Ninuccia
è una canzone del 1894 di buona qualità ma niente più di questo ,
nonostante sia opera di due tra i più validi autori di canzoni
napoletane: Giambattista De Curtis e Vincenzo Valente. De Curtis
ha il vanto di aver firmato due canzoni di fama internazionale,
Carmela e Torna a Surriento, oltre che numerosi
altri successi (Amalia,
’A muntanara,
’A surrentina,
’I m’arrircordo ’e te
(Lucia Lucì),
…). Valente è uno dei più validi ed eclettici compositori del
suo tempo, non inferiore nemmeno a Costa, ed universalmente
stimato ed apprezzato.
Giambattista De Curtis è
un artista poliedrico: pittore, decoratore, autore teatrale,
poeta e musicista. Non credo si sia distinto molto nelle prime
due attività visto che non viene mai citato per qualche suo
quadro o per i suoi affreschi all’Imperial Hotel Tramontano di
Sorrento. Limitate, poi, sono le notizie sui suoi lavori
teatrali che non hanno lasciato alcuna traccia.
Riguardo alle sue qualità poetiche il Dizionario Biografico
Treccani dedica al nostro autore una breve ma esauriente
monografia, mentre Enrico Malato non ritiene di doverlo inserire
nella sua Poesia Dialettale Napoletana. Viceversa Ettore
De Mura nel suo Poeti Napoletani dal Seicento ad oggi, lo
cita con l’appellativo di “Salvator Rosa contemporaneo” e
ne dà un giudizio lusinghiero (ma difficilmente De Mura esprime
giudizi negativi). Sebastiano Di Massa, che erroneamente ritiene
il poeta di Sorrento (De Curtis nasce a Napoli), lo colloca tra
i “canzonieri”, cioè tra i verseggiatori capaci di scrivere solo
belle canzoni (quindi sarebbe, diciamo così, un poeta minore).
Nelle sue composizioni
più riuscite la bellezza della natura, ed in particolare di
Sorrento, svolge un ruolo fondamentale nella sua ispirazione
perché egli sa ampliare le vibrazioni del paesaggio e porle in
risonanza con le sue emozioni e perché la sua capacità creativa
è vissuta come intensa soddisfazione dell’anima, espressione
mirabile che eleva i sentimenti, i quali, proiettati
nell’incanto dell’ambiente circostante si placano, sublimano, si
innalzano, assumendo la dolcezza del canto. La poesia migliore
di questo pittore-poeta è, perciò, tutta colore e sentimento,
con caratteri di spontaneità, immediatezza, semplicità di
sentimento nei quali la natura assume le tonalità del suo stato
d’animo. La spontaneità e l’immediatezza, però, spesso sono un
limite per De Curtis perché non lasciano spazio allo scavo
interiore, alla riflessione, al superamento dell’esperienza
sensibile ponendolo così nella condizione di autore facile, di
abile versificatore adatto al salotto per il contenuto amoroso
ed allusivo delle sue composizioni. Malgrado questi limiti ed il
fatto egli il più delle volte non riesca ad innalzarsi dal
lavoro di routine e dall’ovvietà bisogna tuttavia riconoscere
nei suoi versi, al di là delle immagini proposte, un impeto ed
una passione sincera ed un entusiasmo coinvolgente.
Nel caso specifico,
Ninuccia, non è certamente un brano che arricchisce lo
scenario della poesia napoletana. Poco sentita, poco ispirata,
impostata come una favoletta (Se
dice che a Tuleto nc’è ’na rosa / che cchiù d’’o sole li
bellizze tene),
intrisa di malizia, tratta di una donna, Ninuccia, la
rosa oggetto del desiderio del poeta, la rosa che è possibile
incontrare ogni sera (sic!) a Toledo.
Eccone il testo:
I
Se dice che a Tuleto
nc’è ’na rosa
che cchiù d’’o sole li
bellizze tene:
È sempe fresca e sempe
cchiù addurosa;
tanta ch’è bella chi
v’’o po’ cuntà!
I’ nun voglio gran cosa,
i’ nun cerco nu regno;
ma vurria chella rosa
solamente addurà.
II
I’ si tenesse ’a voce e
’o ppoco ’e sorte
me faciarrie sentì cu
sta canzone;
Ninuccia mia, pe’ te ne
piglio ’a morte,
stu core nun se vo’
capacità.
