Tra Carlo
Michelstaedter, nato a Gorizia nel 1887 e morto suicida il 16
ottobre del 1910, e Maria Zambrano, nata nel 1904 a Vélez – Malaga e
morta a Madrid, dopo un esilio di 45 anni, a Madrid nel 1991, i
luoghi di un esistere metaforico insistono in un intreccio tra
l’amore come persuasione e la morte come accettazione in un
intreccio, in cui destino e metafisica dell’anima diventano un unico
segno di un tempo che resta definito nella storia ma indecifrabile
in una ragione poetica.
Perché
insieme il poeta e filosofo italiano e la filosofa del mistero
poetico spagnola in una contemporaneità fatta di modernità,
modernismo e incompatibile gesto della tradizione? Perché entrambi
si trovano a misurarsi con il sentimento del tragico che recita una
costante rappresentazione: in Michelstaedter la variante della fuga
diventa tempo della morte, nella Zambrano il viaggio vive dentro il
tempo dell’esilio.
Ma c’è una
dimensione poetica che lega i due mondi e li lega intorno ad una
dimensione che è quello dell’onirico percorso tra il buio della
coscienza e la luce della parola. In entrambi la metafisica della
parola diventa una vera e propria metafisica dell’anima.
La notte di
Michelstaedter: “Tace la notte intorno a me solenne/le ore vanno e
sfilan le memorie/siccome un nero e funebre convoglio” è la notte
che non conosce il chiarore. In Zambrano, invece, il bosco ha sempre
un suo chiaro perché in esso la “bellezza” diventa una mediazione
tra l’angoscia e la possibilità della luce. Nella Zambrano è la
speranza che vibra i destini violati della disperazione che entra
tra le pieghe del divino.
In
Michelstaedter non c’è alcuna verità se non attraversata dall’agonia
esasperante. È certo che in entrambi la confessione della parola si
fa biografia. Non si tratta soltanto di una meditazione –
contemplazione giocata intorno al rapporto filosofia – poesia o
viceversa. Piuttosto si entra in un travaglio in cui la ragione
dell’essere si fa azione come nel caso di Michelstaedter passando
attraverso il senso poetico ma si identifica in una specificità
sostanzialmente onirica che oltrepassa sia la storia che il tempo
come nella Zambrano.
E perché
riconsiderare queste due voci, questi due volti, questi due
percorsi? Perché nella crisi della modernità non può esserci una
chiave di lettura se non viene ad essere filtrata dal concetto di
destino tra una concezione mitico – simbolica e una deriva che
approda allo scoglio senza la conoscenza della possibilità della
speranza sognante. Perché è solo la speranza che filtra la luce del
sogno. Ma nella civiltà del bosco, nella quale ci troviamo ad essere
collocati come temperie storica, bisogna pur rintracciare un
chiarore lunare.
Dalla morte –
vita recitata da Michelstaedter bisogna andare oltre e attendere
l’aurora della Zambrano. In fondo dove termina il disperante
groviglio di Michelstaedter comincia l’agonia che condurrà ad un
sapere dell’anima tratteggiato in un suo importante saggio (che
porta il titolo “Verso il sapere dell’anima”) da Maria Zambrano.
Con
Michelstaedter si chiude un Ottocento che ha saputo leggere le
prospettive del secolo nuovo introducendo però una letteratura
completamente affidata sia all’enigma che al vuoto superando la
disdicevole congiura tra malinconia e nostalgia contaminata sia da
Manzoni che da Pascoli e da tutto un cordone romantico che resta
ancorato al secolo vecchio e non antico. Una tradizione che “uccide”
il senso della rivoluzione dell’uomo moderno e che proprio in virtù
di questo concetto di secolo vecchio traccia un profilo della crisi.
