Il
Presepe
dagli umili ai potenti di
Pina Catino
Ho molti piacevoli ricordi, e un filo di nostalgia,
nel pensare alle ore, si alle ore, trascorse davanti ai presepi
della mia infanzia. Era un mondo di magica bellezza che mi
coinvolgeva e mi invitava alla meditazione estatica del mistero
divino.
Tuttavia ero molto attratta, oltre che dalla grotta e
dalla sua teofania, anche dal mondo dei personaggi che all’interno e
all’esterno della grotta lodavano e glorificavano Dio e il bambin
Gesù, negli ultimi anni, poi, ho avvertito spesso la necessità di
una riflessione su cosa questi personaggi nel presepe volessero
simboleggiare. Iniziai a fotografare anno per anno Presepi.
Sono così trascorsi sedici anni. Ed ecco giungere
l’invito di accompagnare le mie fotografie presepiali da uno
scritto, a parlarne come se fosse un tema importante. |
E, in effetti lo è.
La parola simbolo (dal greco sun ballo che vuol dire
unire, mettere insieme) sta a significare un qualcosa che tutti gli
uomini appartenenti ad uno stesso ambito culturale avvertono come
idea – guida nel loro peregrinare su questa terra. Orbene, per i
cristiani, solo la mensa eucaristica e la recita del Credo hanno una
valenza più pregnante del presepe.
Il presepe (dal latino praesepe che deriva dal verbo
prae – saepire, cioè recintare con siepe, sta ad indicare, più
propriamente, un recinto chiuso, uno stazzo, una mangiatoia, e
rappresenta un intero mondo simbolico che va ben oltre il racconto
della nascita storica di Gesù e che si estende all’intera vicenda
umana e divina, che è una vicenda di colpa e di redenzione, di
nascita, morte e resurrezione, di buio e di luce, di bianco e di
nero, e di ogni altro contrasto tra il mondo della forma e il mondo
della sostanza, tra la materia e lo spirito, fino al completo
ritorno dell’esistere all’Essere, del temporaneo all’Eterno,
dell’umano a Dio.
E
questo viaggio del ritorno inizia, per i cristiani, proprio nella
grotta di Betlemme (dall’ebraico Bet – lehem, “casa del
padre”, quasi a prefigurare il “panis angelicus” della comun -
unione) dove si realizza l’incarnazione del Cristo Figlio unigenito
di Dio, che assumendo il corpo umano e la colpa originaria dei
nostri progenitori redime e purifica l’umanità intera e la conduce,
come il buon Pastore il suo gregge, verso il Paradiso (dall’iranico
pairi – daeza che vuol dire giardino recintato)
ricco di ogni grazia divina.
Il presepe, quindi, quale anticipazione simbolica del
paradiso: un recinto terreno per un recinto celeste. Ecco perché a
noi piace tanto soffermarci a guardare il presepe, preveggenza di un
mondo in cui amore, pace,e luce sono la condizione eterna dei beati,
che su questa terra affrontano, invece, odio, guerre e buio. Ecco
perché nel presepe sono sempre presenti, a due a due, gli elementi
del contrasto, come ora vedremo.
Ovviamente,
l’elemento fondamentale di ogni presepe è il Bambin Gesù, il
cui piccolo corpo testimonia la fragilità e la tenerezza dell’intera
umanità, mentre la luce che da esso scaturisce è pallido simbolo
della sfolgorante luce divina, quella stessa luce che farà dire ai
tre discepoli sul Monte Tabor “Signore, è bello per noi stare qui”
.
Altrettanto ovviamente, l’elemento di contrasto alla luce del
piccolo Gesù è il buio della caverna, la casa del Bambino secondo la
profezia di Isaia. “Abiterà in una grotta di pietra dura”
.
La grotta, da sempre, è considerata l’utero della Grande Madre
Terra, simbolo della nostra nascita fisica, del nostro ingresso nel
mondo della materia e del contemporaneo abbandono dell’Essere,
simbolo del nostro porci “ qui ed ora” fuori da Esso, nell’ex
- esistere, che vuol dire, appunto, fuori da Dio. E stare
fuori da Dio significa stare fuori dalla luce, stare cioè nel buio,
nel buio di una grotta di Betlemme, rischiarata invece dalla Luce
sfolgorante di “Colui che è”. E se la grotta è il simbolo della
nostra nascita fisica, della nostra assunzione di un corpo
materiale, la stalla in essa ospitata è il simbolo
della povertà e delle difficoltà materiali e spirituali che
l’uomo deve superare per redimersi. E la stalla è
vicino alla locanda, dove uomini e donne mangiano e devono e dove
non c’è posto per Maria e Giuseppe, ma soprattutto non c’è posto per
Dio, costretto (?) ad allontanarsi dal mondo degli uomini per poter
meglio scendere tra di loro.
