Il “De Sermone” di Pontano ignorato per secoli
anticipa il “Cortegiano” e il “Galateo”
Da uomo a gentiluomo, così nacque la
conversazione
“Mentre gli eserciti francesi percorrono, per non
dire devastano, l'Italia e, da una parte, proprio i francesi, e,
dall'altra, gli spagnoli, occupano il Regno di Napoli, abbiamo del
tutto distolto l'animo e la mente dalle grandissime sofferenze che
ci fanno giustamente vacillare e, cosa che può forse stupire, ci
siamo volti a scrivere delle virtù e dei vizi che si ritrovano nella
conversazione”.
Siamo a Napoli sul finire del Quattrocento e, duramente provata dai
mesi di occupazione dell'esercito francese di Carlo VIII che nel
1495 aveva invaso l'Italia, la città attraversa una crisi profonda.
Come reagire, dopo essere stati confrontati agli orrori della
guerra, alla presa di coscienza della decadenza politica e militare
del proprio Regno e della Penisola tutta, ormai alla mercé -
eccezion fatta di Venezia e Roma - delle grandi potenze straniere?
La risposta data dal poeta umanista Giovanni Pontano a questo
interrogativo può sembrare quella tipica di un uomo di lettere.
Esautorato dagli alti incarichi che ricopriva alla corte aragonese,
Pontano reagisce infatti alle sventure della vita, pubblica
ritornando agli studi e invitando le élites italiane a coltivare le
dolcezze della vita privata.
Eppure la sua non è, come a prima vista si potrebbe credere, una
fuga dalla realtà ma, piuttosto, una strategia che punta a un
paziente lavoro di rieducazione civile attraverso la pratica viva
dei valori della cultura umanistica, la tolleranza, l'apertura
all'altro, l'urbanitas, la civilitas. Ultimato nel
1499 e pubblicato postumo dieci anni dopo, il De sermone è un
atto di fede nella forza civilizzatrice della parola e costituisce
il testo inaugurale della riflessione europea sull'arte della
conversazione. Per la prima volta, infatti, la conversazione viene
rappresentata come un fenomeno etico ed estetico a se stante e
assurge allo statuto di modello del vivere civile: modello nel
doppio senso di oggetto costituito e di criterio normativo.
Non è certo sorprendente che a riprendere in mano questo testo
caduto per secoli nell'oblio e a mostrarne il valore archetipico in
un saggio consacrato a La conversazione. Un modello italiano(Donzelli
Editore, pagg. 346, euro 28) sia Amedeo Quondam, noto specialista
dei trattati rinascimentali incentrati sulle buone maniere. Scritto
nel neolatino degli umanisti, e tradotto di recente in italiano da
Alessandra Mantovani (Carocci Editore, 2002), il De sermone
annuncia, infatti, per i temi affrontati nei «tre grandi libri del
modello italiano», Il Libro del Cortegiano di Baldassarre
Castiglione (1528), il Galateo (1558) di Giovanni Della Casa
e la Civil conversazione (1574) di Stefano Guazzo.
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Giovanni Pontano (Cerreto di Spoleto PG, 7
maggio 1429 - Napoli, 17 settembre 1503) |
Come mostra la lettura critica di Quondam, l'obbiettivo di Pontano è
precisamente quello di dare ordine e forma alla socievolezza
aristocratica, trasformando il cavaliere feudale in un gentiluomo
moderno, perché «se nobili si nasce, gentiluomini si diventa per
cultura».
Se, infatti, il momento preso in esame dal De Sermone è
quello del ritrovarsi insieme (come indica il significato originario
di con-versare) nella sfera dell'ozio privato, senz'altro apparente
proposito che il proprio personale diletto, sin dall'inizio della
trattazione emerge con chiarezza che il discorso pedagogico
dell'umanista napoletano ha in realtà una portata molto più vasta.
Modellata sulla retorica classica, anche la conversazione affabile e
giocosa obbedisce infatti al principio dell’aptum (accordarsi
ai tempi, ai luoghi e alle circostanze) e richiede tutta una serie
di competenze, le quali, a loro volta, ne implicano delle altre che
tutte assieme rinviano al modello ideale dell'uomo rinascimentale.
