Note e Versi Meridiani

 

 

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Ninuccia

(La Rose de Tolède)

Saggio sulla canzone di Renato Gargiulo

 

Ninuccia è una canzone del 1894 di buona qualità ma niente più di questo [1], nonostante sia opera di due tra i più validi autori di canzoni napoletane: Giambattista De Curtis e Vincenzo Valente. De Curtis ha il vanto di aver firmato due canzoni di fama internazionale, Carmela e Torna a Surriento, oltre che numerosi altri successi (Amalia, ’A muntanara, ’A surrentina, ’I m’arrircordo ’e te (Lucia Lucì), …). Valente è uno dei più validi ed eclettici compositori del suo tempo, non inferiore nemmeno a Costa, ed universalmente stimato ed apprezzato.

Giambattista De Curtis è un artista poliedrico: pittore, decoratore, autore teatrale, poeta e musicista. Non credo si sia distinto molto nelle prime due attività visto che non viene mai citato per qualche suo quadro o per i suoi affreschi all’Imperial Hotel Tramontano di Sorrento. Limitate, poi, sono le notizie sui suoi lavori teatrali che non hanno lasciato alcuna traccia. Riguardo alle sue qualità poetiche il Dizionario Biografico Treccani dedica al nostro autore una breve ma esauriente monografia, mentre Enrico Malato non ritiene di doverlo inserire nella sua Poesia Dialettale Napoletana. Viceversa Ettore De Mura nel suo Poeti Napoletani dal Seicento ad oggi, lo cita con l’appellativo di “Salvator Rosa contemporaneo” e ne dà un giudizio lusinghiero (ma difficilmente De Mura esprime giudizi negativi). Sebastiano Di Massa, che erroneamente ritiene il poeta di Sorrento (De Curtis nasce a Napoli), lo colloca tra i “canzonieri”, cioè tra i verseggiatori capaci di scrivere solo belle canzoni (quindi sarebbe, diciamo così, un poeta minore).

Nelle sue composizioni più riuscite la bellezza della natura, ed in particolare di Sorrento, svolge un ruolo fondamentale nella sua ispirazione perché egli sa ampliare le vibrazioni del paesaggio e porle in risonanza con le sue emozioni e perché la sua capacità creativa è vissuta come intensa soddisfazione dell’anima, espressione mirabile che eleva i sentimenti, i quali, proiettati nell’incanto dell’ambiente circostante si placano, sublimano, si innalzano, assumendo la dolcezza del canto. La poesia migliore di questo pittore-poeta è, perciò, tutta colore e sentimento, con caratteri di spontaneità, immediatezza, semplicità di sentimento nei quali la natura assume le tonalità del suo stato d’animo. La spontaneità e l’immediatezza, però, spesso sono un limite per De Curtis perché non lasciano spazio allo scavo interiore, alla riflessione, al superamento dell’esperienza sensibile ponendolo così nella condizione di autore facile, di abile versificatore adatto al salotto per il contenuto amoroso ed allusivo delle sue composizioni. Malgrado questi limiti ed il fatto egli il più delle volte non riesca ad innalzarsi dal lavoro di routine e dall’ovvietà bisogna tuttavia riconoscere nei suoi versi, al di là delle immagini proposte, un impeto ed una passione sincera ed un entusiasmo coinvolgente.

Nel caso specifico, Ninuccia, non è certamente un brano che arricchisce lo scenario della poesia napoletana. Poco sentita, poco ispirata, impostata come una favoletta (Se dice che a Tuleto nc’è ’na rosa / che cchiù d’’o sole li bellizze tene), intrisa di malizia, tratta di una donna, Ninuccia, la rosa oggetto del desiderio del poeta, la rosa che è possibile incontrare ogni sera (sic!) a Toledo[2]. Eccone il testo:

                           I

Se dice che a Tuleto nc’è ’na rosa

che cchiù d’’o sole li bellizze tene:

È sempe fresca e sempe cchiù addurosa;

tanta ch’è bella chi v’’o po’ cuntà!

I’ nun voglio gran cosa,

i’ nun cerco nu regno;

ma vurria chella rosa

solamente addurà.

                           II

I’ si tenesse ’a voce e ’o ppoco ’e sorte

me faciarrie sentì cu sta canzone;

Ninuccia mia, pe’ te ne piglio ’a morte,

stu core nun se vo’ capacità.

I’ nun voglio gran cosa,

i’ nun cerco nu regno;

ma vurria chella rosa

solamente addurà.

                           III

I’ passo pe’ Tuleto tutte ’e ssere

’a guardo e nun me stanco d’’a guardà:

’a penso e nun me lassa stu penziere...

e doppo muorto chi s’’a vo’ scurdà!

I’ nun voglio gran cosa,

i’ nun cerco nu regno;

ma vurria chella rosa

solamente addurà.