Come non si fa a cogliere il valore simbolico di
questa scelta: Dio ha bisogno per manifestarsi all’uomo, che questi
rinunci alla materialità, alle ricchezze, ai cibi, al potere e alla
sensualità, e che trovi nella purezza delle cose semplici la
predisposizione spirituale per accoglierlo.
Si capisce così il valore del digiuno che
la Chiesa chiedeva ai suoi fedeli nella notte di Natale. E si
capisce soprattutto come la nostra società si stia allontanando
dallo spirito cristiano della festa religiosa per eccellenza, per
cadere in un orgia di cibo e di vino, di inutili e ricchi regali
materiali che denotano, invece, una spaventosa miseria spirituale.
E
nella stalla il divino Bambino viene deposto in una mangiatoia,
una cabaletta di pietra che spesso viene raffigurata come un vero e
proprio sarcofago (dal greco sarko – faghéo,
colui che divora il corpo) a prefigurare la paione e
morte del Cristo Redentore.
Spesso nei presepi la mangiatoia viene deposta all’interno di un
tempio pagano diroccato, in uno scenario spiccatamente
orientale, a simboleggiare che la nuova religione cristiana,
proveniente dall’Oriente, ha mandato in rovina le vecchie credenze
religiose dell’Occidente.
Altro elemento di contrasto è la presenza, nella grotta, di Maria,
vera madre, e Giuseppe, falso o perlomeno putativo padre.
Maria è la madre del corpo fisico di Gesù,
sangue del suo sangue e carne della sua carne, ed è estremamente
simbolica la sua presenza nella grotta: lei, utero di Mater Dei,
partorisce nella grotta, utero della Dea Mater, a significare
l’importanza dell’elemento femminile nella generazione, e
rigenerazione, fisica e spirituale dell’uomo.
Giuseppe, invece, sembra quasi estraneo alla vicenda, tanto che
nelle icone bizantine viene addirittura rappresentato lontano dalla
grotta, in atto di ricevere le felicitazioni di Adamo, non certo per
la sua paternità, ma per l’avvento del comune Redentore. Ma la
figura di Giuseppe ci ricorda, soprattutto, che il “vero padre” di
un uomo non può essere mun altro uomo, ma solo Dio, il suo Creatore;
tutti gli altri uomini sono solo “padri putativi”.
E
arriviamo ora ai due simpatici ospiti della stalla: il bue e
l’asinello.
Di loro aveva parlato il profeta Isaia
un bue ha riconosciuto il suo proprietario e un asino la
mangiatoia del suo padrone, acquisendo così i diritto alla prima
fila. Ma se la grotta rappresenta la nostra nascita fisica, il bue e
l’asinello rappresentano le forze propulsive di quella
generazione: il bue, sotto l’influsso di Venere, rappresenta
la forza sessuale, mentre l’asino, sotto l’influsso di
Saturno, rappresenta la forza della personalità dell’uomo. E’
ovvio che per ricevere il divino in noi occorre che le due forze si
pongano al servizio della divinità, come i due animali, e che il
loro fiato riscaldino il divino Bambino.
Ovviamente altre interpretazioni vengono date per i due umili
protagonisti del presepe: il bue, che ricorda il bue
Apis di egiziana memoria, simboleggia il mondo pagano,
mentre l’asinello, cavalcatura dei re d’Israele, rappresenta
il mondo ebraico, a significare la discesa del divino su
tutta l’umanità senza distinzioni di sorta.
Secondo San Girolamo, tuttavia, il bue, animale mondo, si riferisce
ad Israele che ha portato il giogo della Legge, mentre l’asino,
animale immondo, rappresenta i gentili
.
Un altro elemento di contraddizione è dato dagli angeli,
creature spirituali prive di un corpo fisico, che annunciano il
sacro evento ai pastori, poveri e piccoli uomini, a significare,
ancora una volta, che il dio cerca l’amore dei più poveri, di quelli
cioè che possiedono jmeno materialità degli altri e che perciò sono
più puri e ricettivi, per il semplice fatto che gli umili pastori
sono le icone viventi del Cristo Buon Pastore, colui che conosce una
per una le sue pecorelle e lascia le 99 per andare alla ricerca
della centesima che si è smarrita.
