Ma siamo
sempre fermi a Eboli. Inutilmente Levi, la Ortese, Tomasi di
Lampedusa, Sciascia e ora Saviano hanno denunciato e proposto, fatto
analisi, ma la classe politica non è stata mai al livello della
classe intellettuale, l'ha semplicemente ignorata per inseguire le
proprie trame non sempre lecite. Quando Rosi ed io con Le mani
sulla città denunciammo, ancora in tempo utile, l'orrenda
speculazione edilizia che ha trasformato la bella Napoli della
cartolina col pino in un'orrenda megalopoli sudamericana con
relative favelas, chi ne prese atto? Quali furono i provvedimenti
presi dalla politica, escluso quello di ostacolare l’assegnazione
nel 1963 del Leone d'Oro che la giuria invece attribuì al film? La
voce di Napoli non supera la linea gotica, non la supera il
Mattino, non la supera ogni evento culturale nato a Napoli, non
il Premio Napoli, non la Fiera del Libro, non il nuovo Museo d'Arte
Moderna, non la supera perché all'Italia la voce di Napoli non
interessa. All'Italia no, ma al mondo sì invece, il mondo l'ascolta.
Il Cristo di Levi, il Gattopardo, Gomorra,
Le mani sulla città, tanto per fare qualche esempio, sono
conosciuti ed onorati in tutto il mondo. Napoli è l'unica città
italiana che da ogni anno con un romanzo o un saggio una
rappresentazione critica di se stessa. L'ultima in ordine di tempo è
Napoli Ferrovia di Ermanno Rea. Ma chi ne tiene conto? E la
classe politica che dovrebbe essere più interessata ad ascoltare la
voce di Napoli, la classe politica italiana, e non solo napoletana,
ad interessarsi di più alla cultura.
Ora credono
di liberarsi del problema Sud con una ingente somma di danaro mal
speso, ora inviando l'esercito, ma sempre con l'idea di trattare con
«quelli là», non con qualcosa che strettamente li riguarda.
Con l'esercito fecero l'Annessione senza stipulare alcun patto, con
l'esercito adesso vorrebbero fare la dis-Annessione dalla
monnezza. Siamo sempre lì. Allora per favore non diciamo che il
Sud è senza voce, diciamo che ha tutte le colpe ma non questa.
Diciamo anche che l'Italia non ci vuoi sentire. Come si fa a non
curarsi della gente, a buttarla nelle varie Scampie e
favelas, a non creare occasioni di lavoro a una popolazione
indigente, a tenerla in condizioni di vita peggiori di quelle in cui
si trovano i rom nei loro campi, e poi pretendere la raccolta
differenziata, la coscienza civica e tutto il resto. Non può il
governo centrale abbandonare la gente così e poi colpevolizzarla.
Chi semina vento si sa cosa raccoglie.
Ecco, ora
segue l'articolo sulla Ortese che avevo scritto. Tratta di argomenti
non lontani da questi ma li prende da un punto di vista diverso e
con una voce particolare, la voce poetica di Anna Maria Ortese.
Anche Anna Maria accusava gli intellettuali del Sud, quasi che lei
non ne facesse parte. Ma dico di più: che la vulgata
colpevolizzatrice è tanto forte in Italia che i napoletani stessi
per primi ci credono, e sembra sempre che ognuno di loro debba
giustificarsi di colpe storiche che invece appartengono a tutti.
Come dicevo,
ho riletto II mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, che
Adelphi ripubblica. È un libro che a suo tempo fece scalpore, non
meno di quanto oggi Gomorra, perché toccava un punto dolente nella
storia della città. Come mai Napoli non è riuscita mai ad esprimere
una classe intellettuale capace di incidere sulla vita della città e
di colmare il fossato esistente tra la borghesia (la classe
dirigente) e il popolo, o meglio quella parte della popolazione
chiamata plebe? Nel capitolo intitolato «il silenzio della
ragione», la Ortese scrive: «Esiste
nelle estreme e più lucenti terre del Sud un ministero nascosto per
la difesa della natura dalla ragione, un genio materno d'illimitata
potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui
dormono quelle popolazioni. Se solo un attimo quella difesa si
allentasse, se le voci dolci e fredde della ragione umana potessero
penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata».
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Nell’immagine il grande Raffo, autore napoletano
di graffiti, reinterpreta in questo modo l'Urlo di Munch tra i
sacchi dei rifiuti e il Vesuvio (Ansa) |
Cosa
intendeva la Ortese per ragione e per natura? La ragione non poteva
essere che quella pragmatica di ogni moderna democrazia, fondata su
una società civile obbediente alla Napoli», ora legalità. La natura
erano i miti che i napoletani continuamente cantano a se stessi e
che ne hanno determinato la mentalità e segnato il destino.
La Ortese
sperava, anzi aveva sperato, che la cultura proposta da un piccolo
gruppo di intellettuali riuniti intorno alla rivista Sud,
diretta da Pasquale Prunas, un gruppetto di cui lei faceva parte con
altri suoi amici, tra cui c'ero anche io, avrebbe potuto cambiare le
cose, avrebbe potuto «rimuovere il mito terribile del sentimento,
chiarendo tutte le alterazioni e deformazioni cui esso aveva
condotto l'odierna società partenopea». Certo è che quando
scrisse Il mare non bagna Napoli (nel 1953) ogni illusione
era svanita ed era sopravvenuta in lei una delusione enorme. Ne
fecero le spese tutti i suoi amici di una volta, contro i quali lei
si rivoltò quasi fossero essi per primi i colpevoli, i nemici di
quella ragione. E li descrisse criticandoli in modo spietato,
soprattutto Compagnone e Rea, di cui dipinse due memorabili
ritratti.