Come è facile evincere la rosa di cui parla il poeta non è soltanto il nome usato per indicare Ninuccia ma anche un modo dissimulato per riferirsi alla sua “passerina”. La rosa come allusione al sesso femminile non è una metafora nuova: già in diverse altre canzoni precedenti è possibile trovare il termine “rosa” come figurazione della vagina. Così ne La Fata di Amalfi si legge l’espressione «Ma la rosa s’è sfrunnata…» per indicare la perdita dell’illibatezza della donna mentre nella Tarantella napoletana di Marco D’Arienzo troviamo

Tu porzì tiene na cosa,

Carmenè, che fa pe mme:

È na bella e fresca rosa

Che cchiù cara, no, non c’è.

Pe no poco, no momento

Dalla a me, sperenno io sto:

Famme, sì, famme contento,

Carmenè, dammella mo.

quale richiesta di prestazione sessuale e la stessa richiesta è presente ne Lo rialo di Giacobbe di Capua:

Ma io saccio che t’è cara

Sta rosa che t’abbella;

Dammè dammè dammella, …

Salvatore Di Giacomo ci informa poi che, nel 1855 nei salotti-bene napoletani furoreggiava La rosa, attribuita a Marco D’Arienzo, che sull’argomento rosa-sesso è ancora più esplicita delle precedenti canzoni citate:

Sta rosa ca pretienne

manco la può guardà!

...................................

quanno te dò lo core

sta rosa toja sarà...

Quando De Curtis scrive questa canzone ha 34 anni ed è un bel giovane gaudente, amante delle belle donne e della bohème spensierata e sregolata della Bella Époque. Le poesie che scrive in questi anni ritraggono in modo arguto ed allusivo donne incontrate nelle sue frequenti ed occasionali avventure galanti e forse Ninuccia potrebbe essere fra queste. La canzone appartiene comunque a un filone della sua ispirazione che non è quello migliore perché in esso manca quella componente essenziale per il pittore quale egli è: quel paesaggio la cui importanza, come già visto, è fondamentale per la sua vena creatrice.

Ninuccia, rispecchia, tra il sentimentale e il malizioso, il romanticismo galante di fine Ottocento. In particolare, nel ritornello il poeta afferma candidamente di contentarsi di “poco” da Ninuccia (I’ nun voglio gran cosa, / i’ nun cerco nu regno), in realtà, invece, sta chiedendo “molto”: ... vurria chella rosa / solamente addurà. È una richiesta, questa, non solo abbastanza prosaica (se non proprio da taverna) ma anche priva di quella necessaria schermaglia amorosa, di quel gioco di astuzie e provocazioni, di quella gioiosità fresca ed ingenua che avrebbero potuto rendere piacevole la lettura dei versi. Ma se anni prima la causa del successo della canzone La rosa nei morigerati e bigotti salotti ottocenteschi potrebbe essere stato proprio il fascino osé del doppio senso e della trasgressività dissimulata, altrettanto può certamente dirsi per Ninuccia.

La “Rose de Tolède” si connota in realtà di aspetti ambigui, il fatto di poterla incontrare a Tuleto ogni “sera” (e non ogni “giorno”) le conferisce dei tratti equivoci da prostituta o da cocotte, tratti questi accentuati anche dall’assimilazione del personaggio all’immagine della rosa-vagina: Ninuccia è sì una donna ma fondamentalmente è una «rosa», cioè è una «vagina». Il protagonista, più che essere innamorato della donna, appare irresistibilmente attratto da lei, più che volerle vivere accanto sembra mosso da un incontenibile desiderio di possederla. Ma proprio l’ambiguità della narrazione permette a De Curtis di scansare quasi sempre l’aperta volgarità potendo così disegnare dei versi scanzonati e maliziosi, da gustare nella loro veste melodica giocosa e accattivante, capaci di trascinare al sorriso sia chi canta che chi ascolta.

L’autore della musica, Valente, malgrado il suo indiscusso valore, è un vero Carneade per i non addetti ai lavori. Ma qualcosa di simile accade ancora oggi con i moderni autori: di una canzone se ne conosce l’interprete, il testo, la musica, a volte anche l’anno di pubblicazione ma quanti si accorgono dei suoi autori (se diversi dagli esecutori)? In questo senso Malafemmena, universalmente conosciuta come opera di Totò è una vera eccezione dovuta alla straordinaria personalità del suo autore. Valente, per quanto genio di "multiforme ingegno", capace di passare con successo per tutti i generi musicali, quelli più e quelli meno impegnativi (dagli scherzi musicali, alle canzoni popolareggianti, dalle serenate alle operette alle opere buffe, dalle canzoni per Piedigrotta alla musica per banda alla macchietta a... ogn’altro possibile e immaginabile ambito musicale), e sia considerato uno dei padri della canzone classica napoletana, ha lasciato tracce non troppo rilevanti della sua enorme produzione. Delle oltre 500 canzoni da lui composte resta quasi solo Tiempe belle e poco altro pure se egli è autore di diverse composizioni notevoli (’A sirena, ’E ccerase!..., Manella mia!, …). Si pensi che la canzone All’erta sentinella, di Salvatore Di Giacomo, viene musicata sia da Mario Costa che da Vincenzo Valente ma è la versione del Valente che si impone come quella definitiva e che viene eseguita per la prima volta la sera di Piedigrotta del 1891.