I’ nun voglio gran cosa,
i’ nun cerco nu regno;
ma vurria chella rosa
solamente addurà.
III
I’ passo pe’ Tuleto
tutte ’e ssere
’a guardo e nun me
stanco d’’a guardà:
’a penso e nun me lassa
stu penziere...
e doppo muorto chi s’’a
vo’ scurdà!
I’ nun voglio gran cosa,
i’ nun cerco nu regno;
ma vurria chella rosa
solamente addurà.
Come è facile evincere
la rosa di cui parla il poeta non è soltanto il nome usato per
indicare Ninuccia ma anche un modo dissimulato per riferirsi
alla sua “passerina”. La rosa come allusione al sesso femminile
non è una metafora nuova: già in diverse altre canzoni
precedenti è possibile trovare il termine “rosa” come
figurazione della vagina. Così ne La Fata di Amalfi si
legge l’espressione «Ma la rosa s’è sfrunnata…» per
indicare la perdita dell’illibatezza della donna mentre nella
Tarantella napoletana di Marco D’Arienzo troviamo
Tu porzì tiene na
cosa,
Carmenè, che fa pe
mme:
È na bella e fresca
rosa
Che cchiù cara, no,
non c’è.
Pe no poco, no
momento
Dalla a me, sperenno
io sto:
Famme, sì, famme
contento,
Carmenè, dammella mo.
quale richiesta di
prestazione sessuale e la stessa richiesta è presente ne Lo
rialo di Giacobbe di Capua:
Ma io saccio che t’è
cara
Sta rosa che
t’abbella;
Dammè dammè dammella,
…
Salvatore Di Giacomo ci
informa poi che, nel 1855 nei salotti-bene napoletani
furoreggiava La rosa, attribuita a Marco D’Arienzo, che
sull’argomento rosa-sesso è ancora più esplicita delle
precedenti canzoni citate:
Sta rosa ca pretienne
manco la può guardà!
...................................
quanno te dò lo core
sta rosa toja sarà...
Quando De Curtis scrive questa canzone
ha 34 anni ed è un bel giovane gaudente, amante delle belle
donne e della bohème spensierata e sregolata della
Bella Époque. Le poesie che scrive in questi anni
ritraggono in modo arguto ed allusivo
donne incontrate nelle sue frequenti ed occasionali avventure
galanti e forse Ninuccia potrebbe essere fra queste.
La canzone appartiene comunque
a un filone della sua ispirazione che non è quello migliore
perché in esso manca quella componente essenziale per il pittore
quale egli è: quel paesaggio la cui importanza, come già visto,
è fondamentale per la sua vena creatrice.
Ninuccia,
rispecchia, tra il sentimentale e il malizioso, il romanticismo
galante di fine Ottocento. In particolare, nel ritornello il
poeta afferma candidamente di contentarsi di “poco” da
Ninuccia (I’ nun voglio gran cosa, / i’ nun cerco nu
regno), in realtà, invece, sta chiedendo “molto”: ...
vurria chella rosa / solamente addurà. È una richiesta,
questa, non solo abbastanza prosaica (se non proprio da taverna)
ma anche priva di quella necessaria schermaglia amorosa, di quel
gioco di astuzie e provocazioni, di quella gioiosità fresca ed
ingenua che avrebbero potuto rendere piacevole la lettura dei
versi. Ma se anni prima la causa del successo della canzone
La rosa nei morigerati e bigotti salotti ottocenteschi
potrebbe essere stato proprio il fascino osé del doppio senso e
della trasgressività dissimulata, altrettanto può certamente
dirsi per Ninuccia.
La “Rose de Tolède” si
connota in realtà di aspetti ambigui, il fatto di poterla
incontrare a Tuleto ogni “sera” (e non ogni “giorno”) le
conferisce dei tratti equivoci da prostituta o da cocotte,
tratti questi accentuati anche dall’assimilazione del
personaggio all’immagine della rosa-vagina: Ninuccia è sì una
donna ma fondamentalmente è una «rosa», cioè è una «vagina». Il
protagonista, più che essere innamorato della donna, appare
irresistibilmente attratto da lei, più che volerle vivere
accanto sembra mosso da un incontenibile desiderio di
possederla. Ma proprio l’ambiguità della narrazione permette a
De Curtis di scansare quasi sempre l’aperta volgarità potendo
così disegnare dei versi scanzonati e maliziosi, da gustare
nella loro veste melodica giocosa e accattivante, capaci di
trascinare al sorriso sia chi canta che chi ascolta.
