La figura della Nina Siciliana (o Nina da Messina o,
ancora, “Monna Nina”), resta avvolta nel mistero. Di questa poetessa
della fine del XIII secolo, non ci è dato conoscere il nome completo
e il cognome né, tantomeno, il luogo di nascita. Secondo l’Allacci
ed il
Ragusa
era di
Messina, secondo il Mongitore
,
di Palermo; ma sono solo supposizioni derivanti dall’attestazione
sul territorio del nome “Nina”, nel periodo in cui visse.
Il poeta toscano Dante da Maiano se ne invaghì senza
neppure conoscerla, a causa dei suoi versi; e le scrisse un sonetto
. Ella gli
rispose con altro sonetto
intrattenendo, così, uno scambio epistolare poetico ed una relazione
amorosa platonica. Questo rapporto portò a ricordarla anche come “La
Nina del Dante”.
La sua importanza consiste nel fatto che è stata la
prima donna, di cui si abbia notizia, a poetare in volgare. C’è chi
le fa contendere tale primato da una certa Gaia, figlia di Gherardo
da Camino, menzionata nella Divina Commedia, della quale, però, a
differenza di Nina, non c’è arrivato alcuno scritto; o dalla
fiorentina dallo pseudonimo di “Compiuta Donzella”, altra figura
leggendaria senza precisa identità, di cui ci sono giunti tre
sonetti.
Della Nina Siciliana, invece, abbiamo un
sonetto contenuto nella raccolta “Sonetti e canzoni di diversi
antichi autori toscani”,
edita da Giunti nel 1527 a Firenze - e,
per ciò, detta comunemente “Giuntina di Rime Antiche” - dove
si possono trovare anche i sonetti e gli altri componimenti del
“suo” Dante da Maiano. Il Trucchi,
per primo, le attribuisce anche il sonetto “Tapina me”, presente nel
codice Vaticano latino 3793, di fine XIII sec. o inizio XIV, che
definisce “un prezioso gioiello”; quale realmente è:
“Tapina
me che amava uno sparviero, amaval tanto ch'io me ne
moria;
a lo richiamo ben m'era maniero, ed unque troppo pascer
nol dovia.
Or è montato e salito sì altero, assai più altero che
far non solia;
ed è assiso dentro a un verziero, e un'altra donna l'averà
in balìa.
Isparvier mio, ch'io t'avea nodrito; sonaglio d'oro ti
facea portare,
perchè nell'uccellar fossi più ardito. Or sei salito
siccome lo mare,
ed hai rotto li geti e sei fuggito, quando eri fermo nel
tuo uccellare.” |
I dubbi da parte di alcuni letterati, specie quelli di
qualche secolo fa, sulla reale esistenza di “Nina” non son dovuti
soltanto alla mancanza di dati storici ma, probabilmente, anche alla
loro ritrosia ad accettare che una donna, in quel preciso periodo
storico in cui l’analfabetismo femminile era particolarmente
diffuso, potesse passare da oggetto a soggetto del cantare in versi,
conseguendo, per di più, un volgare che il De Sanctis prende come
“esempio della eccellenza a cui era venuto”.
Eppure, proprio alcuni decenni prima, nel sud della
Francia, un gruppo di circa venti donne, le cosiddette trobairitz,
cantò con successo la fin’amors al femminile. La loro reale
esistenza è stata accertata senza lasciare margini al dubbio; ma
pure per esse, nel passato, alcuni studiosi avevano mostrato tutto
il loro scetticismo in proposito. Si nota una certa affinità tra
l’unico componimento giuntoci di una delle trobairitz,
Alamanda de Castelnau, e la produzione della Nina Siciliana; se Nina
è realmente vissuta, è possibile che lesse i componimenti delle sue
“colleghe” provenzali che, come certamente accadeva per quelli dei
trovatori, probabilmente circolavano nelle corti e negli ambienti
colti siciliani dell’epoca.
Fonso Genchi
Bibliografia
“Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani” (Eredi Filippo
di Giunta, 1537), Firenze, 1728.
Francesco Trucchi, “Poesie italiane di dugento autori”, Prato, 1846.
Vincenzo Nannucci,
“Manuale della letteratura del primo secolo della lingua italiana”,
Firenze, 1856.
Francesco De Sanctis, “Storia della Letteratura Italiana” (vol. I),
Napoli, 1870
Giuseppe Maria Mira, “Gran Dizionario Bibliografico”, Palermo, 1875.
Adolfo Borgognoni, “Studi d'erudizione e d'arte”, Bologna, 1877.
Paola Malpezzi Price, “Uncovering women’s writings: two early
Italian women poets” in “Journal of the Rocky Mountains
Medieval and Renaissance Association”,
USA, 1988.
Claudio Giunta, "Versi a un destinatario: saggio sulla poesia
italiana del Medioevo", Bologna, 2002.
“La lode e ‘l pregio e ‘l senno
e la valenza ch’aggio sovente audito nominare,
gentil mia
donna, di vostra plagenza m’han fatto coralmente ennamorare,
e miso tutto
in vostra conoscenza di guisa tal, che già considerare
non degno mai
che far vostra voglienza: sì m’ha distretto Amor di voi
amare.
Di tanto
prego vostra segnoria: in loco di mercede e di pietanza
piacciavi sol
ch’eo vostro servo sia; poi mi terraggio, dolze donna mia,
fermo d’aver compita
la speranza di ciò che lo meo core ama e disia.”
“Qual
sete voi, si cara proferenza, che
fate a me senza voi mostrare?
Molto m'agenzeria
vostra parvenza, perché meo cor podesse dichiarare.
Vostro
mandato aggrada a mia intenza; in gioja mi conteria d'udir
nomare
lo vostro
nome, che fa proferenza d'essere sottoposto a me innorare.
Lo core meo
pensare non savria nessuna cosa, che sturbasse amanza,
così affermo,
e voglio ognor che sia, d' udendovi parlar è voglia mia:
se vostra
penna ha bona consonanza col vostro core, ond' ha tra lor
resia?”
Pubblicato nel mese di Gennaio
2011 |