Pensiero Meridiano

 

Bossi, populista e servilista

di Oreste Pivetta

Si può anche capire, musicalmente, che Umberto Bossi preferisca il Va pensiero verdiano, che sono poi gli ebrei a cantarlo in esilio a Babilonia e che in bocca ai padani indigeni fa un po’ ridere. Che poi il Gran Lombardo (in tempi migliori si sarebbe subito pensato a Carlo Emilio Gadda, il degrado oggi ci trascina dalle parti del Carroccio) continui a maramaldeggiare contro l’Inno di Mameli fa pena.

Dell’allegra marcetta in passato si sono serviti in tanti. Si potrebbe ricordare, che, ad esempio, a sinistra un secolo fa lo cantavano così, nobilmente: «Vogliamo la terra/ sia patria di tutti,/ che chi la lavora / raccolga i suoi frutti/. Non più dei signori:/ ci han sempre sfruttati,/ ci han sempre rubati/ i nostri sudor».

Per compiacere i suoi sodali Berlusconi e Tremonti e per farsi riconoscere, Bossi potrebbe cantarcelo così: "Fratelli d’Italia/ l’Italia s’è desta/ ai morti di fame/ tagliamo la testa./ I nostri fratelli/ domandan mercè/ scanniamoli tutti/ nel nome del Re". Vai a capire chi sia il re.

Più banalmente da tempo i patrioti del Nord ci avevano allietato, sulle note di Tutti mi chiamano bionda, con il seguente ritornello: "E noi che siamo padani/ abbiamo un sogno nel cuore/ bruciare il tricolore/ bruciare il tricolore...". E via. Tanto perché fosse chiaro come la intendessero. Si sa che Bossi con la bandiera ci si pulisce da quelle parti. Non è una novità e il cinema leghista è ormai solo un film già visto, tra tattiche, tattichette (che comprendono anche gli omaggi al centrosinistra), minacce e insulti, tricolori da bruciare, inni di Mameli da spernacchiare... Ieri, appena lo si è visto a fianco del Gobbo, sindaco di Treviso, s’è capito che il Bossi ingrassava nel suo brodo e poteva spararle di ogni genere. L’assalto con il dito indice teso (manifestazione non proprio della tradizione padana, direi gestualità più terrona o romanesca) all’Inno di Mameli, peraltro con una lettura assai singolare del testo, dopo tanti sforzi del presidente Ciampi perché tutti lo imparassero a memoria come si deve, lo si può attribuire alla cialtronesca accondiscendenza del leader nei confronti del suo popolo, che apprezza immagini forti. Si divertono così.

Goffredo Mameli, fervente mazziniano repubblicano e paroliere, non si sarebbe mai azzardato a scrivere che siamo schiavi di Roma. Se mai pretendeva trionfalmente che la vittoria fosse schiava di Roma: un’altra cosa (anche se dobbiamo riconoscere col senno d’oggi che si trattava di una retorica stupidata). La notizia politica del giorno sarebbe invece l’apertura al partito democratico sul federalismo, contro la stato "fascista", cui peraltro si potrebbe pensare che lo stesso Bossi appartenga, circondato come si ritrova dai vari Gasparri, Fini, Alemanno, più altre controfigure. Se poi Bossi ci comunica che "è arrivato il momento, fratelli, di farla finita", non resta che attendere una mossa in coerenza: mandi al diavolo statalisti, opportunisti, berlusconisti (che hanno da pensare alla giustizia) e prenda la sua strada, che dovrebbe conoscere perché il federalismo si potrà impiantare traendo giovamento dalla lettura della tesina che il buon figliolo riccioluto Renzo ha dedicato a Carlo Cattaneo, un altro Gran Lombardo (questo autentico): la si dia alle stampe, per giudicare. Anche perché gli esaminatori della scuola privata alla quale il nostro Renzo s’era presentato per gli esami l’hanno giudicata male, bocciando il ragazzo (impreparato, han spiegato gli insegnanti, soprattutto sul resto del fronte didattico, distratto com’era dai mondiali calcistici etnici in Lapponia). Siccome cuor di padre non mente, il Bossi ha attribuito la bocciatura dell’erede ("bastonato") a uno sgarbo di esaminatori terroni, ostili al federalista Cattaneo. Tirando le conclusioni, il Bossi ha quindi spiegato che i figli dei lombardi non si faranno più martoriare da gente che non viene dal Nord, non studieranno più i nomi dei sette re di Roma, ma quelli dei dogi di Venezia (e a Genova o a Milano o a Brescia che nomi dovranno mandare a mente?).

Siamo già a una impronta chiara del futuro stato padano: tutti a casa loro. Non piacerà, ma si sappia che ci sono quindici milioni di uomini disposti a battersi per la loro libertà: i fucilieri bergamaschi, i carristi veneziani (quelli del tank sotto il campanile), i bravi montanari carichi di schioppi e pallottole, quelli delle quote latte, il Calderoli, il Cota e gli altri poltronisti pronti a mettere da parte le loro poltrone.

Naturalmente gli analisti e Berlusconi attribuiranno le avventure tra i tricolori in fiamme e le barricate scoppiettanti di Umberto Bossi alla sua verve cabarettistica oppure agli estri del condottiero che incanta le sue camicie verdi. Nessuno discute che Bossi sia un astuto politicante: con il suo carroccio ha dato da mangiare a una infinità di gente, persino a dei ministri, è pure riuscito a far salire alla terza carica dello Stato la signorina Pivetti, roba da catalogo dell’horror. È stato capace di indicare qualche sintomo del mal di pancia del Nord. È pure riuscito a imporre il tema del federalismo, di cui nessuno sentiva il bisogno, carichi come siamo di regioni e di regionalismo. Ma un uomo così, a parte le astuzie e un bilancio politico (di riforme, cioè) uguale a zero, quanto vale? Potessimo rispondere con il linguaggio schietto di cui è maestro diremmo a Bossi che ci ha rotto le scatole con il suo populismo, con il suo servilismo (a Berlusconi), con le sue baggianate contro il tricolore e contro l’Inno di Mameli (che non sono al primo posto nei nostri pensieri, distratti dalle necessità del vivere quotidiano), con i suoi lunedì di Arcore, con i suoi ministri che sono peggio della Confindustria o di un commissario di pubblica sicurezza dello Zimbawe, con i suoi avanti e indietro.

Anche lui, dopo tanto movimento, è ridotto a recitare per il potere e per Berlusconi da modesto e inattendibile e impresentabile uomo di potere in virtù di quattro idee sbilenche sul federalismo (dimenticando Cattaneo).


 tratto da http://www.unita.it/ 21 luglio 2008

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