L’autore della musica,
Valente, malgrado il suo indiscusso valore, è un vero Carneade
per i non addetti ai lavori. Ma qualcosa di simile accade ancora
oggi con i moderni autori: di una canzone se ne conosce
l’interprete, il testo, la musica, a volte anche l’anno di
pubblicazione ma quanti si accorgono dei suoi autori (se diversi
dagli esecutori)? In questo senso Malafemmena,
universalmente conosciuta come opera di Totò è una vera
eccezione dovuta alla straordinaria personalità del suo autore.
Valente, per quanto genio di "multiforme ingegno", capace di
passare con successo per tutti i generi musicali, quelli più e
quelli meno impegnativi (dagli scherzi musicali, alle
canzoni popolareggianti, dalle serenate alle
operette alle opere buffe, dalle canzoni per
Piedigrotta alla musica per banda alla macchietta
a... ogn’altro possibile e immaginabile ambito musicale), e sia
considerato uno dei padri della canzone classica napoletana, ha
lasciato tracce non troppo rilevanti della sua enorme
produzione. Delle oltre 500 canzoni da lui composte resta quasi
solo Tiempe belle e poco altro pure se egli è autore di
diverse composizioni notevoli (’A sirena, ’E
ccerase!..., Manella mia!, …). Si pensi che la
canzone All’erta sentinella, di Salvatore Di Giacomo,
viene musicata sia da Mario Costa che da Vincenzo Valente ma è
la versione del Valente che si impone come quella definitiva e
che viene eseguita per la prima volta la sera di Piedigrotta del
1891.
Il perché dell’oblio del
grande maestro potrebbe spiegarsi con il fatto che Valente non
riesce a scrivere un capolavoro riconosciuto ed apprezzato sulla
ribalta internazionale, cantato in Inghilterra, come in Francia,
negli Stati Uniti come in Argentina, … e ciò forse anche perché
non adeguatamente supportato dai grandi tenori capaci di portare
una canzone in giro per il mondo. Mentre Costa compone diversi
brani di enorme successo all’estero e Tosti ne centra due (Marechiaro
e ’A vucchella) e De Leva uno solo (’E spingule
frangese), Valente non ne produce alcuno. Pure è
conosciutissimo ed apprezzato in Francia tanto che ad un certo
momento della sua vita decide di emigrare a Parigi.
Ninuccia
è una pagina musicale maliziosa e rilassante che sa brillare per
la levità dell’accento, mantenendosi sempre gaia e leggera. La
melodia, un allegretto moderato sul ritmo brioso e polivalente
del 6/8
nel quale la scala
maggiore crea un clima sonoro piuttosto solare, è pregna di
spirito di avventura galante, appena sfiorato da un accenno di
malinconia. Ricca di grazia e di spirito, romantica e arguta
insieme, la canzone unisce all’eleganza della frase musicale
un’armonia elaborata e fine. La musica si srotola fluida,
schietta, fresca, vivace e così semplice da raggiungere una
efficacia immediata per toni ed accenti popolari. L’ascolto
restituisce un sapore di grazia tutta partenopea, un profumo di
musica piena di verve insieme con la sensazione della fragranza
dei ricordi nei quali si inseguono tanti echi di canzoni
cantate, tanti fantasmi di ardori vissuti, tanta spensieratezza
maliziosa ed innocente ad un tempo.
Ninuccia non ha
trovato molti estimatori tra i grandi cantanti: la maggior parte
dei big del Novecento l’ha trascurata, con l’eccezione di Elvira
Donnarumma e della «donna più bella del mondo», Lina Cavalieri,
la prima interprete della canzone, nota sia per il suo
repertorio napoletano di varietà, sia come cantante lirica.
Poche sono le voci liriche di cui si conservano le incisioni:
Enzo De Muro Lomanto, Gabriele Vanorio, Vittorio Parisi. Oltre
che da Roberto Murolo il brano è stato eseguito da Giulietta
Sacco, Nino Fiore e Carlo Missaglia.