Le pagine della Cultura

Giovanni Pontano

“De Sermone”

di Benedetta Craveri [1]

Vittore Carpaccio, Il Ritorno degli Ambasciatori (Ciclo Storie di Sant’Orsola)

 

Il “De Sermone” di Pontano ignorato per secoli anticipa il “Cortegiano” e il “Galateo”

Da uomo a gentiluomo, così nacque la conversazione

“Mentre gli eserciti francesi percorrono, per non dire devastano, l'Italia e, da una parte, proprio i francesi, e, dall'altra, gli spagnoli, occupano il Regno di Napoli, abbiamo del tutto distolto l'animo e la mente dalle grandissime sofferenze che ci fanno giustamente vacillare e, cosa che può forse stupire, ci siamo volti a scrivere delle virtù e dei vizi che si ritrovano nella conversazione”.

Siamo a Napoli sul finire del Quattrocento e, duramente provata dai mesi di occupazione dell'esercito francese di Carlo VIII che nel 1495 aveva invaso l'Italia, la città attraversa una crisi profonda. Come reagire, dopo essere stati confrontati agli orrori della guerra, alla presa di coscienza della decadenza politica e militare del proprio Regno e della Penisola tutta, ormai alla mercé - eccezion fatta di Venezia e Roma - delle grandi potenze straniere? La risposta data dal poeta umanista Giovanni Pontano a questo interrogativo può sembrare quella tipica di un uomo di lettere. Esautorato dagli alti incarichi che ricopriva alla corte aragonese, Pontano reagisce infatti alle sventure della vita, pubblica ritornando agli studi e invitando le élites italiane a coltivare le dolcezze della vita privata.

Eppure la sua non è, come a prima vista si potrebbe credere, una fuga dalla realtà ma, piuttosto, una strategia che punta a un paziente lavoro di rieducazione civile attraverso la pratica viva dei valori della cultura umanistica, la tolleranza, l'apertura all'altro, l'urbanitas, la civilitas. Ultimato nel 1499 e pubblicato postumo dieci anni dopo, il De sermone è un atto di fede nella forza civilizzatrice della parola e costituisce il testo inaugurale della riflessione europea sull'arte della conversazione. Per la prima volta, infatti, la conversazione viene rappresentata come un fenomeno etico ed estetico a se stante e assurge allo statuto di modello del vivere civile: modello nel doppio senso di oggetto costituito e di criterio normativo.

Non è certo sorprendente che a riprendere in mano questo testo caduto per secoli nell'oblio e a mostrarne il valore archetipico in un saggio consacrato a La conversazione. Un modello italiano(Donzelli Editore, pagg. 346, euro 28) sia Amedeo Quondam, noto specialista dei trattati rinascimentali incentrati sulle buone maniere. Scritto nel neolatino degli umanisti, e tradotto di recente in italiano da Alessandra Mantovani (Carocci Editore, 2002), il De sermone annuncia, infatti, per i temi affrontati nei «tre grandi libri del modello italiano», Il Libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione (1528), il Galateo (1558) di Giovanni Della Casa e la Civil conversazione (1574) di Stefano Guazzo.

Giovanni Pontano (Cerreto di Spoleto PG, 7 maggio 1429 - Napoli, 17 settembre 1503)

Come mostra la lettura critica di Quondam, l'obbiettivo di Pontano è precisamente quello di dare ordine e forma alla socievolezza aristocratica, trasformando il cavaliere feudale in un gentiluomo moderno, perché «se nobili si nasce, gentiluomini si diventa per cultura».

Se, infatti, il momento preso in esame dal De Sermone è quello del ritrovarsi insieme (come indica il significato originario di con-versare) nella sfera dell'ozio privato, senz'altro apparente proposito che il proprio personale diletto, sin dall'inizio della trattazione emerge con chiarezza che il discorso pedagogico dell'umanista napoletano ha in realtà una portata molto più vasta.

Modellata sulla retorica classica, anche la conversazione affabile e giocosa obbedisce infatti al principio dell’aptum (accordarsi ai tempi, ai luoghi e alle circostanze) e richiede tutta una serie di competenze, le quali, a loro volta, ne implicano delle altre che tutte assieme rinviano al modello ideale dell'uomo rinascimentale. Se affabile è «chi sa dilettare parlando e produrre allegrezza in chi ascolta», la facetio non può prescindere dalla veracitas, perché è la verità a rendere autentici e realmente possibili i rapporti tra le persone. Non meno importante, la mediocritas, la giusta misura tanto cara agli Antichi, corrisponde a sua volta alla capacità di giudizio, alla moderazione virtuosa, all'esatta valutazione della condotta da tenere in ogni circostanza.

