E l’industria del
nord scese a patti con i boss
di Salvatore Parlagreco
Andrebbe riscritta la
storia di questo paese, raccontato come una comunità di buoni e cattivi,
fannulloni e intraprendenti, imprenditori sagaci e parassiti indolenti.
Bisognerebbe mettere insieme il mosaico di un’Italia unita più di quanto si
immagini, dove alcune “famiglie” del Sud e imprenditori intraprendenti del
Nord hanno fatto, insieme, fortuna. Dobbiamo sfatarla la leggenda di un Nord
che si scrolla di dosso i clan come fossero mosche cocchiere, e di un
Mezzogiorno che li fa nascere e li alleva.
L’industria del nord
si è alleata con le mafie tutte le volte che gli è convenuto farlo. Gli
episodi che provano in modo inconfutabile questa storica alleanza sono tanti
e sotto gli occhi di tutti. L’inchiesta più recente, quella della Dda di
Caltanissetta sulla Calcestruzzi spa, vede tra gli indagati Carlo Pesenti,
amministratore delegato della Italcementi, con l’accusa di concorso in
riciclaggio, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita,
frode nelle pubbliche forniture, inadempimento di contratti nelle pubbliche
forniture e truffa, reati aggravati dall’avere avvantaggiati Cosa nostra.
Appena una settimana
fa il Capo dello Stato ha ricordato al leghismo indignato e insofferente
della "Padania" che le imprese del Nordest hanno usato le discariche campane
per lo smaltimento dei rifiuti tossici con il concorso dei clan camorristici.
Un grande business, benedetto con il silenzio dal Nord duro e puro. I clan
di camorra hanno messo a disposizione delle imprese del Nordest ottocento
tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, proprietà di un’azienda
chimica, per le discariche illegali a prezzi stracciati.
Nel settore dell’alta
velocità, restando in Campania, gli intrallazzi tra imprese settentrionali e
clan camorristici hanno rastrellato risorse pubbliche per diecimila miliardi
di lire, di cui solo mille hanno remunerato le imprese per le opere
realizzate.
L’alleanza tra grandi
gruppi industriali e mafie meridionali non è un fenomeno recente. Già negli
anni novanta la magistratura scoperchiò la pentola della Ferruzzi spa, una
holding di Ravenna presente nell’isola nel campo delle costruzioni,
scoprendo che i suoi manager trescavano con i “corleonesi” per aggiudicarsi
gli appalti pubblici più remunerativi. Le indagini avviate a suo tempo da
Falcone , hanno provato che la Calcestruzzi di Ravenna nel 1986 si era
intestata fittiziamente le quote di una società di proprietà del boss di
Passo di Rigano per sottrarla alla confisca.
La Santa Alleanza tra
management del Nord e boss meridionali è ancora più vecchia. Nelle aree
industriali della Sicilia sono nate e si sono radicate le più potenti
organizzazioni criminali siciliane. Se avessero incontrato resistenze,
l’esodo dei gruppi criminali non si sarebbe verificato. Il caso della
Lodigiani, una grande impresa del Nord molto presente in Sicilia, ci
permette di capire più da vicino il rapporto fra impresa e mafia: la
Lodigiani negli anni di Mani pulite, fu incriminata da 11 procure per le
mazzette, ma in Sicilia dovette rispondere di un reato “supplementare”, il
collegamento con la mafia. Gli incriminati lamentarono l’esistenza di un
doppio regime giudiziario, e cercarono di dimostrare di essersi comportati
allo stesso modo ovunque. Morale: mafia o non mafia, l’impresa del Nord
guarda alle convenienze. Se andasse in Arabia Saudita regalerebbe “l’obolo”
alla famiglia regnante. Se non si può fare di tutta l’erba un fascio, si pur
accettare l’ipotesi che molti fattori, come l’assenza dello Stato,
l’attitudine meridionale al comparaggio, il business disinvolto e i vantaggi
politici abbiano concorso all’inquinamento del mezzogiorno. Che non si sia
trattato di un fenomeno sporadico, legato a singole persone o imprese e
circoscrivibile ad alcune zone e imprese del Nord, è abbondantemente
provato: la “colonizzazione” mafiosa delle aree industriale non ha infatti
risparmiato alcuna area industriale né le imprese a partecipazione statale.
Cioè un pezzo dello Stato, che avrebbe dovuto svolgere un ruolo di
scardinamento dei potentati politico-mafiosi.
Arrivate in Sicilia
per liberare l’isola dal sottosviluppo, le partecipazioni statali finirono
con l’alimentare l’industria del malaffare con il loro management
prevalentemente padano.
La storia di Gela è
esemplare. Era una comunità litigiosa, ma non ospitava racket né crimini di
mafia. Un paesone vivace ma lontano dal Vallone e dalla lupara riesina. Fino
all’inizio degli anni Settanta, i boss - arrivati a frotte e tutelati dalla
politica nissena - si ritagliavano in pace, comunque senza spargimento di
sangue, le loro aree di competenza lungo il fiume di denaro che affluiva a
Gela dall’Eni e dalla Cassa per il Mezzogiorno. Fino a che Cosa nostra
impose obbedienza e la Stidda pretese di fare da sé, prendendosi il
controllo del traffico gommato (il capo dei padroncini era anche il capo
della Stidda). Non ne sapevano niente i dirigenti dell’industria di Stato?
Gela di buon animo
assecondò il suo destino, uguale a quello delle aree del sud chiamate a
ospitare l’industria. Depositaria di virtù taumaturgiche, che gli esperti
definivano effetti moltiplicativi, la fabbrica conquistava anche le migliori
coscienze. Quando le trivelle dell’Agip toccavano lo strato di greggio, la
gente aveva la sensazione che nelle tasche stessero per depositarsi
banconote di grosso taglio. Ma non era così, credevano nelle favole.
Gli effetti
moltiplicativi ci furono, solo che non riguardarono le nuove fabbriche, ma
le bande criminali: le mafie trasformarono la città in un inferno, fu l’americanizzazione
dell’ “onorata società” (bande di gangster con regole antiche). Lo Stato non
c’era e se c’era dormiva. La popolazione e i bisogni si triplicarono in
pochi anni, ma tutto rimase come prima: stessa quantità di acqua nei
rubinetti, di aule scolastiche, letti d’ospedale, medici, poliziotti. I
magistrati non c’erano prima e continuarono a non esserci. L’aria sapeva di
zolfo, avvelenava gli alberi, appestava gli animali e la gente, i pesci
morivano o scappavano dal loro mare insieme con le lampare. L’industria
desolava la città ma nessuno capiva niente di quello che effettivamente
stata succedendo. Tutti erano d’accordo che succedesse, perché finalmente
arrivava il lavoro e gli strumenti di produzione erano in mano allo Stato e
non in mano ai padroni. Occhi bendati e occhi spalancati non videro il
dominio mafioso sull’appalto pubblico delle grandi opere e sull’appalto
pubblico-privato distribuito dai grand commis di Stato, che da Milano
e Roma dirigevano il traffico senza rischiare le pallottole.
In Sicilia, come in
Campania e in Calabria, clientele politico-mafiose, manager del Nord, cecità
ideologiche hanno partecipato al disastro meridionale, e continuano a farlo.
Siccome da questo disastro hanno tratto utili in tanti, è possibile nutrire
dubbi sulla volontà di ricostruire.
La Repubblica-
Palermo, 21 giugno 2008 |