Per i popoli arabi inizialmente la tradizione era tramandata oralmente, da cui l’importanza dei componimenti epici e poetici che servivano a perpetuare la conoscenza e la cultura di una tribù. Man mano che si andava formando una lingua comune, simbolo di una comune identità tra i vari popoli che componevano il popolo islamico, si arrivava a forme grammaticali più raffinate ed a componimenti più colti per gusti più esigenti. E se la poesia inizialmente poteva esser nata dall’esigenza di forme ritmate per incantesimi e formule magiche si è poi giunti ad uno stile ed una forma assai ricercati.
Una delle convenzioni poetiche cui si giunse era la qasida, un’ode. Poteva essere composta anche da 100 versi che esibivano una continuità di pensiero in tutta la poesia. Come si è già detto, i componimenti venivano tramandati oralmente, pur essendo la scrittura apparsa già dal IV secolo d.C. in un alfabeto aramaico, ed essendosi in seguito formato un alfabeto arabo. La poesia in genere non veniva recitata dallo stesso autore, ma da un rawi. Ecco che lo stesso componimento non era mai recitato alla stessa maniera, ne esistevano versioni differenti, finché in tempi successivi non furono messe per iscritto da critici letterari o filologi che apportarono modifiche secondo lo stile o le idee che ritenevano più corrette e componendo delle qaside con brani più brevi ed aggiungendo nuovi elementi: questa è la forma in cui sono arrivate a noi le qaside più antiche. Alcune poi, sono state prese come esemplari supremi della poesia araba cui riferirsi, dei classici, e vennero chiamate Mu’allaqat (le appese) ed i loro autori vennero considerati dei maestri di quell’arte. La poesia di quest’epoca (VII -VIII secolo) non a caso veniva chiamata diwan degli Arabi, cioè registro dei loro fatti, di ciò che avevano fatto, la loro memoria collettiva.
Ma la forma poetica più diffusa e più affermata è la qasida, in una forma elastica e variata, sebbene gli studiosi delle epoche successive abbiano voluto distinguervi tre elementi fondamentali: generalmente iniziava con una rievocazione dei luoghi dove il poeta era stato un tempo, e possibilmente ciò comportava anche il ricordo di un antico amore; poi si parlava di un viaggio sul cammello ed il poeta parlava del cammello, del paesaggio percorso nel suo viaggio, della forza ritrovata in se stesso e magari seguiva un elogio alla sua tribù di appartenenza; un terzo elemento poteva essere quello della considerazione dei limiti umani nei confronti delle forze della natura onnipossente.
Il periodo più florido per la poesia islamica è quella del periodo abbaside, una dinastia che governerà per vari secoli (VIII-XIII) in Arabia, ma che vide il suo massimo splendore nel periodo tra VIII, IX sec.
Verso la fine del X secolo in Andalusia, alla corte degli Umayyadi si sviluppò un’altra forma di poesia, la “muwashshah” e si affermò per tutto il Maghreb e fu coltivata per alcuni secoli ancora. La lingua era l’arabo colloquiale o anche la lingua romanza che si andava formando in Spagna. I temi erano quelli della qasida (elogio dei sovrani, descrizioni della natura, esaltazione di Dio), ma ogni verso terminava con un congedo.
Più tardi (XI sec.), comparve lo zajal componimento in arabo colloquiale Andaluso ed anche questa forma poetica si diffuse poi nel mondo di lingua araba.
Il fiorire di opere e forme poetiche in Andalusia è probabilmente dovuto alla presenza in quella regione di popoli, lingue (se ne parlavano 5), e culture diverse, tra loro impregnatesi e fuse.
La poesia svolgeva un ruolo importante nella cultura dei sovrani e dei ceti benestanti. E dove c’erano protettori o mecenati, lì erano poeti pronti ad esaltarli e a tesserne le lodi.
In Sicilia le innovazioni andaluse non presero piede e le poesie degli autori siciliani rimasero vicine alla forma più classica.