Il perché dell’oblio del grande maestro potrebbe spiegarsi con il fatto che Valente non riesce a scrivere un capolavoro riconosciuto ed apprezzato sulla ribalta internazionale, cantato in Inghilterra, come in Francia, negli Stati Uniti come in Argentina, … e ciò forse anche perché non adeguatamente supportato dai grandi tenori capaci di portare una canzone in giro per il mondo. Mentre Costa compone diversi brani di enorme successo all’estero e Tosti ne centra due (Marechiaro e ’A vucchella) e De Leva uno solo (’E spingule frangese), Valente non ne produce alcuno. Pure è conosciutissimo ed apprezzato in Francia tanto che ad un certo momento della sua vita decide di emigrare a Parigi.

Ninuccia è una pagina musicale maliziosa e rilassante che sa brillare per la levità dell’accento, mantenendosi sempre gaia e leggera. La melodia, un allegretto moderato sul ritmo brioso e polivalente del 6/8 nel quale la scala maggiore crea un clima sonoro piuttosto solare, è pregna di spirito di avventura galante, appena sfiorato da un accenno di malinconia. Ricca di grazia e di spirito, romantica e arguta insieme, la canzone unisce all’eleganza della frase musicale un’armonia elaborata e fine. La musica si srotola fluida, schietta, fresca, vivace e così semplice da raggiungere una efficacia immediata per toni ed accenti popolari. L’ascolto restituisce un sapore di grazia tutta partenopea, un profumo di musica piena di verve insieme con la sensazione della fragranza dei ricordi nei quali si inseguono tanti echi di canzoni cantate, tanti fantasmi di ardori vissuti, tanta spensieratezza maliziosa ed innocente ad un tempo.

Ninuccia non ha trovato molti estimatori tra i grandi cantanti: la maggior parte dei big del Novecento l’ha trascurata, con l’eccezione di Elvira Donnarumma e della «donna più bella del mondo», Lina Cavalieri, la prima interprete della canzone, nota sia per il suo repertorio napoletano di varietà, sia come cantante lirica. Poche sono le voci liriche di cui si conservano le incisioni: Enzo De Muro Lomanto, Gabriele Vanorio, Vittorio Parisi. Oltre che da Roberto Murolo il brano è stato eseguito da Giulietta Sacco, Nino Fiore e Carlo Missaglia.


Note

[1] un indizio del minor successo nel tempo di questa canzone è costituito dal fatto che l'editore Bideri raramente ne ha pubblicato lo sparito in qualche raccolta. Lo spartito originale porta l'indicazione “Canzone per Piedigrotta 1894” con la copertina illustrata da P. Scoppetta. L'album di spartiti per piano dedicato specificamente ai fratelli De Curtis non contiene la canzone. È presente invece nella raccolta 'O sole mio (edizione Bideri per canto e piano) con il sottotitolo La rose de Tolède e, curiosamente, con il testo sul rigo musicale in lingua francese. Questa stranezza, voluta o accidentale, può spiegarsi con il fatto che diverse canzoni napoletane sono all'epoca popolarissime a Parigi: vengono cantate nei salotti e in tutti i Café-chantants della città. Lo spartito di Ninuccia, ripubblicato dall'editore Franco Di Mauro conserva il testo in francese.

[2] il nome Toledo può riferirsi sia alla città spagnola che alla strada napoletana. La terza strofa (I’ passo pe’ Tuleto tutte ’e ssere) ci fa capire che l’autore si riferisce alla strada. Questa a Napoli non è una via qualunque, è sempre stata una delle sue arterie principali, centro artistico e mondano, sede di banche e di negozi di lusso: la strada dello struscio. Ma è anche la via che segna il confine con i Quartieri Spagnoli, sede storica della prostituzione. Per una decisione demenziale del sindaco Paolo Emilio Imbriani dal 1870 (e purtroppo fino al 1980) è stata ribattezzata via Roma: una scelta inspiegabile visto che il nome non celebrava nessuno degli odiati Borbone (di cui si voleva cancellare la memoria storica) ma solo il più significativo viceré spagnolo di Napoli. Il popolino, però, non ha mai accettato questo cambio lasciando il nuovo nome soltanto ad uso dei postini. Riccardo Pazzaglia, nel 1955, nella canzone Io, mammeta e tu continua a chiamarla, giustamente, come ogni buon napoletano: Tuleto.

Renato Gargiulo


Pubblicazione de Il Portale del Sud, Luglio 2016

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