Non è un caso che il Papa e i vescovi sono considerati i pastori dei
loro fedeli e che il lungo bastone che recano tra le mani si chiama
“bacolo”, voce di derivazione latina tradotta nell’italiano “il
pastorale”, intesa come azione di guida religiosa ma favore dei loro
fedeli.
E così i pastori che vengono rappresentati o fermi
nell’ascolto del messaggio evangelico, oppure in movimento verso la
grotta simboleggiano l’umanità che, ferma per millenni nella
condizione del peccato originale, finalmente si pone in cammino per
incontrare il suo Redentore.
I pastori diventano quindi simbolo del sacrificatore e
del sacrificato, come un tempo lo fu Abele, sacerdote e vittima, e
come lo è Cristo, sacerdote di Melchisedek e vittima sacrificale
sull’altare del Golgota, come lo è il Cristo sulla mensa eucaristica
delle nostre chiese, così come ben ci ricorda la stessa radice
etimologica di pane, pasto e pastore.
Ma nel presepe tra i tanti pastori in veglia c’è un solo pastore che
dorme: Benino, il piccolo Bene, da taluni
ritenuto simbolo dell’uomo stanco delle fatiche terrene.
Ma i grandi iniziati sanno bene come l’evento solstiziale del 25
dicembre è uno dei quattro periodi dell’anno (gli altri sono
l’equinozio di primavera, il solstizio d’estate e l’equinozio
d’autunno) in cui avvengono nella natura dei forti gettiti e delle
grandi circolazioni di energie che influenzano la terra e tutti gli
esseri che la popolano.
L’evento natalizio, quindi, è sempre stato considerato,
nell’antichità, un grande evento cosmico perché in questo periodo il
seme, ogni tipo di seme, considerato “il piccolo bene” dell’uomo,
cioè il Benino, inizia a risvegliarsi dal suo sonno invernale.
La resurrezione arriverà in primavera, quando fiori, frutta e grano
doneranno “il grande Bene” il Benessere alimentario necessario alla
sopravvivenza dell’umanità.
Ma anche il pastore dormiente, Benino, ha un
suo ascendente classico, Pan, dio greco del mondo pastorale,
legato alla rinascita dei prati e delle greggi e il cui culto
avveniva all’interno di una grotta. L’assonanza del nome del dio con
il vocabolo “pan” che in greco significa “tutto”, portò
all’identificazione del dio con l’incarnazione dell’universo, della
totalità della natura. E con questo significato il dio Pan compare
ancora oggi nell’iconografia bizantina sotto le vesti di un pastore
seduto, cioè nella fase del riposo invernale, che suona il flauto
fuori dalla grotta ed ha, come copricapo, una zolla di terra
fiorita.
Il dio - pastore Pan canta e sogna la rinascita dei
prati e delle greggi e di tutto l’universo, perché l’universo
intero, rigenerandosi anno dopo anno, renda gloria al Dio –Bambino.
Continuiamo con le contraddizioni: le baracche dei popolani che
circondano l’umile mangiatoia, trono del potere divino, in
contrapposizione al palazzo isolato e arroccato di Erode, simbolo
del potere umano. Dio abita tra il popolo, ma spesso il popolo
sciocco aspira ad abitare “il palazzo” cioè lontano da Dio.
Ulteriore elemento di contraddizione è la presenza dei Re Magi.
A dire il vero il secondo elemento di contrasto ai tre
Re è questa volta nascosto, invisibile, anche se continuamente
evocato: il Re Erode.
Del resto anche quando facciamo il segno della croce, ci segniamo in
quattro punti ma invochiamo tre persone: nel nome del Padre, sulla
fronte, del Figlio, sul petto, e dello Spirito Santo, unica persona
sulla spalla sinistra e su quella destra.
Il quarto elemento che il segno evoca, ma che la parola
tace, è il Male, il Diavolo (dal greco dia – ballo,
disunire, spezzare l’unione), è proprio l’unità delle genti in
adorazione del Cristo che viene simboleggiata dai tre Re Magi.