Adesso che
quegli amici sono quasi tutti morti e io sono quasi l'unico
superstite di quel tempo, posso confermare non solo quel che in
verità ho sempre detto, che Il mare non bagna Napoli è un
libro bellissimo, ma anche che Anna Maria aveva individuato bene il
punto dolente della questione napoletana, e l'occulta causa della
sua irrisolvibilità. Solo che i colpevoli non eravamo noi, come lei
semplificando mostrava di credere, ma era di quel ministero nascosto
cui lei stessa aveva accennato.
Dopo questa
premessa, e cessata ogni polemica, mi sembra che oggi io possa
considerare questo libro dal solo punto di vista letterario come un
esempio notevole di quel saggismo creativo che si avvale di uno
stile misto, autobiografico e narrativo, per raccontare con estrema
libertà la realtà che interessa lo scrittore.
La finzione
su cui si regge il libro è che l'autrice sia stata invitata da un
giornale del Nord a fare un'inchiesta sui giovani scrittori
napoletani. E in effetti così fu. Ma ho detto finzione perché
lei si comporta non come una che conosce benissimo la città e le
persone di cui parla, ma come una, che appena arrivata le scopre,
scopre uomini e cose e se ne meraviglia, quasi che li vedesse per la
prima volta. Il suo deliberato straniamento, insomma, l'aiuta a
rendere più intensa la sua visione e i suoi sentimenti verso la
città e gli amici, ma proprio in questa intensità, sapendo come
stanno le cose, io sento un che di eccessivo e un suono un po’
falso. E rivelatore in questo senso mi pare il primo bel racconto
del libro, quello intitolato «Un paio di occhiali» dove c'è una
bambina «cecata» (cioè miope) cui viene finalmente regalato un paio
di occhiali, ma quando la bambina se li mette e vede lo squallore
del vicolo in cui vive, scoppia a piangere disperatamente. Non si
può fare a meno di pensare che è lei, la scrittrice, la bambina «cecata».
Cecata dall'illusione prima e dalla delusione dopo, che non le fanno
mai vedere la realtà come effettivamente è. Se chi scrive prima si
illude su una determinata realtà e poi ne è deluso, finisce per
alterarne la stessa percezione. Di conseguenza la rappresentazione,
anche se artisticamente riuscita, risulterà alterata. E questo mi
pare che accada anche in un altro capitolo del libro intitolato
«La città involontaria». È questo un edificio della lunghezza di
circa 300 metri chiamato III e IV Granili, un ghetto della povertà e
dell'abbandono. Non si capisce come, dopo aver letto la descrizione
della Ortese, qualcuno abbia potuto pensare di costruire «Le vele»
di Secondigliano. Un segno dell'ignoranza della classe dirigente e
della nessuna influenza degli intellettuali e delle loro denunce,
un'altra sconfitta della ragione insomma. C'è qualcosa di grandioso
nella tetraggine e nell'orrore di questa rappresentazione, qualcosa
di goyesco nel suo cupo splendore, e qualcosa di diverso dal
realismo della narrativa meridionale che l'aveva preceduto. Eppure
ci si domanda (e se lo domanda anche la Ortese), se quella realtà
che lei descrive l'abbia talmente soggiogata da farle «confondere
una rappresentazione con la vita stessa», come lei scrive, e la
«città involontaria» con Napoli.
Con lo stesso
sguardo nel capitolo «il silenzio della ragione» ella rivide i suoi
amici d’una volta e li descrisse con sottile ma penetrante crudeltà,
notando ogni loro difetto fisico e morale. Oggi si può dire che
quello di Compagnone e quello di Rea sono i più bei ritratti della
letteratura italiana contemporanea? L'unico appunto che si può fare,
è che sono troppo calcati su due personaggi esistenti, e perciò non
hanno il carisma dei personaggi inventati dai grandi romanzieri,
quelli che diventano universali perché ognuno può ritrovarvi una
parte di se stesso. Rea e Compagnone sono criticati non perché fanno
qualcosa, ma perché sono come sono. È giusto? Ancora un altro
appunto, marginale: è lecito usare in tal modo due persone con tanto
di nome e cognome? E se quei due scrittori, invece che Compagnone e
Rea, fossero stati, mettiamo, Vittorini e Pavese, la cosa sarebbe
passata liscia? Ma quei due erano scrittori napoletani innanzitutto,
e dunque già pregiudizialmente destinati ad essere caratteristici.
La Ortese aveva soltanto resa letterariamente più pregevole la
caratterizzazione.
Infine
un'osservazione generale: a Napoli la borghesia non ha mai parlato
veramente di se stessa, nessuna recherche nell'interiorità,
non si è voluta mai guardare dentro, non si è mai confrontata col
mondo. È stato quasi sempre l'elemento locale che l'ha attratta e
sopraffatta. Se non si è capaci di criticarsi, di confrontarsi col
mondo, di conoscerei e di giudicarsi, come si fa a sapere chi si è?
Come si fa ad essere classe dirigente se non si sa chi si è? Lo
sguardo impietoso di Anna Maria Ortese ne II mare non bagna
Napoli ha rotto un tabù e costretto finalmente la borghesia
vedersi e a parlare di se stessa fuori dagli schemi consueti. Ha
provocato un trauma? Ha esagerato? Ha semplificato? Si è fatta,
trasportare dal sentimento e dal risentimento? Può darsi, ma ha
scritto un bel libro, una memorabile testimonianza, necessaria a
chiunque voglia comprendere qualcosa su Napoli.
[1]
Tratto da “Il Corriere della Sera”, 30 maggio 2008, pag. 47 “Napoli
alza la voce, ma l’Italia è sorda” di Raffaele La Capria |