Se affabile è «chi sa dilettare parlando e produrre allegrezza in
chi ascolta», la facetio non può prescindere dalla
veracitas, perché è la verità a rendere autentici e realmente
possibili i rapporti tra le persone. Non meno importante, la
mediocritas, la giusta misura tanto cara agli Antichi,
corrisponde a sua volta alla capacità di giudizio, alla moderazione
virtuosa, all'esatta valutazione della condotta da tenere in ogni
circostanza.
Il
De Sermone di Pontano affronta, dunque, per la prima volta,
un problema di interesse cruciale per la civiltà moderna mostrandone
la complessità delle implicazioni intellettuali e morali. Ma al di
là di questo è importante qui sottolineare come le drammatiche
circostanze in cui il trattato ha visto la luce rivelino la sfida
utopica che ne è all'origine e che continuerà a ispirare la
conversazione d'Antico Regime. Le buone maniere e il buon uso della
parola possono infatti, come scrive Quondam, «governare la natura
degli uomini, educarla, darle forma e regola, fides e
veracitas; sicurezza e onore». Una sfida in parte vincente,
visto che arte della conversazione e buone maniere si sarebbero
imposte nei secoli successivi come elementi distintivi delle élites
europee e, pur non possedendo la facoltà di impedire le guerre,
avrebbero contribuito ad agevolare il ritorno alla pace con il nuovo
linguaggio della diplomazia, e ad ingentilire le usanze di una
società adusa alle armi e impregnata di violenza, contrapponendo
alla logica della forza quella del piacere.
Nel ricostruire la storia dei testi fondatori dell'idea moderna di
conversazione Quondam non manca di accenti polemici. Egli rivendica,
con «orgoglio», il primato del modello italiano e la sua diffusione
in Europa e denunzia, con «rabbia», il progressivo oscurarsi del suo
ricordo a favore del modello classico francese. Un occultamento che
contribuisce per lo studioso ad alimentare quella «favola triste e
paranoica della "decadenza" italiana nei secoli dell'età moderna».
Perché, scrive Quondam, facendo suo l'apologo «Graecia capta
ferum vincitorem cepit», non è possibile parlare di decadenza
quando «tra Quattrocento e Cinquecento il gioco delle parti tra "la
Grecia soggiogata" e il "barbaro vincitore" è, in Italia, sotto gli
occhi di tutti, e fa sognare chi di modelli antichi quotidianamente
vive: poter conquistare con la propria cultura il potere
vincitore».
È
inutile rispondere a Quondam che il processo di appropriazione dei
modelli italiani da parte delle élites francesi nel corso del XVI e
XVII secolo obbedisce al principio classico dell'imitazione
creatrice («prendo il mio bene dove lo trovo», dichiarerà Molière
nell'attingere a piene mani al repertorio teatrale italiano).
Inutile ricordargli che se, trapiantati e naturalizzati oltralpe,
questi modelli si impongono all'ammirazione dell'Europa come
francesi e non più come italiani, ciò dipende non tanto dalla
volontà di grandeur di Luigi XIV ma dalla potenza economica,
diplomatica e militare raggiunta dalla monarchia francese dopo la
pace dei Pirenei e dalla sua nuova posizione di arbitro della
politica europea. Quella della decadenza italiana sarà una «favola
triste» ma perché la conversazione diventi una pratica culturale
nazionale c'è bisogno di una società civile che la faccia sua. Una
società civile che nel nostro paese, come constaterà ancora
Leopardi, avrà tempi di maturazione più lunghi che in terra di
Francia. Quondam è il primo a non ignorare tutto questo, come è il
primo a sapere che oggi non vi è studioso della conversazione
francese che non senta l'obbligo di riconoscerne i debiti nei
confronti dei modelli italiani. Ma non possiamo volerne né alla sua
verve polemica né alla fatica a cui sottopone i suoi lettori con una
scrittura labirintica che alterna fughe in avanti a ritorni continui
su cose già dette, intrecciando un linguaggio tecnico a neologismi e
a termini presi da altre lingue. Quel che conta per Quondam, come
pure per noi, è il suo instancabile lavoro di ricognizione erudita
negli archivi della memoria letteraria del nostro più glorioso
passato. Perché ogni suo libro è un nuovo contributo alla conoscenza
di quella «universalissima forma» del vivere civile secondo
le categorie del bello e dell'utile che, a partire dall'umanesimo
italiano, ha costituito per molti secoli uno dei connotati
distintivi della cultura europea.
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Tratto da “La Repubblica”, mercoledì 5 marzo 2008, pag. 41 |