Questi, infatti, rappresentano l’umana famiglia sia quando
rappresentano il passato, il, presente e il futuro, sia quando sono
rappresentati secondo una età diversa, uomo giovane, uomo maturo e
uomo anziano, sia quando sono rappresentati secondo la loro
provenienza etnica e geografica: Baldassarre, discendente di Sem,
proveniente dall’Asia, Gaspare, discendente di Jafet, proveniente
dall’Europa e Melchiorre, discendente da Cam e proveniente
dall’Africa e perciò raffigurato con la carnagione scura.
Anche l’esame dei doni da loro offerti hanno un valore
simbolico. L’Oro, infatti, esprime la potenza
terrena e rappresenta quindi l’ordine reale,
l’Incenso, che veniva usato sugli altari, rappresenta
l’ordine sacerdotale, e la Mirra,
che
veniva usata per ungere i corpi e conservarli incorrotti,
rappresenta l’ordine secolare, il resto della umanità che
nella amarezza della mirra e dei sacrifici può sperare di
presentarsi incorrotto al trono di Dio.
Se Erode, quindi, rappresenta il desiderio di Satana di assicurarsi
il dominio sull’uomo, i tre Re Magi rappresentano il desiderio
dell’uomo di servire Dio, in ogni momento della giornata, nella vita
pubblica, nella vita religiosa e nella vita privata.
I padri della Chiesa, fin dal II sec, diedero una interpretazione
cristologia dei tre doni, come simboli della regalità l’oro, della
divinità l’incenso e della umanità del Cristo la mirra.
Mentre un’altra interpretazione simbolica suggerisce: Gaspare offre
dell’oro, vestito di colore giacinto e simboleggia lo stato
coniugaqle, Baldassarre dona l’incenso, vestito in giallo e
rappresenta la verginità, mentre Melchiorre offre la mirra in abiti
screziati e rappresenta la penitenza.
Vediamo, infine, l’ultimo elemento che sovrasta tutta la scena e la
illumina entrando min contrasto, ancora una volta con il buio,
la Stella.
Essa, secondo il racconto evangelico
,
guidò i Magi dal loro paese orientale fino a Betlemme, compiendo la
loro stessa strada, rischiarando le stesse notti, illuminando
l’identico cammino
E’ così facile, ed è bello pensare che il cammino della stella e
il cammino dei Magi sia stato identico, svolto solo nei due piani
terreno e celeste, a significare che la ricerca di Dio deve avvenire
sui due livelli dell’esistenza umana. E solo quando i due cammini
giungono alla medesima grotta, l’uomo completo, corpo e spirito,
vede il Dio Bambino che nasce in lui.E questo è l’augurio che sento
di fare a tutti voi, che ognuno trovi la sua stella, con cui
condividere lo stesso cammino e in cui fondersi all’arrivo alla
grotta. Solo da un lampo di luce che bruci la nostra materialità
potrà nascere in noi il Dio – uomo, vero figlio di Dio e vero Figlio
dell’uomo.
Questa è la storia simbolica di un presepe – recinto
che vuole ricordare agli uomini che Dio ha fatto loro, donando suo
figlio in sacrificio salvifico, perché gli uomini potessero vivere
felici con Lui nel recinto – paradiso.
Confronto tra Presepe Siciliano,
Presepe Napoletano, Presepe Pugliese
Il Presepe pugliese
Le più
antiche testimonianze dei presepi in Puglia iniziano dalla seconda
metà del 1400, perdurano per tutto il rinascimento, mentre
declinano, ma solo nella più grande produzione artistica, nel ‘600 e
‘700. Si tratta di presepi monumentali in pietra, dovuti a scultori
come Nuzzo Barba di Galatina, Stefano da Putignano, Paolo da
Cassano, Altobello e Aurelio Persio, Gabriele Riccardi di Lecce.
Sono eseguiti, come nella statuaria, in calcare, in carparo, in
pietra leccese, materiali, lo testimonia la loro conservazione, più
resistenti della terracotta, dello stucco, del legno. La pietra però
non è lasciata “a vista”, ma dipinta con colori vivaci e realistici,
come nella natività di Polignano a Mare, con una vernice oleosa
giallo bruna tipo bronzo.
Fa
eccezione il presepe cinquecentesco in pietra leccese, per essere
questa troppo porosa, rimasto incolore, che prende tutto un altare
della cattedrale di Lecce.