Già dall’epoca della dominazione aghlabita, la dinastia che iniziò la colonizzazione dell’isola, si ha una prima attività di componimenti poetici. E’ abbastanza scontato che l’ambiente da cui prese le mosse ed a cui si ispirò furono la corte e le vicende che si sviluppavano intorno ad essa. Uno dei primi verseggiatori fu il primo emiro dell’isola. Ma altri poeti erano ministri, dignitari, e militari superiori. Lo sfoggio maggiore si ebbe, però, con l’avvento della dinastia kalbita (seconda metà X sec.), dopo un periodo di dominio fatimida (non è che sotto gli arabi la situazione politica in Sicilia fosse calma tranquilla ed idilliaca. Ed a quel tempo la gestione delle vicende politiche si risolveva con lotte, battaglie e distruzioni che coinvolgevano immancabilmente il popolo).
Erano le corti i crogiuoli di arte e cultura ed erano spesso gli stessi principi a comporre poesie. (Da ciò si può dedurre una prima analogia con la scuola poetica siciliana nata alla corte degli Hohenstaufen. Del resto la cultura era appannaggio delle classi più abbienti).
Il periodo di maggior rigoglio è quello che va dal 990 al 1019. I temi tipici sono quelli del panegirico dedicato ai potenti; il motivo bacchico (ereditato dalla letteratura greca; gli arabi molto hanno preso dalla cultura ellenica e persiana); ed il tema amoroso nella versione del corteggiamento, dell’incontro e dell’abbandono. Altro tema importante è quello della nostalgia per i paesi d’origine: se prima si trattava di nostalgia per i paesi d’Oriente o nord Africa, poi la nostalgia è per i luoghi di Sicilia, divenuta terra natia delle generazioni successive dei primi coloni.
E’ da tener presente che proprio le descrizioni della Sicilia in opere di autori arabi, poesie o prose, contribuiranno ad attirare l’attenzione di nuovi conquistatori sulla Sicilia quali i Normanni o gli Angioini.
Di seguito alcune poesie di autori arabi di Sicilia, sui temi più comunemente ricorrenti nella poesia araba.
Queste poesie sono prese dalla raccolta di M. Amari e sua è la traduzione dall’arabo.
'Abu 'al Hasan Alì 'ibin 'abi 'al Basar
Ecco una gazzella ornata di orecchini,
Che mi canta le nenie quand'io son ito;
Quand'ella vede ciò che m'è successo.
Come prato variopinto,
Non mi cale [d'altro] quand'ella è meco,
Poiché nell'amor suo mi consumo,
Il suo volto è luna che spunta;
Superbisce quando ha preso tutto per sé l'amor mio;
E quindi io peno.
Sur un tralcio sottile,
Le è dolce il mio lungo dolore.
O crudeltà: ed io sto per morire!
Sdegnosa, inaccessa a pietà,
Non rifugge dal romper la fede che mi die'.
Tace ostinata;
Tiranna, ingiusta;
Diversa da quella che fu un giorno.
Oh felice chi le sta accanto!
Ibn Basurun
Questa sarebbe una poesia di al Butiri (poeta nativo di Butera) dettata direttamente dall’autore all’ antologista del XII secolo Basururn. A noi è pervenuta grazie al persiano Imad ‘ad din al Isfahani che avrebbe apportato delle modifiche e dei tagli non sopportando la eccessiva adulazione nei confronti di un infedele (re Ruggero). A tal proposito ricordiamo che molti esuli siciliani condannavano il comportamento di quei musulmani che erano rimasti in Sicilia quali dignitari del sovrano normanno.
Evviva la trionfante [reggia], che splende d'incantevole bellezza,
Col suo castello egregiamente edificato, dalle forme eleganti, dalle eccelse logge;
Con le sue belve e le copiose acque e le sorgenti [degne] del paradiso!