Questa crisi
sta anche nella impossibilità di sradicare il romantico senso della
morte e lo consegna, proprio nei modi e nei termini del romantico,
al Novecento. Michelstaedter è uno dei maggiori interpreti di questo
equivoco. Il suo suicidio resta proprio in questo tragico intaglio
tra un secolo finito che, comunque, non smette di dettare aforismi
di morte e il desiderio di non perdersi pur sapendo, lo sottolinea
spesso Michelstaedter, con Matteo, che “gli uomini cercano e
perdono”.
Michelstaedter è, in un certo qual modo, un profeta nella
disperazione del Novecento. Maria Zambrano raccoglie questa profezia
e la legge, però, sul piano di un tempo che si confronta con la
storia perenne ma la intavola sul sottile desiderio di un destino di
speranza nonostante la sua inquiete fisionomia di scrittrice
errante. Ma è dentro il Novecento.
Non si lascia
intimorire né della scialba decadenza di Pascoli e tanto meno dal
secolo vecchio, perché la Zambrano vive nella pazzia pirandelliana e
nella poetica di Machado, perché immediatamente la sua scrittura si
impne come ragione storica e come ragione poetica in una estetica
che lega e unisce, nelle distanze e nelle vicinanze, Seneca a Garcia
Lorca e alla temperie di una agonia qual è quella dell’Europa che
strappa la sua geografia sulle eredità mediterranee e sulla scia di
una tradizione dei sufi e sciamanica.
Solo una
personalità come la Zambrano può raccogliere l’identità stoica con
il barocco, la follia di Don Chisciotte con la “Città di Dio” di
Agostino, la fiamma di Cristina Campo con la magia di Elemire Zolla.
Una follia che le fa vincere il sentimento di morte, il quale lo
interpreta con Unamuno come il sentimento tragico della vita e resta
tale proprio per non lasciarsi aggredire dalla “illusione della
persuasione” segnata da Michelstaedter.
Due
interpreti di un secolo che sarà breve e lungo, ovvero il Novecento.
Due protagonisti camminanti nel silenzio della parola che hanno
individuato la crisi della modernità o la crisi nelle modernità. Un
sentiero nella classicità romantica che cerca capri espiatori per
vendicarsi della rivoluzione barocca e che individua, comunque, nel
Novecento l’espiazione del “sogno creatore”.
La
disperazione di Michelstaedter e l’agonia della Zambrano in un
processo culturale, tra poesia e filosofia, fattosi biografia. Il
suicidio e l’esilio. Due temi caratterizzanti in un omerico e
virgiliano intreccio al cui centro però resta la crisi, la quale, in
letteratura, ha condotto alla morte della storia e mai del tempo da
una parte e alla follia nella speranza che ha unito la storia al
tempo.
Due
condizioni di un esistere che costituiscono l’immagine provvisoria e
precaria di un Novecento che si è mosso tra l’esilio e il viaggio,
tra il tragico e l’equivoco, tra la maschera e il tentativo di
salvezza. Per Michelstaedter non c’è salvezza (“la vita nella
morte”) se non nella morte (“la morte nella vita”). Per la Zambrano
la salvezza è nell’anima. L’anima come atto creativo. E la bellezza
resta mediazione.
Un Novecento,
dunque, che assorbe il vecchio dell’Ottocento ed ha apparentemente
una sua struttura coerente per inventarsi la dinamicità della crisi.
Nel tempo che viviamo non dovremmo più parlare di crisi del moderno
ma di sconfitta o di vittoria. Quale secolo è rimasto sconfitto, nel
gioco tra disperazione e agonia, quale secolo è uscito vincente?
Forse siamo
in una attesa in cui la pacificazione tra poesia e filosofia diventa
un atto dovuto ma ormai scivolato nell’indifferenza. Michelstaedter
è la lenta persuasione della morte. La Zambrano è nel teatro delle
maschere (Picasso) e della solitudine dello spazio (de Chirico). Due
tempeste in un secolo non definito e non ancora finito.
Testo
inviato dall'autore al Portale del Sud nel mese di maggio 2010 |