La
maggior parte di tali presepi era collocata nelle chiese Matrici e
nelle Cattedrali più affollate di fedeli, ma anche nelle chiese
dell’Ordine dei Francescani che si rivolgevano alla gente più
semplice ed umile. La facilità del reperimento della pietra aveva
fatto anche adottare la tradizione della grotta che alcune volte,
proprio per sottolineare il legame con la terra carsica pugliese,
contiene le stalattiti.
È
comunque probabile che altri presepisti utilizzassero la creta per
modellare, cuocere e poi dipingere i loro presepi e che questi siano
andati poi distrutti. Se ne conosce uno solo in terracotta
policroma, conservato a Polignano a Mare nella chiesa di Santa Maria
della Greca.
La
composizione di questi presepi è pressoché costante:
- il
gruppo della Sacra Famiglia, di grandezza naturale, è collocato in
una grotta ricavata spesso dalla roccia viva oppure realizzata
accostando pietre libere o legate da malta.
- sopra
la grotta trovano posto “l’Annuncio dei pastori”, la cavalcata dei
magi e una serie di personaggi ed animali.
Le scene
sovrapposte vogliono indicare la differenza cronologica degli
avvenimenti.
Mentre la
tradizione del presepe monumentale in pietra policroma, come
fenomeno devozionale ed artistico si va pian piano esaurendo fino a
cessare del tutto nel ‘600 e ‘700, si diffonde invece nello stesso
periodo, non solo nelle chiese, nei chiostri e nelle case degli alti
prelati, ma anche nelle case
private
dei ceti più poveri, l’uso di allestire per il Natale il presepe,
grazie soprattutto all’opera dei Francescani
che,
al
contrario dei gesuiti, portati ad arricchire la rappresentazione con
profusione di ornamenti per sottolineare il trionfalismo cristiano,
sono più vicini per la loro semplicità di spirito al popolo
pugliese.
Tali
presepi, pur riprendendo dai modelli napoletani egemoni, li
riadattano, ne semplificano le forme e ne riducono i costi.
E in
questo periodo che nasce e fiorisce nel Salento l’artigianato
artistico del presepe. I personaggi sono foggiati in cartapesta e in
terracotta da sempre così familiare alla quotidianità pugliese. Ma
anche negli altri centri dove l’uso della terracotta è usuale si
foggiano i “pastori” caratterizzati di volta in volta dall’abilità e
dall’originalità degli artisti artigiani. Il paesaggio che i presepi
propongono sono le Murge con le colline, le masserie, i trulli, le
grotte carsiche, il Gargano con le sue balze montuose, il salento
con le sue spiaggie assolate e le sue campagne.
Vengono
considerati pugliesi anche quei presepi che si trovano nell’attuale
provincia di Matera e perché fino al 1663 la città appartenne alla
Terra d’Otranto e perché, soprattutto il suo territorio è omogeneo
dal punto di vista fisico, morfologico ed antropico a quello della
Murgia.
E’ un
paesaggio nato nell’animo popolare, vero ed autentico, che non
smarrisce il sentimento religioso e pur essendo vivace resta
composto e mistico, in “una specie di sospensione della vita
cosmica”, proprio perché nasce non da una multiforme varia cultura
letteraria, ma da quella contadina ugualmente valida e ricca.
La
Natività è sempre al centro della rappresentazione e non ai margini
per lasciare posto ad altre scene. Il popolo che vi è rappresentato
è quello contadino, pastorale e marinaro, colto sempre in
atteggiamenti di lavoro o di contemplazione della Nascita.
I
personaggi, non hanno gesti teatrali o pose scomposte, spesso hanno
gli occhi rivolti al cielo. Ci sono pastori, pecore, fuscelli di
ricotta i prodotti della pastorizia. Vi sono rappresentate
l’aratura, la semina, la raccolta delle olive, dei fichi d’india. Ci
sono la bottega del fabbro, le bancarelle degli ambulanti, il
pescivendolo, il venditore di cozze……E poi i lavori femminili di un
tempo, la filatura, la tessitura, il bucato e perfino, a volte,
anche l’albero della cuccagna. E poi torme di galline, tacchini,
conigli,maialini ed oche accuditi dai più vecchi, anch’essi utili
come un tempo era nelle famiglie contadine pugliesi.
Al
presepe pugliese appartengono:
Il gruppo
che suona la “pizzica” e la donna corpulenta che la balla.
Il
pastorello coperto solo da una pelle di pecora.
La
vergine che reca due colombe, per il brodo alla Madonna.