Il De Sermone di  Pontano affronta, dunque, per la prima volta, un problema di interesse cruciale per la civiltà moderna mostrandone la complessità delle implicazioni intellettuali e morali. Ma al di là di questo è importante qui sottolineare come le drammatiche circostanze in cui il trattato ha visto la luce rivelino la sfida utopica che ne è all'origine e che continuerà a ispirare la conversazione d'Antico Regime. Le buone maniere e il buon uso della parola possono infatti, come scrive Quondam, «governare la natura degli uomini, educarla, darle forma e regola, fides e veracitas; sicurezza e onore». Una sfida in parte vincente, visto che arte della conversazione e buone maniere si sarebbero imposte nei secoli successivi come elementi distintivi delle élites europee e, pur non possedendo la facoltà di impedire le guerre, avrebbero contribuito ad agevolare il ritorno alla pace con il nuovo linguaggio della diplomazia, e ad ingentilire le usanze di una società adusa alle armi e impregnata di violenza, contrapponendo alla logica della forza quella del piacere.

Nel ricostruire la storia dei testi fondatori dell'idea moderna di conversazione Quondam non manca di accenti polemici. Egli rivendica, con «orgoglio», il primato del modello italiano e la sua diffusione in Europa e denunzia, con «rabbia», il progressivo oscurarsi del suo ricordo a favore del modello classico francese. Un occultamento che contribuisce per lo studioso ad alimentare quella «favola triste e paranoica della "decadenza" italiana nei secoli dell'età moderna». Perché, scrive Quondam, facendo suo l'apologo «Graecia capta ferum vincitorem cepit», non è possibile parlare di decadenza quando «tra Quattrocento e Cinquecento il gioco delle parti tra "la Grecia soggiogata" e il "barbaro vincitore" è, in Italia, sotto gli occhi di tutti, e fa sognare chi di modelli antichi quotidianamente vive: poter conquistare con la propria cultura il potere  vincitore».

È inutile rispondere a Quondam che il processo di appropriazione dei modelli italiani da parte delle élites francesi nel corso del XVI e XVII secolo obbedisce al principio classico dell'imitazione creatrice («prendo il mio bene dove lo trovo», dichiarerà Molière nell'attingere a piene mani al repertorio teatrale italiano). Inutile ricordargli che se, trapiantati e naturalizzati oltralpe, questi modelli si impongono all'ammirazione dell'Europa come francesi e non più come italiani, ciò dipende non tanto dalla volontà di grandeur di Luigi XIV ma dalla potenza economica, diplomatica e militare raggiunta dalla monarchia francese dopo la pace dei Pirenei e dalla sua nuova posizione di arbitro della politica europea. Quella della decadenza italiana sarà una «favola triste» ma perché la conversazione diventi una pratica culturale nazionale c'è bisogno di una società civile che la faccia sua. Una società civile che nel nostro paese, come constaterà ancora Leopardi, avrà tempi di maturazione più lunghi che in terra di Francia. Quondam è il primo a non ignorare tutto questo, come è il primo a sapere che oggi non vi è studioso della conversazione francese che non senta l'obbligo di riconoscerne i debiti nei confronti dei modelli italiani. Ma non possiamo volerne né alla sua verve polemica né alla fatica a cui sottopone i suoi lettori con una scrittura labirintica che alterna fughe in avanti a ritorni continui su cose già dette, intrecciando un linguaggio tecnico a neologismi e a termini presi da altre lingue. Quel che conta per Quondam, come pure per noi, è il suo instancabile lavoro di ricognizione erudita negli archivi della memoria letteraria del nostro più glorioso passato. Perché ogni suo libro è un nuovo contributo alla conoscenza di quella «universalissima forma» del vivere civile secondo le categorie del bello e dell'utile che, a partire dall'umanesimo italiano, ha costituito per molti secoli uno dei connotati distintivi della cultura europea.


[1] Tratto da “La Repubblica”, mercoledì 5 marzo 2008, pag. 41

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