Ecco i giardini, cui la vegetazione riveste di vaghissimi pallii,
Ricoprendo il suolo olezzante con drappi di seta del Sinai!
[Senti] l'auretta che li [lambisce] e ti reca la fragranza dell'ambra;
[Vedi] gli alberi carichi delle frutta più squisite;
Ascolta gli augelli che a lor costume cianciano a gara dall'alba al tramonto!
Che qui Ruggiero intenda [sempre] alle grande cose, egli re dei Cesari,
Tra le dolcezze d'una vita che [il Ciel] prolunghi, e le [dotte?] brigate che son suo diletto.
Ibn Hamdis
Nasce a Siracusa nel 1056. Abbandona la Sicilia dopo la conquista normanna della città (1078). Si rifugia a Siviglia presso un amico, ma dal 1091 è costretto poi a peregrinare in Tunisia, Algeria, Maiorca. Scompare nel 1133.
Custodisca Iddio una casa di Noto e
fluiscano su di lei le rigonfie nuvole!
Con nostalgia filiale anelo alla patria,
verso cui mi attirano le dimore delle belle sue donne.
E chi ha lasciato l’anima a vestigio di
una dimora, a quella brama col corpo fare ritorno….
Viva quella terra popolata e colta,
vivano anche in lei le tracce e le rovine!
Io anelo alla mia terra, nella cui
polvere si son consumate le membra e le ossa dei miei avi
Le sollecitudini della canizie bandiscono l'allegria della gioventù. Ahi! la canizie abbuia [l'animo] quand'essa risplende!
Nel fior della gioventù fui destinato a viver lungi [di casa mia] quando quella [felice età] fosse declinata e scomparsa.
Conosci tu alcun conforto della [perduta]gioventù? [Dimmelo], perché chi sente il malore brama la medicina.
Vestirò forse la canizie col nero del hidàb; metterò su l'aurora la notte per coperchio?
Ma come sperar una tinta che duri, se non ho trovato [il modo] di far durare la gioventù?
Un legger venticello, fiato di fresca brezza, soffia soave e mormora:
A notte ella mosse, guidata da' balenii che fan piangere il cielo su' morti [distesi] in terra.
Udiasi la voce del tuono che cacciava le nubi, come il camello quando sgrida col muggito le sue femmine restie.
Ardeano i lampi d'ambo i fianchi di essa: era il luccicar delle spade sguizzanti fuor dal fodero.
Passai la notte nelle tenebre. O primo albore [io dicea] recami la luce!
O vento, quando apporti la pioggia a ricreare i campi assetati,
Spingi verso di me i nugoli asciutti, ch'io li saturi col pianto mio!
Bagni il mio pianto quel terreno dove passai la giovinezza: ah, che nella sventura sia sempre irrorato di lacrime!
O vento, che tu corra presso alle nubi, o che te ne scosti, non lasciar, no, che asseti certa collina del caro paese!
La conosci tu? Se no, [sappi] che l'ardor del sole vi fa olezzare i [verdi] rami.
Qual meraviglia? In que' luoghi gli intelletti d'amore impregnan l'aria di lor profumi.
Lì batte un cuore sì pieno [d'affetto], ch'io v'ho attinto tutto il sangue che mi corre nelle vene.
A quelle piagge riedon sempre furtivi i miei pensieri, come il lupo ritorna [sempre] a sua boscaglia.
Quivi fui compagno dei lioni che correano alla foresta: quivi andai a trovar le gazzelle in lor covile.
Dietro a te, o mare, è il mio paradiso: quello in cui vissi tra' gaudii, non tra le sventure!
Vidi lì spuntar l'aurora [della] mia [ vita] ed or, a sera, tu me ne vieti il soggiorno!
O perché mi fu tolto ciò ch'io bramava, quando il pelago mi separò da quelle piagge?
Avrei montata, invece di palischermo, la falcata luna, per arrivar a stringermi al petto il [mio] Sole! |