San
Martino bambino o il “custode della stalla”, inginocchiato in
adorazione davanti alla grotta con in mano solo un ciuffo di paglia
da offrire a Gesù, rubata al suo padrone; si salva dall’ira di
costui, accorso per punirlo, solo perché la scia di paglia, perduta
durante il tragitto verso la grotta, si tramuta miracolosamente
nella Via Lattea.
Il
vecchio e il bambino che rappresentano il Vecchio ed il Nuovo Anno.
La
monachella.
Il frate
cercatore, i re Magi preceduti da un araldo vestito come un re.
Il Presepe Napoletano
Nel 1400
ca. appaiono i primi figurarum sculptores, artisti che
crearono per le chiese statue in legno a grandezza naturale, in
atteggiamento ieratico, poste davanti ad un fondale dipinto.
Nel 1530
nell’Oratorio di Santa Maria della Stalletta, presso l’Ospedale
degli Incurabili, viene composto un presepe con figure in legno
vestite di tessuto, secondo la moda del tempo.
Sempre
nel XVI sec. il pannello di fondo viene sostituito dai primi
elementi del paesaggio ed al bue e l’asinello si aggiungono via via
cani, capre, pecore.
Le figure
non sono più a grandezza naturale ma si riducono. Nel 1627 i Padri
Scolopi allestiscono il primo presepe a figure articolabili.
Il 1700 è
il secolo d’oro del presepe napoletano che entra nelle case. Carlo
di Borbone, il re che con il suo mecenatismo favorisce nel Regno di
Napoli una grande fioritura artistica e culturale, si circonda di
architetti e scenografi per allestire grandiosi presepi che occupano
alcuni saloni del Palazzo Reale.
I
personaggi sono centinaia, le figure non più in legno, sono formate
da un anima di filo di ferro rivestita di paglia, mentre gli arti
sono in legno e le teste in terracotta. Quella del figulinaio
diviene una professione. I vestiti, confezionati in stoffe pregiate
tessute negli opifici reali di San Leucio, sono realizzati dalle
dame di corte e dalla stessa regina.
È in
questi anni che nasce lo “scoglio”, cioè lo sperone roccioso che
costituisce il paesaggio.
Accanto
al presepe di corte che presenta la sacra Famiglia nella grotta, i
gesuiti che allestiscono anch’essi i loro presepi, sostituiscono a
questa il tempio diroccato, per significar la vittoria del
cristianesimo sul paganesimo. Ancora oggi molti presepisti adottano
quest’uso.
In
entrambi i presepi, comunque, la scena della natività è soffocata da
tutta la scenografia circostante cui si aggiunge il corteo dei Magi
con il loro seguito dei Mori. I nobili imitano il presepe reale e
nasce una tale competizione tra loro che si arriva perfino ad
adornare le figure con autentiche pietre preziose!
I loro
presepi sono visitati dal re, ma anche dalla gente più umile che ha
accesso in quella occasione nei grandi e lussuosi palazzi.
Accanto a
questi presepi barocchi, documento storico, descrittivo dei costumi
e delle tradizioni del popolo napoletano, nascono anche presepi più
piccoli e più poveri, su un piccolo scoglio o in una scarabattola,
una scatola in legno che li contiene, allestiti in quasi tutte le
case grazie anche all’azione indefessa del padre domenicano,
Gregorio Maria Rocco che girava per i vicoli del porto e del centro,
invitando tutti a fare il loro presepe.
Le figure
vengono modellate in terracotta e dipinte.
In
seguito, dopo Ferdinando IV di Borbone e in pieno illuminismo,
questa tradizione cominciò il suo declino. Nel 1800 i più grandi
presepi furono purtroppo smontati, i pastori venduti ai
collezionisti o dispersi (Lucia Guscio Antiquario in Roma). Tra i
pochi salvati è il presepe Cuciniello donato dal suo proprietario
alla città di Napoli e conservato nel Museo della Certosa di San
Martino, dove lo si può ancora ammirare. Col movimento romantico
torna l’uso di allestire nelle case i presepi e ancora oggi,
nonostante l’introduzione dell’albero di Natale abbia trovato facile
accesso nelle nostre case, la tradizione di allestire il proprio
presepio continua, anzi ha ripreso forza, stimolata anche dalle
numerose mostre e rassegne che in molte città italiane vengono
organizzate e che offrono non solo la possibilità di valorizzare il
patrimonio storico e culturale in nostro possesso, ma anche quella
di dare spazio ai nuovi e molti presepisti che, rifiutandosi di
utilizzare materiali e tecniched, sempre in agguato, che ne
sviliscono la qualità, creano personaggi che riescono a stupirci e a
coinvolgerci sentimentalmente nell’atmosfera religiosa del Natale.
