Pensiero Meridiano

 

Parchi: utopia o realtà?

di Filomena Petruzzi

A distanza di più di un secolo da quando nel 1872 venne istituito il primo Parco nazionale nel mondo, quello di Yellowstone negli Stati Uniti dove, nonostante l’epoca non fosse pervasa dal pressante problema ambientale di oggi, si comprese che le risorse naturali andavano “dedicated and set apart as a public park or pleasuring ground for the benefit and enjoyment of the people (destinate e preservate quali parchi pubblici o luoghi di svago a beneficio e godimento delle popolazioni), in un remoto angolo d’Italia si discute ancora se il parco sia un’entità fisica o possa rimanere aereo e inconsistente.

Da questo partiamo per commentare il movimento antiparco che serpeggia tra i colli del subappennino dauno della provincia di Foggia. Il subappennino o preappennino è una lunga sequela di colline, talvolta monti, che si dipana ai confini occidentali della provincia di Foggia a formare un arco concavo ad est. Precede le più imponenti vette dell’Appennino. È una terra di confine come ce ne sono tante in Italia, luoghi dove le genti si mescolano da secoli, dove i dialetti prendono sfumature particolari, a volte campane, a volte molisane o abruzzesi.

In queste terre l’economia rurale è sempre stata dominata dalla terra, ché altro fino a pochi decenni fa non c’era, l’uso del bosco in primis, castagni per mangiare e legna da ardere, boschi che poi cominciarono ad essere punteggiati di campi coltivati. La coltivazione della terra divenne sempre più preponderante fino a rendere marginale l’economia del bosco, decretando l’abbandono di pratiche agricole antiche che mantenevano il bosco in condizioni di produrre senza essere distrutto. L’aumento della superficie coltivata si andò estendendo di pari passo con l’avvento dell’agricoltura meccanizzata che alleggerì il lavoro dell’uomo. Era iniziata l’era moderna dell’agricoltura che porterà ad aumentare le produzioni ma anche ad un impoverimento del suolo e ad una drastica riduzione delle aree boscate. Un’avanzata tecnologica non sostenuta dall’adesione, dalla salvaguardia dell’antico, atavico, valore naturalistico e simbolico del bosco.

Cosa rimanga oggi della vasta cultura del bosco e quindi di quell’innata cultura “del naturale” delle genti di questi luoghi, è difficile a dirsi. La distruzione della vegetazione spontanea è in alcune aree intensa, il suolo rimane esposto senza alcuna copertura vegetale per lunghi periodi dell’anno fino alla semina. Il suolo ha perso gran parte delle sostanze organiche che dovrebbero permetterne la fertilità. I fenomeni franosi non si contano. Il bosco, dove è presente, è abbandonato oppure diventa oggetto di nuove e più violente aggressioni, come l’apertura di strade, l’installazione di pali eolici, gli incendi estivi.

In questo quadro desolante la cultura del parco stenta ad affermarsi, è vista con diffidenza e comincia ad essere osteggiata. Il tutto senza neanche aver provato ad attuarla in quest’area. La marginalità dei luoghi e la declamata “povertà” degli abitanti sono gli argomenti principali per affossare quanto di positivo c’è nel concetto di parco.

Prendendo ad esempio il succitato pensiero del presidente americano Grant il parco dovrebbe essere considerato come un modo di sperimentare un nuovo approccio al territorio. Un approccio pianificato quindi che richiede un programma, un progetto complessivo risultato delle migliori idee in campo; un  progetto complessivo di sviluppo e di conservazione, di uso del territorio contrapposto all’abuso, di miglioramento ambientale contrapposto al degrado attuale. Per “realizzare” un parco, oltre ad istituirlo, occorre una visione politica che, in quanto tale, sia proiettata nel futuro e garantisca alle popolazioni locali non solo un buon tenore di vita (peraltro già raggiunto) ma quella qualità della vita che ci si aspetterebbe da piccoli paesi di collina/montagna.

Sostituire il concetto di parco, frutto di una evoluzione ultracentenaria, di sperimentazione in varie aree del mondo o, volendo rimanere in Italia, applicato in situazioni analoghe a quella del subappennino pugliese, lungo tutta la dorsale appenninica, senza modelli alternativi, è solo uno stratagemma utile per il permanere dello status quo fatto di degrado del territorio, di “sperimentazioni” di abusivismo diffuso, di mancanza di regole alle quali debbano attenersi in primis gli amministratori e un attimo dopo tutti gli abitanti.


l'articolo è un contributo al sito di Filomena Petruzzi

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