la sua
magnifica Camera dello Scirocco.
Fara Misuraca
gennaio 2008
Bibliografia
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Todaro Pietro, Guida di Palermo sotterranea, edizioni L’epos,
Palermo 2002
U. Rizzitano, La conquista musulmana, in Storia della
Sicilia, ESI, Napoli, 1980, vol. III, p. 137. Rizzitano basa
la sua ricostruzione dell’episodio sulla testimonianza del
monaco Teodosio, catturato in questa occasione e deportato a
Palermo.
Mercante, geografo e viaggiatore. Visse la sua giovinezza a
Baghdad. A causa di una ingente perdita patrimoniale iniziò nel
943, un viaggio trentennale nelle regioni dell'Islam. Fu in
Sicilia nel 973 e non fu molto tenero con i costumi rilassati
dei musulmani di Sicilia.
L’agricoltura siciliana in
periodo arabo è ricca di molte specie coltivate. Negli orti, nei
frutteti e nei giardini del X secolo, insieme alle colture di
origine autoctona o importate nei secoli precedenti, si
diffondono piante provenienti dalle regioni sottomesse al
dominio arabo o prelevate in regioni ancora più lontane. Ibn
Hawqal cita, per la prima volta, la canna da zucchero (qasab
farisi,canna di Persia).
Nella
sua descrizione, lungo i corsi d’acqua che lambivano la città,
si trovavano anche, piantagioni di maqathin cioè zucche e
cocomeri che dovevano essere coltivati con l’aiuto
dell’irrigazione. E soprattutto la cipolla, molto diffusa e
consumata, anche per le proprietà afrodisiache, soprattutto allo
stato crudo: “Non c’è persona, quale che sia la classe sociale,
che non le mangi durante tutta la giornata, non c’è casa dove si
consumino mattina e sera”, riporta Ibn Hawqal che ne deplora
l’eccessivo consumo. Negli orti, insieme alle cipolle, erano
presenti, seppure non menzionate, anche nuove specie introdotte
dagli arabi: gli spinaci (che per la prima volta sono citati in
Andalusia verso la fine del XI secolo), i carciofi (noti in
Africa nel XIII secolo), e le melanzane che dall’India giungono
in Egitto, in Tunisia e quindi, nel X secolo, si ritrovano in
Spagna e in Sicilia. Nelle zone umide della città si coltivava
anche il riso ed il lino.
Il
cotone e la canapa che, secondo Yaqut, citato da M. Amari nella
sua Biblioteca arabo–sicula, erano coltivati nei pressi
dell’odierna S.Giuseppe Jato. Tra i diversi legumi si produceva
anche il sesamo, molto diffuso secondo quanto indica l’etimo
dialettale di origine araba e ancora oggi usato per decorare il
nostro pane. Nei mercati cittadini non mancavano spezie, piante
medicinali (tra queste la manna ottenuta dal frassino e una
malva conosciuta in Spagna che Ibn al Awwam chiama malva di
Sicilia), piante coloranti come l’indaco (azzurro), il cartamo
(giallo), l’hennè (rosso
-
bruno) che nel XII secolo risulterà coltivato nel territorio di
Partinico, il guado (blu) e le foglie del mirto, utilizzate per
la concia delle pelli.
Presente era anche il gelso nero, utilizzato per l’allevamento
del baco e quindi per la produzione della seta, e il carrubo,
già noto in epoca precedente ma adesso molto diffuso come
dimostra l’origine araba del nome.
Tra le
piante della città, certamente nei suoi giardini, non potevano
mancare la palma da dattero, il banano, l’arancio amaro, il
limone, la limoncella (lumia). Il loro diffondersi inizia
sicuramente durante la dominazione araba in anni non lontani dal
976, quando fu realizzato il Patio degli aranci nella
Mezquita di Cordoba, divenuto un modello in Spagna e in
Sicilia per i cortili di altre moschee e palazzi.
Non
trascurati erano i vigneti, coltivati con tecniche simili a
quelle romane ma, a quanto riferiscono gli agronomi andalusi,
con un’attenzione particolare alla forma estetica. Il consumo di
vino – che in Sicilia veniva preparato con senape, miele e mosto
- non era soggetto a restrizioni religiose come riferiscono Ibn
al Awwam e Ibn Hawqal ed
è parte
fondante, insieme alle rose di nuove specie, al gelsomino ad
altre piante ornamentali,
di quel
genere poetico, la rawdiya, che canterà l’amore per le
piante e la bellezza dei giardini arabi della Sicilia. (Barbera
Giuseppe, Tuttifrutti. Viaggio tra gli alberi da frutto
mediterranei fra scienza e letteratura, Mondadori, 2007
e
Agricoltura e Paesaggio nella Sicilia arabo normanna
http://www.sunandwind.it/eventi/ecomediterranea/giuseppe_barbera.pdf
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