La via
dei pastori, San Gregorio Armeno, a Napoli, è la via degli artigiani
che con sapiente manualità, con fantasia ed invenzione sono capaci
ancora di suscitare emozioni, e tutto l’insieme continua ad
incantarci non foss’altro che per la semplicità della
rappresentazione e per la forza del verismo. Ogni personaggio, ogni
oggetto nel presepe è pregnante di un simbolismo, ed in quello
napoletano ne caratterizza l’unicità:
troviamo
l’arco ed il ponte che sottintendono il passaggio per l’altro mondo;
il
venditore di maccheroni con la pentola straripante, esorcizza la
paura della fame;
il
viaggio dei re Magi, avete mai notato che nel loro corteo faceva
parte una figura femminile? Era la “re Magia” su una portantina
retta da quattro schiavi e accompagnata da una banda musicale di
suonatori negri. Ella era il simbolo della Luna!
Il Presepe Siciliano
Si
diffonde nelle chiese del 1400 l’uso di rappresentare in grandi
bassorilievi marmorei di artisti famosi come il Laurana e il Gagini,
la Natività, già apparsa precedentemente nei codici miniati, nei
mosaici, negli affreschi.
Nel 1576
a Scicli, in provincia di Ragusa, nella chiesa di San Bartolomeo, è
conservato il più antico presepe di ispirazione o di fattura
napoletana.
A Messina
nel 1600, i Gesuiti allestiscono all’interno della loro chiesa la
scena della Natività, utilizzando figure in legno, piatte e
collegate tra loro; la stessa cosa avviene a Monreale e
probabilmente anche in altri centri in cui questi padri operavano.
L’uso di
allestire il presepe entra anche nelle cappelle private dei palazzi
nobiliari e la rappresentazione presepiale si arricchisce via via di
personaggi ed arredi, occupando a volte intere sale come era in uso
anche a Napoli, città modello.
1700,
è in questo sec. che la produzione presepistica siciliana si
differenzia da quella delle altre regioni soprattutto per l’uso di
tecniche e materiali diversi. L’oro, l’argento, la madreperla, il
corallo: materiali preziosi non utilizzati per decorare le figure,
ma per costituirle.
I piccoli
presepi preziosi, dai costi naturalmente altissimi, trattandosi tra
l’altro di scenografie non più impostate alla semplicità
francescana, divenivano oggetto di arredamento da esporre sui
mobili, facilmente trasportabili, chiusi o no nelle bacheche di
vetro. Vengono prodotti soprattutto a Trapani dove argentieri e
corallari con raffinatezza e ricercatezza nel gusto e nello stile e
con la loro abilità nella lavorazione a bulino delle pietre
pregiate, diedero vita a rappresentazioni presepiali tutte e solo
siciliane. La mescolanza dei diversi materiali preziosi, l’avorio,
il corallo, l’argento e gli smalti usati hanno reso queste
composizioni oggetti d’arte famosi in tutta Europa.
Tra i
maestri più noti, Giuseppe Tipa e i suoi figli Andrea ed Alberto che
fino alla fine del 1700 produssero nella loro bottega.
Sempre a
Trapani Giovanni Matera inventava per le sue figure la tecnica della
“Tela e colla”, adottata poi da molti altri artisti. Costruiva lo
scheletro e la testa in legno di tiglio e poi lo rivestiva con
tessuti intrisi in una miscela di acqua e colla e creta o gesso. Una
volta indurita la miscela, li dipingeva. La sua arte si rivela nella
capacità di animare di movimento, di espressività di religiosità le
sue figure. Alcune sue opere sono esposte nel museo di Palermo ed in
quello nazionale di Monaco di Baviera.
Nella
regione dei monti Iblei, vicino Siracusa e Ragusa, ma anche a
palòermo, zone in cui l’apicoltura è ancora molto fiorente, già nel
medioevo era in uso, ad opera dei “cirari”, eseguire ex voto, santi
e bambinelli in cera.
Nel 1700
si cominciano a modellare piccole natività custodite nelle “scaffarate”,
contenitori in legno e destinate, per la loro varietà e preziosità a
divenire oggetti di arredamento. Gaetano Zummo di Siracusa fu uno
dei più grandi ceroplasti. Molti suoi esemplari si possono ammirare
nel Museo Bellomo della stessa città.
1800,
nell’isola durante questo secolo la vita e la cultura delle classi
popolari trova espressione in molte manifestazioni artistiche e
figurative: pitture sui carri, su vetro, sui cartelli dei
cantastorie e dell’opera dei pupi. Anche la ceramica popolare e
quindi l’arte dei figurinai ebbero particolare sviluppo.
A
Caltagirone, dove l’arte della ceramica era di antica tradizione, la
produzione di figure presepiali raggiunge i suo apice e soprattutto
una grandissima qualità, grazie anche ad artisti come Giacomo
Dongiovanni e Giuseppe Vaccaio.
Nasce
l’uso di rivestire le figure, gia finite, di sottilissimi strati di
argilla che le movimentano e le arricchiscono. Con queste si
allestiscono scene campagnole, liti tra comari, attività domestiche,
documento insomma di usi, comportamenti, attrezzi del mondo
contadino siciliano.
Nel
presepe siciliano che rappresenta paesaggi urbani e contadini c’è il
gusto per il racconto popolare e per l’indicazione delle azioni dei
personaggi, un pastore prepara la ricotta, l’altro la mette nelle
fiscelle e un terzo si incammina verso la grotta perdonarla; una
donna lava, l’altra batte il bucato sulla pietra del fiume, la terza
strizza.
I pastori
sono tantissimi e quasi tutti sono offerenti, di tutto quanto si
possa desiderare di mangiare e non si ha. Non c’è però, in questi
siciliani, l’immagine dell’eccesso, un po’ pantagruelica presente
nelle scene dei presepi napoletani.
I
soggetti particolari sono:
il Padre
Eterno, cioè un vecchio canuto che ha sul capo un triangolo e sulla
veste una colomba con le ali aperte, a rappresentare la Trinità;
Il buon
pastore che porta sul collo un agnellino;
“U
scantatu, il giovane meravigliato con le braccia protese sul viso di
fronte all’evento”;
L’uomo
che si toglie una spina dal piede, personaggio questo caratteristico
del Matera;
“U zzu
innaru e so mugghieri”, il vecchio, detto Gennaietto, che si
riscalda al braciere e sua moglie accanto a lui è in tenta a filare.
Gesù
Bambino è quasi sempre in cera, sdraiato e con le braccia aperte; la
Madonna è spesso inginocchiata con le mani giunte.
San
Giuseppe con la barba e i capelli bianchi si appoggia ad un bastone
fiorito, il suo abito è colore marrone a simboleggiare la terra.
E tutt’intorno
rametti di pungitopo, saracino, fichi d’india, arance, mandrini,
veri, non in ceramica.
Giuseppe, “custode del divino nell’umano del
presepe”, è un gran lavoratore, padre, comparsa, mai protagonista.
Il presepe nasce prima della divinità, quando Giuseppe crea la
famiglia. La natività si esplica nel creato: nella natura, fra gli
uomini, gli animali. E il cammino verso la pace avviene quando c’è
l’abbraccio con i Re Magi in un’unica grande famiglia. Ma Giuseppe
nell’iconografia viene sempre rappresentato dagli artisti sempre
nello stesso atteggiamento, quasi sempre estraneo alla vicenda,
lontano da Maria e dal Bambinello e notate, il suo mantello è
giallo. Perché?
Il Concilio Laterano IV (1215) fissa il colore giallo
come simbolo degli Ebrei. E il mantello di Giuseppe è giallo in
molti affreschi, si denotano così le committenze da parte della
Chiesa agli artisti (Giotto, Caravaggio…..).
Ma la figura straordinaria di Giuseppe, rimarrà nei
cuori di tutti per la sua umiltà e grandezza d’animo, custode del
divino nella storia dell’umanità. |
Pina Catino
[1] Grande
Enciclopedia Illustrata della Bibbia, pag. 45
[5] Omraam
Mikhael Aivanhov – Natale e Pasqua nella tradizione
iniziatica
[6] Maria Pia
Ciccarese – Animali Simbolici
[8] Giorgio
Otranto – Il Natale nel mondo antico tra storia e leggenda.
[9] Belloli – il
presepe fra Oriente e occidente, pag. 31
[10] Matteo 2,2
pubblicato dal Portale del Sud nel mese di luglio 2008
su gentile concessione dell'autrice
|